venerdì 26 dicembre 2014

«E per rimedio soltanto il dormire»: la riflessione leopardiana di Francesco Guccini

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 settembre 2013)



Mio vecchio amico di giorni e pensieri / da quanto tempo che ci conosciamo,
venticinque anni son tanti e diciamo / un po' retorici che sembra ieri.
Invece io so che è diverso e tu sai / quello che il tempo ci ha preso e ci ha dato:
io appena giovane sono invecchiato, / tu forse giovane non sei stato mai.
Ma d'illusioni non ne abbiamo avute, / o forse si, ma nemmeno ricordo,
tutte parole che si son perdute / con la realtà incontrata ogni giorno.
Chi glielo dice a chi è giovane adesso / di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare / perché ogni volta è poi sempre lo stesso.
Eppure il mondo continua e va avanti / con noi o senza e ogni cosa si crea
su ciò che muore e ogni nuova idea / su vecchie idee e ogni gioia su pianti.
Ma più che triste ora è buffo pensare / a tutti i giorni che abbiamo sprecati,
a tutti gli attimi lasciati andare / e ai miti belli delle nostre estati.
Dopo l'inverno e l'angoscia in città / quei lunghi mesi sdraiati davanti,
liberazione del fiume e dei monti / e linfa aspra della nostra età.
Quei giorni spesi a parlare di niente / sdraiati al sole inseguendo la vita,
come l'avessimo sempre capita, / come qualcosa capito per sempre.
Il mio Leopardi, le tue teologie: / «Esiste Dio?». Le risate più pazze,
le sbornie assurde, le mie fantasie, / le mie avventure in città con ragazze.
Poi quell'amore alla fine reale / tra le canzoni di moda e le danze:
«È in gamba sai, legge Edgar Lee Masters». Mi ha detto no, non dovrei mai pensare.

Le sigarette con rabbia fumate, / i blue jeans vecchi e le poche lire,
sembrava che non dovesse finire, / ma ad ogni autunno finiva l'estate.
Poi tutto è andato e diciamo siam vecchi, / ma cosa siamo e che senso ha mai questo
nostro cammino di sogni fra specchi, / tu che lavori quand'io vado a letto.
Io dico sempre non voglio capire, / ma è come un vizio sottile e più penso
più mi ritrovo questo vuoto immenso / e per rimedio soltanto il dormire.
E poi ogni giorno mi torno a svegliare / e resto incredulo, non vorrei alzarmi,
ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi / le mie domande, il mio niente, il mio male.
Quando nell'estate del 2004 fu informato che la sua Canzone per Piero era stata inclusa tra i documenti che gli studenti maturandi avevano potuto consultare per svolgere il tema di ambito artistico-letterario, è possibile che Francesco Guccini, pur lusingato per la nobile "compagnia" di autori quali Dante, Verga e Manzoni, abbia pensato: «Strano, manca il mio Leopardi». Non è un segreto infatti che il cantautore modenese apprezzi enormemente l'opera del grande scrittore di Recanati, i cui versi hanno ispirato diverse sue celebri ballate. In Canzone per Piero il nome del poeta è citato in una delle strofe finali, e di certo non è un caso. Forse non è stato un unico componimento, in prosa o in versi, a fare da musa a Guccini: certo però è che, senza troppe forzature, un accostamento tra Francesco (il cantautore) e Piero da una parte e Porfirio e Plotino – i due filosofi neoplatonici protagonisti di un noto dialogo delle Operette morali – dall'altra consente quantomeno di ipotizzare una fonte plausibile.
In Canzone per Piero Guccini esordisce rivolgendosi all'amico ed evocando il tempo passato trascorso insieme. Venticinque anni separano i due dal loro primo incontro: possono sembrare tanti, eppure «sembra ieri». Il ricordo, come per il Leopardi di Alla luna, edulcora anche i momenti di più acuta sofferenza, col risultato che persino un quarto di secolo pare ridursi a poche sensazioni, a pochi attimi.
Francesco e Piero sono però coscienti che, dopo tanto tempo, è cambiata la percezione del presente, ed è maturata la consapevolezza reciproca di non essere mai stati realmente giovani. «D'illusioni», tipiche della giovinezza, «non ne abbiamo avute»: la prospettiva cioè di concedersi delle aspettative per il futuro si è sempre scontrata «con la realtà incontrata ogni giorno».
Gli sfrenati ottimismi dei giovani d'oggi (si noti che la canzone è del 1974, in piena età della contestazione) sono destinati a sbattere contro il muro dell'errore, che si ripete eterno, «fino al disgusto di ricominciare». Un po' come la leopardiana Silvia, personificazione della speranza, che cade «all'apparir del vero».
«Eppure il mondo continua e va avanti», prosegue Guccini, ed è inutile (e quindi allo stesso tempo sia «triste» che «buffo») rimpiangere il passato, riscrivere la propria storia personale con i "se". Ma l'uomo è come costretto a ricordare: ed ecco quindi che affiorano inesorabili le immagini dei bei momenti trascorsi sui monti (il riferimento è a Pavana, dove oggi il cantautore vive), lontano dall'«angoscia» della città, simbolo dei turbamenti interiori in contrapposizione con l'Appennino, luogo senza luoghi dove un tempo pareva possibile «parlare di niente sdraiati al sole inseguendo la vita».
Il dialogo tra i due amici poteva vertere indifferentemente su argomenti elevati («il mio Leopardi, le tue teologie») o fatti banali, come «le sbornie assurde», «le sigarette con rabbia fumate», i pochi soldi a disposizione o le avventure amorose. Una di queste, in particolare, colpì il giovane Francesco. Ma non si trattava di una ragazza come le altre: leggeva le poesie di Edgar Lee Masters, il che pare quasi una giustificazione fornita a Piero di quell'ingenuo abbandono ad un'avventura sentimentale che, ora è chiaro, non avrebbe potuto procurare nient'altro che disillusione e dolore. Ed è per questo, riflette il Francesco di oggi, che «non dovrei mai pensare».
Che senso ha quindi, da vecchi, «questo nostro cammino», imprevedibile come le immagini (i «sogni») multiformi riflesse «da specchi»? Francesco ribadisce quanto detto poco prima: «Io dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso più mi ritrovo questo vuoto immenso». Ovvero, come Filemazio che nella celebre Bisanzio (altro capolavoro gucciniano) confonde vita e morte e si addormenta, sarebbe meglio non pensare, l'unico rimedio sarebbe il dormire: ma tutto è inutile, perché l'uomo non può fare a meno di riflettere sul senso della propria vita.
Il sonno, ovvero la morte delle aspettative e delle paure legate al futuro, è una chimera. Francesco è «incredulo» tutte le volte che si sveglia, ma non ha alternative: vive, o meglio convive, con le sue domande, il suo niente, il suo male, e forse l'unico conforto, ciò che dà un briciolo di senso alla sua vita, è proprio la condivisione delle sue angosce con Piero. È l'amico, e più in generale il legame affettivo con le persone care, a destare Francesco dal suo sonno e ad impedire che diventi perpetuo.
Anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio due amici discorrono sul senso dell'esistenza. Porfirio, che avverte un forte «fastidio della vita», un tedio «che si assomiglia a dolore e a spasimo», non riesce ad accettare «la vanità di ogni cosa» e pertanto difende la liceità del suicidio come gesto consapevole di ribellione contro la natura «matrigna», cagione di tutti i mali dell'uomo.
Plotino, pur accettando l'idea che la vita sia un «quasi carcere», cerca di distogliere l'amico dall'intenzione di uccidersi: ma ogni sua argomentazione è efficacemente contrastata da Porfirio, per il quale la morte è un «porto», non una «tempesta». Nemmeno la religione può dare conforto, dal momento che promette un «guiderdone» (una ricompensa) la cui presunta «dolcezza […] è nascosa, ed arcana», e la cui inconsistenza fa apparire persino una «crudeltà» ogni illusione di vita ultraterrena. Meglio dunque, direbbe Guccini, il sonno; meglio, afferma Porfirio, la cessazione di ogni male, la morte.
Non ha senso, del resto, sostenere che l'«atto dell'uccidersi» sia «contrario a natura»: come può dirsi tale, prosegue Porfirio, l'unico modo che hanno gli uomini di sfuggire all'infelicità, essendo istinto naturale avere «amore del nostro meglio»? E poi, se anche così fosse, per quale motivo all'uomo – membro di una civiltà che ha dimenticato i «costumi primitivi e silvestri» – è lecito vivere ma non «morire contro natura»?
L'uomo, dopo avere abbandonato, con la ragione, il primitivo stato di natura, ne ha acquisito un altro, incivilendosi: perché dunque, continua Porfirio, «questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva», che è quella che impedisce agli animali di desiderare la morte? La verità è che «la noia stessa e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita»; il che vale anche (e anzi, soprattutto) per coloro che, trovandosi «in sulla cima di quella che chiamasi felicità umana», non possono sperare che il domani sia meglio dell'oggi.
A queste argomentazioni Plotino fatica a ribattere, ed è anzi costretto infine ad ammettere che possa definirsi «ragionevole l'uccidersi». Nondimeno, egli ritiene che «quantunque sia [...] diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla»; e che pertanto sia innato nell'uomo un istinto di conservazione della propria vita che merita quantomeno di essere rispettato, pur se incomprensibile razionalmente. Del resto, se la vita «è cosa di tanto piccolo rilievo», non ha senso che ci si preoccupi più di tanto «né di ritenerla né di lasciarla».
Questa riflessione precede il ragionamento conclusivo di Plotino, l'unico, in realtà, che Porfirio non possa contestare. Il suicidio, cioè, è un atto di egoismo che un uomo non può permettersi di compiere, poiché «non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici» rappresenta «il men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo». Il peso della noia che rende detestabile la vita può essere alleviato solo dalla condivisione della sofferenza con le persone care, alle quali non è giusto, è «inumano» arrecare deliberatamente dolore. La vita, del resto, è cosa breve: e «quando la morte verrà – conclude Plotino rivolgendosi all'amico –, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora».
Al vivere, dunque non c'è alternativa. La morte, come il sonno di Guccini, sarà la fine del nostro patire, ma è una frontiera che non possiamo desiderare di oltrepassare, è un qualcosa che ci sfugge, come la vita. La consapevolezza di essere importanti per qualcuno (e qualcuno che tiene a noi c'è sempre) ci desta dal sonno in cui vorremmo inconsciamente sprofondare, ci proibisce l'egoismo della ribellione: come Francesco ritrova in Piero un pretesto per ricordare, sforzandosi di capire il passato alla luce del presente, così Porfirio accetta, discutendo con Plotino, di mettere in dubbio le proprie convinzioni. E concede a Plotino la possibilità di dimostrare che quella di congedarsi dal mondo non può essere una scelta proprio perché in fondo è lo stesso dialogo, l'idea di condividere la sofferenza con l'amico, che gli dà conforto.

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domenica 14 dicembre 2014

«Una questione privata»: l’esperienza totalizzante della guerra partigiana

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 dicembre 2014)

Apparso postumo nella primavera del 1963 – pochi mesi dopo la scomparsa del suo autore, Beppe Fenoglio – Una questione privata è un romanzo per certi versi unico nell’ambito della letteratura resistenziale. In esso infatti la lotta partigiana fa da sfondo a una vicenda di poco conto, che coinvolge il protagonista a livello strettamente personale; e la guerra è niente più di un dato di fatto, un’esperienza che va accettata e con la quale bisogna forzatamente convivere.
Una questione privata è la storia di una ricerca. Nel corso di un’azione militare ad Alba (nelle Langhe), il partigiano Milton (studente poco più che ventenne) si imbatte nella villa dove, nei primi anni di guerra, si era rifugiata Fulvia, la ragazza di cui è perdutamente innamorato. La casa è vuota: Fulvia, sfollata ad Alba da Torino per timore dei bombardamenti, dopo l’8 settembre del 1943 ha fatto ritorno in città, nel frattempo divenuta più sicura delle campagne, teatro di rastrellamenti e rappresaglie.
Per Milton rivedere la villa è un modo per sentirsi nuovamente vicino alla ragazza che ama («Arrivò sotto il portichetto. “Fulvia, Fulvia, amore mio”. Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi»). Ma Fulvia è partita, e nella casa è rimasta solo la custode, che prontamente riconosce Milton. Questi le chiede il permesso di entrare, attratto dalla prospettiva di rievocare il ricordo delle lunghe giornate trascorse a chiacchierare con Fulvia, quasi sempre di letteratura, poesie e canzoni americane (di cui è esperto conoscitore e che traduce senza difficoltà). A un tratto, però, la governante insinua nella mente del giovane un atroce dubbio: è più che probabile che Fulvia se la intendesse con Giorgio, un bel ragazzo di Alba, amico di Milton e ora come lui partigiano: «Loro due non li sentivo mai parlare. Io origliavo [...]. Ma c’era sempre un silenzio, quasi non ci fossero. E io non stavo per niente tranquilla. Ma non dica queste cose al suo amico, mi raccomando. Si misero a far tardi, ogni volta più tardi. Fossero sempre rimasti qui fuori, sotto i ciliegi, non mi sarei preoccupata tanto. Ma cominciarono a uscire a passeggio. Prendevano per la cresta della collina».
Per Milton la rivelazione è sconcertante. Immediatamente decide che deve sapere, deve a tutti i costi conoscere la verità sul presunto tradimento di Fulvia. Chiede dunque un permesso al comando partigiano per poter andare alla ricerca di Giorgio, giacché è convinto che gli basti incrociare gli occhi con quelli dell’amico per avere conferma (o smentita) delle parole della custode della villa. Ma Giorgio non si trova: nessuno, tra i compagni partigiani, sa dove sia finito, finché un contadino non rivela di averlo visto legato su un carro, tenuto prigioniero da alcuni fascisti.
La cattura di Giorgio rappresenta un altro duro colpo per Milton, che teme che il suo amico venga giustiziato, portandosi nella tomba l’agognata verità su Fulvia. L’unica soluzione è quella di trovare al più presto un prigioniero da scambiare con Giorgio: ma al momento nessuna brigata della zona è in grado di fornirne uno. A Milton non resta, pertanto, che fare da sé, e, dopo infruttuosi tentativi, la sua ricerca viene premiata dalla preziosa informazione che riceve da una vecchia: un ufficiale nemico ha una relazione con una donna che abita nei pressi di Alba (dove Giorgio è tenuto prigioniero), e si reca spesso furtivamente in casa sua. È addirittura un sergente, quindi una preziosa moneta di scambio. Milton gli tende con successo un’imboscata, riesce a catturarlo, ma è costretto a freddarlo quando questi, senza motivo, tenta la fuga. La morte dell’ufficiale fascista è fortuita, non voluta: ma sarà comunque vendicata con la fucilazione di due giovanissime staffette partigiane.
Perduta ogni speranza di liberare Giorgio, Milton decide di fare ritorno alla villa di Fulvia per interrogare nuovamente la governante, anche se, preso dallo sconforto, è ormai certo di essersi illuso e di avere perduto per sempre il suo amore («Ma che ci vado a fare? […] Non c’è nulla da chiarire, da approfondire, da salvare. Non ci sono dubbi. Le parole della donna, una per una, e il loro senso, il loro unico senso…»). Giunto nei pressi dell’abitazione, è sorpreso da un drappello di fascisti e costretto a una fuga precipitosa. Mentre corre forsennatamente, schivando miracolosamente centinaia di pallottole, Milton pare rassegnarsi all’imminente destino di morte. D’un tratto, però, riacquista lucidità: «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!».
I fascisti, pian piano, perdono terreno, ma Milton non rallenta. Continua a correre all’impazzata, finché non raggiunge una borgata. Dapprima la schiva, poi però torna sui suoi passi: «Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli». Superate le case – è questa la conclusione del romanzo –, «gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò».
Il finale di Una questione privata è, con tutta evidenza, decisamente aperto. Milton è inseguito dai fascisti che sparano a più non posso, riesce a guadagnare qualche metro di vantaggio e infine, giunto in prossimità di un bosco, crolla. Resta quindi il dubbio: Milton muore o si salva? Fenoglio è volutamente evasivo, come si evince del resto dalla scelta stessa dell’ultimo verbo – «crollò» –, che può voler dire molte cose diverse.
Al riguardo, esistono opposte interpretazioni (e forse è lecito supporre che Milton si salvi, se non altro perché una persona ferita a morte difficilmente riesce a correre a perdifiato), ma è probabile che Fenoglio non desse troppa importanza al destino del protagonista del suo romanzo. A prescindere cioè dal fatto che Milton muoia o che sopravviva, ciò che conta è che egli, alla fine del suo percorso di ricerca, non sia più disposto a sacrificare tutto per conoscere la verità su Fulvia. Di colpo, la sua questione privata – così insignificante se confrontata con la battaglia per la libertà combattuta dalle formazioni partigiane – diventa un insensato atto di egoismo, un sacrificio del tutto inutile. Ben altre, del resto, sono le ragioni per cui vale la pena morire: si può donare la vita per un ideale, per difendere ciò che si ha di più caro, ma non certo per sciogliere uno stupido dubbio, peraltro tale solo nella mente di Milton, offuscata dalla gelosia.
Fenoglio, in sostanza, si serve di una vicenda di poco conto per fare luce sul dramma psicologico, prima ancora che materiale, della guerra civile. Fare il partigiano tra il 1943 e il 1945 significa, cioè, uscire allo scoperto in un contesto nel quale la maggioranza tende a starsene cautamente in disparte, in attesa che ritorni la pace (quasi per grazia ricevuta). Significa accettare di rischiare la pelle per il solo fatto che si è deciso di prendere posizione tra due parti in lotta e, soprattutto, acquisire la consapevolezza che, quando la posta in palio è così alta, non c’è spazio per nessuna questione privata. In altre parole, ogni singolo aspetto della vita di un partigiano diventa pubblico, nel senso che di ogni azione bisogna rendere conto.
Al riguardo, è esemplare l’inserimento dell’episodio della fucilazione delle due staffette partigiane. Come infatti nota Gabriele Pedullà, Fenoglio vuole evitare «che la disperata corsa nel fango alla ricerca della “verità su Fulvia” possa essere liquidata come una semplice “questione privata”. In definitiva per far comprendere ai lettori che, dietro l’apparente eccezionalità dell’esperienza del partigiano anglomane, è della guerra civile italiana nel suo complesso che il romanzo […] sta parlando. La guerra civile: con il suo terribile principio di reversibilità dove (indipendentemente dai torti e dalle ragioni) ciascuno occupa a turno il ruolo del fucilato e del fucilatore, della vittima e del carnefice».
Una questione privata si pone pertanto l’obiettivo di far entrare la Storia nella storia, ovvero di impedire che la seconda obliteri la prima. Attraverso l’assurda ricerca di Milton, ostinato nel voler inseguire una verità già ampiamente alla sua portata, Fenoglio riesce a raccontare il dramma di una guerra fratricida, combattuta per lo più da ragazzini, che nega a chiunque vi prenda parte il privilegio dell’egoismo.

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Allarme libri: in Italia si legge sempre meno

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 dicembre 2014)

Sito dell’Istat, pagina riguardante i dati relativi alla lettura di libri in Italia: «Nel 2013, oltre 24 milioni di persone di 6 anni e più dichiarano di aver letto, nei 12 mesi precedenti l’intervista, almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. Rispetto al 2012, la quota di lettori di libri è scesa dal 46% al 43%».
Che l’Italia sia un paese in crisi, lo si evince anche da questi numeri: oltre la metà degli abitanti della penisola non legge nemmeno un libro nell’arco di un intero anno. Capito bene? Nemmeno uno! In compenso, sempre secondo i dati Istat, nel 2013 il 98% dei bambini tra i 4 e i 14 anni trascorre tre ore e ventiquattro minuti al giorno davanti ad un televisore. In pratica, terminato l’orario scolastico, i nostri giovani cominciano una sorta di secondo lavoro – che porta loro via un tempo di poco inferiore a quello trascorso sui banchi – che li tiene incollati ad uno schermo. Il tutto senza contare le ore dedicate ad internet e ai telefoni cellulari (altro dato significativo: l’uso del cellulare tra gli 11-17enni è passato dal 55,6% del 2000 al 92,7% del 2011).
Dunque per la lettura sembra essenzialmente essere venuto meno il tempo. Per quanto riguarda i ragazzi (che necessariamente devono essere tenuti in particolare considerazione in quanto testimoni e protagonisti del mondo che cambia), tolti la scuola, si spera un po’ di studio e tutto l’insieme delle attività che si svolgono davanti ad uno schermo, restano davvero pochissime ore a disposizione da dedicare ad un buon libro. Ebbene, a questo punto gli interrogativi da porsi sono in sostanza due. Primo: riteniamo che questa crescente disaffezione nei confronti della lettura sia un problema per la nostra società, oppure, tutto sommato, siamo da un lato convinti che la cultura sia un superfluo passatempo da professori, e dall’altro per nulla preoccupati che la televisione fagociti per intero il nostro tempo libero? Perché il nocciolo della questione è tutto qui: meno si legge, meno il distacco dai libri sarà avvertito come problema; e se la scuola non solo non ci fa amare i libri, ma tende, al contrario, a farceli odiare, ecco che la frittata è fatta.
Secondo interrogativo: quali sono le ragioni che provocano agli italiani questa specie di allergia alla carta stampata? Porre questa domanda significa prendere atto del fatto che i dati statistici sono molto più allarmanti di quanto sembrino. Occorre infatti tenere presente che, nel 2010, tra gli abitanti del Bel Paese che leggono, il 45,6% non sfoglia più di tre libri all’anno e solo il 13,8% rientra nella categoria dei cosiddetti “lettori forti”, i quali leggono dodici o più libri all’anno. In sostanza, quasi la metà dei lettori “consuma” meno di un libro per stagione, mentre poco più di un lettore su dieci riesce a tenere il ritmo di un libro al mese. A completare il quadro, si tenga presente che nel 2011 il 9,9% delle famiglie dichiara di non possedere alcun libro in casa.
Va detto, a voler essere un tantino più precisi, che i dati fin qui presi in considerazione offrono una media che non tiene conto di alcune importanti differenze. Per esempio, tornando all’indagine relativa al 2013, tra le donne la percentuale delle lettrici sale al 49,3%, mentre tra gli uomini scende ad uno sconfortante 36,4%. Si legge poi molto di più al Nord (50,1% nel Nord-ovest; 51,3% nel Nord-est) che al Sud e nelle isole (30,7%); per quanto concerne, infine, i ragazzi della fascia di età 6-14 anni, legge il 75% di coloro che hanno entrambi i genitori lettori, contro solo il 35,4% di quelli con genitori che non leggono.
Quest’ultimo dato, già di per sé, è molto significativo: quella della lettura sembra essere un’abitudine che si trasmette quasi spontaneamente di padre in figlio. Leggere aiuta a far leggere; parlare di libri evidentemente invoglia potenziali nuovi lettori a sfogliare qualche volume in più. E da qui è necessario partire: se si entra nel “tunnel del libro” (per i più svariati motivi: perché mamma e papà leggono o posseggono una bella collezione di libri, perché un professore ci incuriosisce, perché si è deciso di cominciare anche solo per provare e non si riesce più a smettere…), è quasi sempre difficile uscirne, nel senso che quando si familiarizza con la lettura, il libro diventa un amico inseparabile.
Poi, certo, ci sono i numeri sopra citati. In Italia, ahimè, non legge più nessuno, e i pochi che leggono spesso leggono quasi nulla. Però non bisogna darsi per vinti: se si è capaci di toccare le corde giuste, non è poi così difficile convincere una persona a fare un salto in biblioteca. Bisogna dirsele queste cose, altrimenti il pessimismo misto a disgusto di chi con orgoglio si sente (giustamente) parte di un’elite solo perché legge rischia di diventare una futile (e un po’ snob) presa di distanza dal mondo. Chi legge deve in altre parole sentire il dovere di coinvolgere più persone possibili, anche solo con brevi accenni. Stuzzicare l’appetito di chi ritiene di non aver bisogno di cibo (per la mente, nel nostro caso) dovrebbe diventare una sorta di missione comune a tutti coloro che rientrano nel 43% certificato dall’Istat.
Per quale motivo, infatti, in Italia si legge così poco? D’accordo: c’è la questione dello scarso tempo a disposizione di cui si diceva poc’anzi. E si tratta senz’altro di un problema reale, poiché è evidente che – se intendiamo, come è lecito presumere che molti facciano, la lettura come un passatempo – negli ultimi trent’anni la tecnologia ha messo a disposizione una miriade di apparecchi che sono più accattivanti, allettanti e facilmente fruibili dello strumento-libro. Ma siamo sicuri che la lettura di un libro debba essere messa sullo stesso piano della visione di un film o di una partita ad un videogioco? Davvero cioè possiamo ritenere i libri competitivi rispetto a questo genere di svaghi?
Il punto è che la lettura sarà sempre perdente se considerata un mero passatempo, un modo per distrarsi o per rilassarsi. Al contrario, essa è sinonimo di concentrazione, di impegno e di fatica. Leggere è cosa gratificante solo a patto di mettersi in gioco, di accettare di farsi carico del sacrificio della riflessione. Libri e giochi, in questo senso, non hanno nulla in comune, dal momento che nessun lettore serio legge solo per divertirsi, nemmeno quando ha tra le mani un volume di poco conto. Leggere significa essere disposti a sgombrare la mente per poter entrare in un mondo che prende forma solo attraverso l’immaginazione o il ragionamento. Leggere, in definitiva, è un investimento: si accetta di compiere una grande, faticosa cavalcata riga per riga, in cambio della promessa di ricevere una gratificazione mille volte maggiore dopo la conclusione dell’ultima pagina.
Occorre dunque parlare di libri facendo leva sulla loro intrinseca diversità: un libro, infatti, è un prodotto unico e insostituibile, e costituisce il principale veicolo di diffusione della cultura. È impensabile che una società evoluta come la nostra pensi di poter fare a meno della lettura, a meno che non intenda rassegnarsi a veder proliferare esseri sempre più ignoranti e insignificanti. Certo è, però, che siamo a bordo di una nave che sta colando a picco. E se vogliamo evitare di sprofondare del tutto, è bene che corriamo al più presto ai ripari: per salvare i libri occorre parlare di libri. E bisogna farlo un po’ dappertutto: in casa, nelle scuole, in televisione, su internet. Ovunque! Chi ha la fortuna di amare la lettura deve comportarsi come una guida turistica e condurre i non lettori alla scoperta dei tesori che sono custoditi tra le pagine dei libri.
Quanto poi alle scuole, esse hanno il compito più delicato: dotare gli studenti degli strumenti necessari per coltivare interessi culturali. La scuola, cioè, non deve riempire di nozioni dei contenitori vuoti, ma far sì che i ragazzi imparino ad apprezzare la bellezza e l’importanza dello studio individuale. Per raggiungere questo traguardo, occorrono sicuramente basi solide, che purtroppo l’istruzione al giorno d’oggi non sempre garantisce (l’impressione, per esempio, è che molti studenti fatichino a comprendere i grandi classici della nostra letteratura proprio a livello letterale prima ancora che contenutistico): ma se queste sono la conditio sine qua non, è altresì vero che da sole non bastano. Ciò che manca davvero al nostro tempo è la capacità di far scoccare la scintilla, di far nascere l’amore per i libri. Perché – qualunque lettore potrebbe confermarlo – esiste una legge non scritta: chi contrae il virus della bibliofilia, non ha speranza alcuna di guarire.

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martedì 2 dicembre 2014

«Dialogo d’Ercole e di Atlante»: l’ignavia del mondo moderno

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 novembre 2014)

Nel Dialogo d’Ercole e di Atlante Leopardi propone una versione comico-satirica della secolare disputa tra antichi e moderni, accesasi in Francia alla fine del Seicento e ancora viva ai suoi tempi (il celeberrimo Discorso sulla libertà degli antichi, paragonata alla libertà dei moderni di Benjamin Constant, per esempio, viene pronunciato nel 1819, cinque anni prima dell’operetta). Il mondo – si chiede indirettamente il poeta di Recanati – si è evoluto o è regredito? Gli uomini di oggi che giudizio meritano se confrontati con quelli del passato, in particolare con i popoli dell’antichità classica? A discorrere di queste tematiche Leopardi fa intervenire due personaggi della mitologia, Ercole e Atlante (il Titano che prese parte alla guerra di Crono contro gli dei dell’Olimpo e che Zeus punì con l’obbligo di sorreggere la Terra sulle spalle).
Così il primo, nell’incipit, si rivolge al secondo: «Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono [il riferimento è alla tredicesima fatica di Ercole, il quale rimpiazzò provvisoriamente Atlante dopo averlo convinto a rubare i pomi d’oro nell’orto delle Esperidi, ma poi glieli sottrasse con uno stratagemma], tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco».
La risposta di Atlante è piuttosto singolare: siccome, egli afferma, «il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più», non c’è alcun bisogno di riprendere fiato. La Terra, infatti, si è ridotta a poca cosa, tanto che potrebbe tranquillamente essere sorretta attaccata «ciondolone a un pelo della barba».
A queste parole, Ercole reagisce con stupore. Com’è possibile, si domanda, che il mondo si sia tanto alleggerito rispetto al tempo della sua fatica? Atlante non sa dare una risposta, ma invita il suo interlocutore a provare di persona a sorreggere la Terra per qualche istante. Ercole accetta, e subito nota un’altra anomalia: «L’altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo [orologio] che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto [non avverto il minimo rumore]».
Ancora una volta, Atlante non è in grado di fornire una spiegazione. Afferma però che «è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile», tanto che – aggiunge – in passato gli era venuto il dubbio che fosse morto. Tuttavia – prosegue –, siccome i morti si decompongono e la Terra non ha invece emanato nel tempo alcun «puzzo», è evidente che il mondo sia in realtà ancora vivo, ed è lecito pensare che si sia trasformato in pianta. 
«Io piuttosto credo che dorma», replica Ercole; e, onde evitare che qualcuno lo scambi per morto e gli dia fuoco, propone di escogitare qualcosa per destarlo dal sonno. Atlante è d’accordo, così Ercole suggerisce di usare il mondo come una palla con cui giocare. Il percolo – ribatte prontamente il Titano – è che Giove si infastidisca e prenda provvedimenti punitivi, un po’ come fece con Fetonte, il figlio di Apollo che fu precipitato nel Po per aver messo in pericolo la Terra con la sua guida spericolata del carro che trasporta il Sole. Ma Ercole non ha dubbi: a suo avviso Giove non dirà nulla perché l’intenzione di svegliare la Terra è buona, non come quelle di Fetonte, interessato solo a pavoneggiarsi e a «fare una bella mostra di sé tra gli Dei del cielo».
Ha così inizio il gioco della palla, anche se Atlante si mostra sin da subito titubante e si raccomanda, preoccupato, che il suo interlocutore non faccia cadere la Terra. I due si passano la sfera colpendola con le mani, finché Ercole non manca la presa a causa di un tiro troppo basso. L’incidente sembra comunque totalmente privo di conseguenze: «Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima, e mostra che tutti dormano come prima».
Atlante, che teme la punizione del Signore dell’Olimpo, non vuole però più sentire ragioni, e interrompe il gioco: «Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è seguito per tua cagione».
La replica di Ercole, che vale la pena citare per intero, è il preludio alla conclusione dell’operetta e ne indica il senso: «Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad istanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre una dove dice che l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’è mosso».
Il senso della riflessione di Orazio è che l’uomo giusto non teme la rovina del mondo, dal momento che per lui il rispetto dei doveri morali ha la precedenza su qualunque altra preoccupazione. Ma dunque – si chiede Ercole –, siccome il mondo è caduto e nessuno ha battuto ciglio, bisogna inferire che tutti gli uomini siano giusti? Atlante, nella battuta finale dell’operetta, risponde con ironia: «Chi dubita della giustizia degli uomini?».
Il mondo moderno, in sostanza, per Leopardi si è come addormentato. Il suo sonno è sinonimo di ignavia, di quell’indolenza che rende fiacco e privo di volontà l’agire umano. Il torpore è così profondo che resiste persino a una potente scossa, tanto che nulla sembra in grado di contrastarlo efficacemente. Per il genere umano, in altre parole, non c’è futuro: esso è vivo solo nel senso che sopravvive, si trascina senza scopo; ma, di fatto, è come se fosse morto.
Il Dialogo d’Ercole e di Atlante rappresenta pertanto un tipico esempio del pessimismo leopardiano, anche se è bene tenere presente che sotto accusa finiscono più che altro le storture dell’età moderna (e non quindi l’umanità in quanto tale), laddove invece per l’antichità è implicito un elogio da parte dell’autore dell’Infinito. Nel momento in cui Ercole e Atlante ricordano, infatti, che un tempo la Terra era più pesante ed emetteva un ronzio (indice di vitalità), indirettamente ammettono che un mondo migliore sia possibile, se non altro perché è esistito in passato. Resta da chiedersi, pertanto, per quale ragione l’umanità sia sprofondata in un sonno atrofizzante. Cos’è che rende il presente così meschino e l’uomo così apatico?
Leopardi non dà una risposta precisa nell’operetta, ma è lecito supporre che alla base della crisi della civiltà occidentale egli individui l’individualismo esasperato che contraddistingue l’uomo moderno, indifferente rispetto a tutto ciò che non lo coinvolge in prima persona. Gli antichi, infatti, avevano ben radicato il senso della collettività, tanto che il singolo poteva esercitare la propria libertà solo come parte di un tutto, come componente di un insieme. La società borghese dell’Ottocento sta invece progressivamente allontanandosi da questo modello: l’individuo viene prima di tutto, e la libertà non è più concepita come positiva (libertà di), ma essenzialmente come negativa (libertà da). All’uomo moderno, in sostanza, sta a cuore solo l’interesse personale (materiale ed economico), mentre manca completamente la disponibilità a sacrificarsi sul serio per qualcosa.
È questo, in definitiva, il significato del sonno cui allude Ercole. L’uomo moderno è addormentato nel senso che non è più in grado di recepire i cambiamenti, tutto preso com’è dalle proprie faccende personali. Anche se il mondo andasse in rovina, a lui importerebbe solo trovare un modo per sopravvivere come individuo. Ciò che conta nell’età moderna è essenzialmente il profitto, la capacità cioè di arricchirsi, sempre come singolo – s’intende –, mai come popolo. Il mondo si è fatto leggero perché la volontà degli uomini di operare per la grandezza della specie è stata completamente sopraffatta dall’egoismo.

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martedì 25 novembre 2014

«I promessi sposi»: un romanzo istituzionale

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 novembre 2014)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

Chiunque abbia frequentato il liceo ha dovuto fare i conti con I promessi sposi. Detta così sembra un’ovvietà, poiché si tende a dare per scontato che il capolavoro di Alessandro Manzoni sia il romanzo italiano per eccellenza; ma, a pensarci bene, forse sarebbe il caso di domandarsi come mai, tra tutti i grandi libri della storia letteraria nazionale, quello riguardante le peripezie di Renzo e Lucia sia diventato una lettura obbligata, mentre altre opere pregevolissime sono studiate per lo più marginalmente.
Gli spunti di riflessione potrebbero essere molteplici, ma in questa sede è sufficiente soffermarsi su una peculiarità del romanzo manzoniano che lo ha reso uno dei testi – si passi l’espressione – più facilmente “spendibili” per la formazione e l’educazione dei giovani: stiamo parlando dell’ideale della concordia tra le classi, vera e propria ossessione dei ceti dirigenti post-unitari. Ne I promessi sposi, infatti, ogni impulso alla ribellione è duramente stigmatizzato dalla severa penna dello scrittore. «Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna?», fa dire, significativamente, il Manzoni a fra Cristoforo, intento a redarguire Renzo per la sua (legittima?) collera. Il messaggio non potrebbe essere più esplicito: come ha giustamente notato lo storico Mario Isnenghi, «tutta la vicenda è ispirata a un presupposto di intrasformabilità del mondo e trasformabilità delle persone». Il che equivale a dire che Renzo deve intraprendere un percorso di maturazione interiore che lo porti, con cristiana rassegnazione, ad accettare il mondo così com’è.
Ma qual è, in definitiva, l’ideale di società che emerge dalla lettura de I promessi sposi? Difendere il principio della concordia tra le classi significa, da un lato, partire dal presupposto che le classi esistono (nelle Osservazioni sulla morale cattolica Manzoni significativamente afferma che la religione «comanda [...] al ricco di dare il superfluo» e «all’offeso di perdonare»); dall’altro stabilire il principio che la vera causa dei disagi sociali è rappresentata dall’egoismo e dall’avidità. Cristianamente parlando, la società si compone pertanto di un’aristocrazia che deve porre le proprie ricchezze in esubero al servizio della collettività, di un ceto medio che è bene rifugga dall’assillo del profitto e di un vasto universo popolare che deve accettare con rassegnazione la propria condizione marginale dimostrandosi pio e laborioso, in ottemperanza ai dettami del Vangelo.
Manzoni, in sostanza, ha una concezione tragica dell’esistenza, secondo la quale l’uomo, non avendo alcuna possibilità di evitare il male (non vale cioè il principio della giustizia distributiva), deve assumere un atteggiamento remissivo nei confronti di ciò che Dio dispone, secondo i suoi imperscrutabili disegni. Respingere il male – come vorrebbe fare Renzo – equivale perciò a pretendere di conferire un assurdo valore assolutizzante alla vita terrena, laddove invece quest’ultima, lungi dall’essere finita in sé, non è altro che una fase transeunte.
Ecco dunque che, alla luce di queste considerazioni, la scelta delle classi dirigenti post-risorgimentali di “puntare forte” su I promessi sposi risulta meglio comprensibile. Non che – sia chiaro – al Manzoni manchino i meriti: ma è evidente che uno scrittore di indubbio valore quale certamente egli fu, cattolico ma pur sempre senatore del Regno, fautore della concordia di classe e per nulla disposto a tollerare forme anche blande di ribellione all’ordine costituito, facesse gola – per così dire – ai ministri dell’Istruzione dell’epoca.
E oggi? Cosa pensano gli studenti del Duemila del capolavoro manzoniano? Prendiamo in considerazione le brevi riflessioni di cinque ragazze che attualmente frequentano la prima liceo classico dell’Istituto Sacro Cuore di Modena.

L’accusa di Aurora Vandelli e Taisia Malagoli

«Spesso è spiegato dagli insegnanti in modo poco coinvolgente»

Essendo superfluo ribadire il valore di quest’opera, ci soffermiamo sui tratti negativi riscontrabili durante la lettura de I promessi sposi.
Per molti ragazzi delle scuole superiori non è una scelta opportuna: gli studenti vengono portati all’odio e non all’amore per la letteratura, come invece dovrebbe essere.
Perché questo succede? Forse il metodo usato non è adatto a trasmettere i temi fondamentali e appassionanti contenuti nel romanzo, per non parlare di tutte quelle ore trascorse fra gli interminabili capitoli nel tentativo di decifrare i contenuti senza preoccuparsi del loro vero significato, vedendo solo la luce di libertà che attende ogni studente alla fine dei compiti richiesti dall’insegnante. Inoltre I promessi sposi dovrebbero essere spiegati in un modo più coinvolgente. La priorità dovrebbe essere quella di far amare la letteratura, non di far scomporre e analizzare ogni singolo capitolo a ragazzi che non vogliono essere rimproverati. È sorprendente notare l’espressione di sconcerto che appare sui volti degli studenti quando si accenna loro di dover studiare l’intera opera.
Ci possono essere varie alternative alla lettura di questo romanzo, dal momento che esistono molti classici che non vengono considerati.

Il commento, pur nella sua semplicità, contiene spunti interessanti. In primo luogo, le studentesse palesano una potenziale attrazione nei confronti del romanzo, frustrata – a loro dire – dall’incapacità degli insegnanti di “spiegare” in modo coinvolgente.
È evidente, poi, che I promessi sposi siano mal digeriti in quanto lettura obbligatoria, che viene propinata in tutte le salse sin dai primi anni di scuola. Su questo aspetto, forse gli studenti non hanno tutti i torti, dal momento che il romanzo manzoniano è senza dubbio un libro complesso, decisamente poco alla portata di ragazzi adolescenti. Il che ci porta alla conclusione che, effettivamente, il ruolo dell’insegnante risulta, mai come in questo caso, decisivo, e che solo gli studenti che hanno la fortuna di disporre di un professore capace – come si suol dire – di toccare le corde giuste sono messi nelle condizioni di apprezzare quello che è indiscutibilmente un capolavoro della nostra letteratura.
Par di capire, in sostanza, che gli studenti avvertano la presenza di una sorta di fastidiosa barriera che rende inaccessibile il capolavoro manzoniano: sarebbero cioè anche disposti a leggerlo, ma senza gli strumenti adatti faticano a comprenderlo.

La difesa di Francesca Adani, Beatrice Sitta e Maria Teresa Guidi

«È un romanzo fondamentale per la lingua italiana ed è animato da forti principi religiosi»

I promessi sposi è un’opera molto importante per arricchire la cultura personale, e gli insegnanti dovrebbero leggerla e spiegarla in ogni scuola.
 È una delle prime ad essere scritta in italiano moderno, è alla base della lingua italiana ed occupa un posto di rilievo nella formazione e nell’evoluzione della nostra cultura. È quindi necessario sapere da dove deriva la nostra lingua e come è cambiata nel corso del tempo.
 Questo romanzo ci mostra com’era la vita di cittadini comuni e nobili al tempo delle grandi rivoluzioni politiche e industriali. Contiene forti principi religiosi, che sono il fondamento di tutto il popolo, e attribuisce importanza decisiva alla fede in Dio per sopportare tutti i possibili soprusi delle persone più potenti; inoltre ci spiega che la violenza spesso porta ad altra violenza, mentre la fiducia e l’amore verso le persone a noi più vicine ci rassereneranno sempre in ogni momento buio.
 Questo romanzo è utile anche per comprendere che le persone hanno molte vite diverse, ma possono sempre fare del bene, come l’Innominato, personaggio malvagio che trova la via della salvezza pentendosi.

Colpisce in questo intervento l’accento posto sulla questione linguistica: a parere di alcuni studenti, I promessi sposi rappresentano una lettura imprescindibile poiché costituiscono una tappa fondamentale nell’evoluzione dell’italiano scritto.
Ora, è evidente che un simile ragionamento elude la questione dei contenuti dell’opera. Ed è auspicabile che la scuola si ponga obiettivi un tantino più ambiziosi nel momento in cui, di fatto, impone un certo tipo di letture. Cosa salvare dunque del romanzo manzoniano?
Anche qui la risposta delle ragazze interpellate è singolare: de I promessi sposi, infatti, esse dichiarano di apprezzare l’importanza attribuita alla fede, intesa quale travagliato percorso interiore che porta ad accettare il male inevitabilmente presente nel mondo. Sono sincere? È difficile stabilirlo. Certo è che Manzoni, nelle parole di chiusa dell’ultimo capitolo, fa riferimento a un «sugo» della storia che richiama proprio questo concetto: «Conclusero che i guai vendono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore».
E qui la palla dovrebbe tornare alle autrici del primo intervento: dovendo obtorto collo leggere I promessi sposi, che ve ne pare dell’idea di cominciare dalla fine?

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martedì 18 novembre 2014

«Dialogo di un Fisico e di un Metafisico»: la vita è un bene in sé o ha valore solo se contrassegnata dalla felicità?

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 novembre 2014)

«Se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga». È questo, in estrema sintesi, il significato del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico di Giacomo Leopardi: nel giudicare la vita di un uomo, non conta la durata, bensì la qualità. Un’esistenza felice ma limitata negli anni è senza dubbio preferibile ad una vita eterna contrassegnata dal dolore.
Il Dialogo – uno dei più celebri delle Operette morali – mette dunque in scena un’animata discussione a partire dal seguente quesito fondamentale: la vita è un bene in sé, o per amarla c’è bisogno d’altro? A confrontarsi sono un Fisico e un Metafisico (ossia un filosofo), con il secondo – sul modello di Socrate – impegnato a confutare le argomentazioni del primo.
L’esordio del Fisico, infatti, è caratterizzato dall’entusiasmo per una scoperta sensazionale. Egli afferma di avere trovato esposta in un libro «l’arte di vivere lungamente», per la quale sarà senz’altro ricordato in eterno. Ma il Metafisico non sembra affatto colpito: «Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo [si noti che di piombo erano abitualmente le casse da morto], chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente».
Cosa fare però nel frattempo del libro, replica il Fisico? Risponde il Metafisico: «In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse l’arte di vivere poco». Ciò che egli intende è che la vita non ha alcun valore in sé – contrariamente a quanto sostiene il Fisico – se non è accompagnata dalla felicità. In altre parole, un’esistenza contrassegnata da continua sofferenza non merita alcuna considerazione da parte del filosofo, per il quale essa è del tutto insoddisfacente. Di conseguenza, se la vita è infelice – come è evidente, a parere di Leopardi –, tanto meglio se è di breve durata.
Le argomentazioni del Metafisico per confutare l’idea che la vita sia un bene in sé insistono in particolare su un aspetto: «come il volgo s’inganna pensando che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce», allo stesso modo l’uomo «non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento» della felicità. L’amore della vita, in sostanza, non è altro che una mera illusione, come provano tutti coloro che – stanchi di essa, in quanto infelice – decidono di congedarsi dal mondo attraverso il suicidio. Perciò – conclude il Metafisico –, posto che «la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita», è evidente che «la vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male».
Il Fisico, ad ogni modo, non sente ragioni: a suo parere nessun uomo disdegnerebbe una vita eterna, liberata dall’assillo della morte. Ma il Metafisico, ancora una volta, dissente radicalmente, e a sostegno delle proprie tesi – giacché l’argomento è fantasioso, non essendovi traccia sulla Terra di uomini immortali – propone alcuni esempi tratti da favole e miti. Tra questi, particolarmente significativo è quello di Chirone, il centauro maestro di Achille il quale, sofferente a causa di una ferita provocata da una freccia scoccata da Ercole, chiede a Zeus di morire, scambiando la propria immortalità con Prometeo. Com’è facilmente intuibile, il ragionamento del Metafisico è incentrato sul paradosso di un dio che preferisce la condizione di mortale: «Dirò dunque che il saggio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì. Or pensa, se l’immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini».
C’è poi un’ulteriore questione da affrontare, secondo il Metafisico. Siccome – afferma – è dimostrato che esistono popolazioni «di alcune parti dell’India e dell’Etiopia» per le quali la vita media non supera i quarant’anni, è possibile affermare che esse vivano per forza di cose una vita più misera rispetto agli europei? Stando al ragionamento del Fisico, per il quale la vita ha valore in se stessa, i popoli meno longevi dovrebbero essere di gran lunga meno felici di quelli per i quali l’aspettativa di vita è maggiore. Ma è vero tutto questo?
Il Metafisico è convinto che la durata della vita non conti nulla. Il suo ragionamento si fa complesso: «Io negava che la pura vita, cioè a dire il semplice sentimento dell’esser proprio, fosse cosa amabile e desiderabile per natura, ma quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azione o passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole». Non la vita in sé, pertanto, ha valore, ma solo ciò che proviamo a livello dei sentimenti, che devono essere necessariamente tumultuosi, pena lo scadimento dell’esistenza nella noia (la quale è essenzialmente assenza di vitalità). Ciò che rende degna una vita, perciò, è la sua intensità, che è tanto maggiore quanto minore è la sua durata; il che porta all’ovvia conseguenza che i popoli meno longevi sono nettamente avvantaggiati, potendo condurre un’esistenza «più viva il doppio di questa nostra». Una morte che sopraggiunga in tempi brevi, infatti, rende gli uomini più vitali, dal momento che un’esistenza caratterizzata da trasformazioni e sconvolgimenti rapidi è forzatamente più intensa di una vita condotta fiaccamente, con snervante lentezza.
Di fronte a questa provocazione (meglio non vivere troppo a lungo), il Fisico tenta in qualche modo di sottrarsi alla discussione, sentenziando che, al di là di tutti i possibili ragionamenti, la vita è naturalmente «più bella della morte». Ma il Metafisico insiste: per convincersi che la vita non è necessariamente bella, basta osservare il costume degli Sciti, «che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano in un turcasso una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca», e constatare «quanto poco numero delle bianche è verisimile che fosse trovato in quelle faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran moltitudine delle nere».
La replica del Fisico è coerente con il ragionamento precedente: quand’anche tutte le pietre fossero nere, la morte non sarebbe comunque desiderabile poiché è evidente che «niun sassolino sia così nero come l’ultimo». Con la risposta del Metafisico, il Dialogo si conclude. Egli afferma che se proprio il suo interlocutore è interessato ad allungare la vita degli uomini, faccia almeno in modo che «sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e le azioni loro». Solo così la vita umana potrà dirsi realmente accresciuta, ossia «empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere». La vita, in sostanza, è «tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata», mentre se «piena d’ozio e di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte non è divario» (il che, se fosse vero, renderebbe la morte decisamente spaventosa). In conclusione, «la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio».
Il concetto chiave, per Leopardi, è dunque quello della noia, ovvero il vuoto interiore che priva la vita dei sentimenti e delle sensazioni più autentiche, riducendo l’esistenza ad una vacua ed insignificante durata. C’è una sostanziale differenza, in altre parole, tra il vivere e il sopravvivere. Gli antichi, infatti, in virtù dei «pericoli gravi e continui che solevano correre», vivevano più dei moderni, nonostante, in termini di durata temporale, la loro vita fosse più breve. Niente perciò ha valore in sé: tutto dipende dalla capacità dell’uomo di riempire il tempo a sua disposizione, in modo tale da sentirsi (e non semplicemente essere) vivo. Un’esistenza apatica e passiva è del tutto insignificante, di gran lunga peggiore della morte, la quale quantomeno garantisce la cessazione delle sofferenze (sempre che non sia vera la sentenza di Pirrone: che ne sarebbe, in effetti, dell’uomo, se l’infelicità – e qui Leopardi lascia trapelare tutta la sua angoscia – potesse sopravvivere alla morte?). Per vivere, occorre darsi da fare, costruire qualcosa, mettersi continuamente alla prova, scommettere ripetutamente su se stessi. La vitalità non è per nulla una componente scontata dell’esistenza.

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lunedì 10 novembre 2014

«Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo»: l’assurda pretesa degli uomini che il mondo sia «fatto e mantenuto per loro soli»

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 novembre 2014)

Scritto nel marzo del 1824, il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo è un’operetta di stampo satirico incentrata su un tema – quello del cosiddetto antifinalismo – che è bene riassunto da queste considerazioni di Leopardi contenute nello Zibaldone: «L’immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto per noi, è una conseguenza naturale dell’amor proprio necessariamente coesistente con noi, e necessariamente illimitato». L’uomo, in altre parole, ha la pretesa che il mondo esista per il solo scopo di soddisfare i suoi bisogni; ma, sottolinea Leopardi, in questo si illude, giacché tutte le specie sono animate della medesima presunzione. Il mondo infatti non è fatto per nessuno: era presente prima dell’uomo, e non cesserà di esistere dopo la sua scomparsa.
Il dialogo tra lo Gnomo e il Folletto ha inizio proprio a partire da quest’ultima premessa: l’uomo, dice il primo, non dà più segni di vita, tanto che «in tutto il suo regno non se ne vede uno». Lecito sospettare dunque che si sia estinto (singolare al riguardo l’argomentazione dello Gnomo: siccome non vede più gli uomini nel suo regno sotterraneo – dove erano soliti estrarre metalli preziosi –, si convince che essi siano tutti morti).
Il Folletto, in effetti, concorda: «Gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». Si tratta di una notizia sensazionale, «da gazzette», aggiunge lo Gnomo. Ma il Folletto subito lo corregge: «Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampino più gazzette?». E lo Gnomo: «Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?».
Con tutta evidenza, Leopardi maschera con una battuta la sua critica feroce nei confronti dell’antropocentrismo, che è così meschino da contagiare persino le altre specie. Lo scrittore di Recanati ironizza cioè sull’assurda pretesa del genere umano che a fare notizia (e qui è contenuta una chiara condanna del giornalismo, sempre forzatamente  alla ricerca di titoli sensazionali) siano solo gli avvenimenti che lo riguardano, come se sulla terra non esistessero che gli uomini. Senza questi ultimi, infatti, com’è possibile stare al passo con «le nuove del mondo», si chiede smarrito lo Gnomo? La risposta del Folletto è al contempo dura e sprezzante: «Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli omini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota ad un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani [secondo la tradizione, la dea Fortuna corre bendata su una ruota, ed è perciò cieca e volubile]; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo».
Le argomentazioni del Folletto sembrano convincere lo Gnomo. Dopo l’uomo, afferma, «non si stamperanno più lunari», «i giorni della settimana non avranno più nome» e «non si potrà tenere il conto degli anni». Tutte le cose a cui l’uomo ha dato un nome, in sostanza, si renderanno indipendenti e cesseranno di esistere secondo le modalità volute dai discendenti di Adamo. È interessante, al riguardo, soprattutto il riferimento al tempo: il voler misurare il passato (giorni, mesi, anni) è un esempio eloquente di come l’uomo desideri controllare il mondo per piegarlo alle proprie esigenze. Tutto deve essere registrabile e “gestibile”: ma il mondo è tranquillamente in grado di fare a meno di calcoli e numeri, e, dopo l’uomo, il tempo da lineare tornerebbe ad essere ciclico, secondo il perpetuo alternarsi delle stagioni.
Resta ora da chiedersi come hanno fatto gli uomini ad estinguersi. E la ragione, secondo il Folletto, è evidente: in parte a causa delle guerre, in parte «infracidando nell’ozio», ma soprattutto «studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male». Del resto, quella umana non è la prima «specie di animali» ad essere scomparsa dalla faccia della terra – basta osservare i fossili dell’età preistorica –, ma è senza dubbio quella che più ha agevolato, con un comportamento dissennato, la propria «perdizione». Sarebbe perciò utile – conclude lo Gnomo – che un paio di esseri umani risuscitassero per sapere cosa penserebbero di fronte all’evidenza che il mondo può sopravvivere anche senza l’uomo.
Ha inizio a questo punto un vivace scambio di battute tra il Folletto e lo Gnomo. Colpa degli uomini, argomenta il primo, è stata quella di non aver compreso che il mondo «è fatto e mantenuto per li folletti». Ma il secondo non ci sta: «Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?». La contesa è destinata quindi a ingarbugliarsi senza alcuna possibilità di trovare una via d’uscita che metta d’accordo i due interlocutori, poiché è evidente – arguisce alla fine il Folletto – che «anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie». Non resta dunque che sorridere di questa comune debolezza, accettandola senza avanzare assurde pretese di superiorità. La percezione del mondo è relativa, e l’uomo è semplicemente uno stolto quando si erge a supremo padrone di ogni cosa (con sprezzante sarcasmo, lo Gnomo e il Folletto si prendono gioco della sua arroganza, facendo notare come per lui persino le zanzare e le pulci abbiano motivo di esistere solo in funzione del genere umano, per «esercitar[lo] nella pazienza»). 
Il tutto, prosegue il Folletto, senza dimenticare che di molte specie l’uomo non sa nulla, così come accade per i pianeti e i corpi celesti. Come pretendere, quindi, di dominare ciò che non si conosce, o di cui si ignora persino l’esistenza? La verità è che il mondo non si cura affatto dell’uomo. Dopo la sua scomparsa, infatti – così si conclude l’operetta – «il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo [Virgilio nelle Georgiche scrive che, alla morte di Cesare, il sole si oscurò in segno di lutto; ma in realtà, commenta il Folletto, è evidente che esso si curò dell’assassinio del dittatore tanto quanto la statua di Pompeo, ai piedi della quale Cesare cadde trafitto dai colpi di pugnale dei congiurati]».
L’antropocentrismo, in sostanza, è una particolare forma di autodifesa, sfruttando la quale l’uomo si illude di poter controllare il mondo che abita. È la ragione, di fronte alla minaccia dell’ignoto e dell’imponderabile, ad incasellare ogni aspetto della realtà, con l’obiettivo di individuare nessi causa-effetto e rendere prevedibile ciò che altrimenti resterebbe oscuro. Ritenere però che ogni cosa abbia motivo di esistere solo in funzione delle esigenze umane è essenzialmente la conseguenza di una sorta di peccato originale che stabilisce di collocare l’uomo al centro dell’universo. Leopardi, in parole povere, prende le distanze dalla tradizione cristiana e dalla sua pretesa di elevare l’uomo a creatura prediletta di Dio. A suo parere, infatti, non esiste alcun ordine nel cosmo che sia decifrabile dalla mente umana: tutto accade semplicemente perché deve accadere, non perché una specie, una sola tra le tante, possa trarre beneficio da un ipotetico disegno provvidenziale.
Davvero cioè – conclude beffardamente il poeta dell’Infinito – possiamo credere che il mondo sia al servizio dell’uomo, ovvero che la storia dell’uomo coincida con la storia del mondo? Nessuna persona ragionevole può essere così stolta da illudersi che tutto abbia un perché. Il senso delle cose, infatti, è relativo, tanto che uno gnomo o un folletto hanno lo stesso diritto di qualunque altro essere vivente di considerare se stessi il centro dell’universo. Per il mondo, gli avvenimenti non sono grandi o piccoli: sono semplicemente avvenimenti, importanti o trascurabili a seconda dei punti di vista. Al punto che persino un evento sconvolgente per la storia dell’uomo quale l’assassinio di Giulio Cesare non è altro che una «bagattella» per il sole e gli astri del cielo, i quali certo non cessano di emettere luce per rendere omaggio ad un insignificante abitante del pianeta Terra.

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Avarizia, lo stupido vizio di chi gode di una possibilità senza esprimerla

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 novembre 2014)

Tra tutti i vizi capitali, l’avarizia è senza dubbio il più stupido. Mentre infatti ira, gola e lussuria sono la causa di un eccesso, l’accidia è la conseguenza di uno stato d’animo difficilmente governabile, e invidia e superbia sono provocate dall’ansia prodotta da un ossessivo confronto con gli altri, l’avarizia è l’assurda schiavitù nei confronti di una forma distorta di appagamento derivante da un possesso che resta tale solo in potenza.
Scrive al riguardo Umberto Galimberti nel volume I vizi capitali e i nuovi vizi (Feltrinelli 2003): «Il denaro accumulato dall’avaro [...] ha in sé il potere di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato, perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere a esso connesso. Questa contraddizione così evidente è dovuta al fatto che l’avaro capovolge il rapporto mezzo-fine, e invece di considerare il denaro un “mezzo” per il raggiungimento di quei “fini” che sono l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni, considera il denaro un fine, per il possesso del quale si deve sacrificare l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri».
Ecco spiegato dunque il motivo per il quale l’avarizia è da considerarsi il più stupido dei vizi: semplicemente perché l’avaro gode di un potere – quello di acquistare ciò che servirebbe a soddisfare un bisogno – ma non lo esprime mai, sopraffatto com’è dalla brama di possesso del denaro. Tutti i beni sono pertanto subordinati al denaro, poiché esso è l’unico che esprima un potere esercitabile su altri beni. Per l’avaro, l’avere è pertanto il fondamento dell’essere, come intuì Karl Marx (il quale sottintendeva un nesso tra avaro e capitalista): «Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore».
Se dunque il denaro da mezzo diventa fine, è evidente che per l’avaro l’identità è strettamente connessa al binomio possesso-privazione: possesso di denaro, privazione della soddisfazione dei bisogni. La vita dell’avaro è quindi necessariamente ascetica. Così la descrive in effetti Marx: «Rinuncia a se stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Infatti, quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo, all’osteria, […] tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro […]. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai».
Il denaro, in altre parole, assume le sembianze di piaceri forzatamente astratti, i quali devono rimanere tali solo in potenza. Ogni cosa ha senso solo in funzione della sua convertibilità in denaro. Per l’avaro tutto ha un prezzo (e se una cosa non ha prezzo, allora non ha valore), e ciò che davvero conta è solo l’accumulo (di denaro e di potere). Egli ha cioè bisogno di sapere che può soddisfare ogni bisogno materiale in qualsiasi momento, fermo restando che il bisogno più forte di tutti è quello di ingrossare all’infinito il suo potere d’acquisto.
Occorre però, a questo punto, fare chiarezza su cosa debba intendersi per avarizia, dal momento che non tutti coloro che paiono avari – secondo il giudizio comune – lo sono in realtà. Scrive al riguardo Umberto Galimberti: «Siamo soliti chiamare “avari” quelle persone che non gettano via nulla, che utilizzano due volte un fiammifero, che scrivono sul retro delle pagine utilizzate, che non sprecano uno spago, che cercano ogni ago perduto, che consumano le medicine in scadenza anche se non ne hanno bisogno, che si rovinano lo stomaco piuttosto che lasciare il pranzo a metà. Ebbene costoro non sono “avari” perché non pensano al valore del denaro degli oggetti che non sprecano, ma proprio al loro valore materiale, che non è affatto in proporzione al loro valore in denaro. Costoro non sono avari, ma parsimoniosi, perché gli avari non attribuiscono alcun valore alle “cose in se stesse”, ma solo a ciò che esse “rappresentano in denaro”. Un denaro che non deve essere speso, perché altrimenti si volatilizzano le possibilità che il denaro promette».
Più che un vizio, l’avarizia è quindi uno stato di angoscia, dovuto a un autentico terrore del futuro, percepito come una minaccia: il futuro, infatti, è il tempo in cui l’avaro teme di perdere ciò che ha e da cui si difende con l’accumulo ossessivo di denaro. Di contro, il presente è il tempo della possibilità: seppur inespresso, il potere di acquisto esorcizza per l’oggi la paura della perdita connessa al domani.
Da questa considerazione deriva poi un’importante conseguenza: l’avaro non può convivere con l’idea (e con la consapevolezza) della propria morte. E questo non tanto perché negli ultimi istanti di vita egli venga privato di ciò che ha, bensì per il fatto che la morte annulla il futuro, e con esso la capacità di proiettare in avanti il potere espresso dal denaro accumulato. La vita dell’avaro, in sostanza, è una non vita, giacché si preclude qualsiasi forma di godimento materiale incompatibile con l’assillo del futuro. In questo senso, l’avarizia è realmente un vizio capitale, nel senso che anticipa la morte, somministrandola poco a poco sotto forma di mortificazione.
Ma c’è dell’altro, come precisa Galimberti: «L’esperienza della morte, ognuno di noi lo sa, non è qualcosa che incontriamo solo nell’atto finale della nostra vita, ma qualcosa che costella la quotidianità della nostra esistenza, ogni volta che il nostro desiderio non trova adeguato appagamento e resta “morti-ficato”. Nella dialettica desiderio-appagamento, l’avaro vuole evitare qualsiasi “mortificazione” che possa essere un’esperienza allusiva della morte. E allora non chiede al denaro di acquistare l’oggetto che appaga il desiderio, perché l’oggetto potrebbe nascondere sorprese e delusioni. Al denaro l’avaro non chiede niente se non il puro possesso, che se da un lato gli garantisce una possibilità infinita, dall’altro lo mette al riparo da ogni delusione».
Il risultato dell’ossessione dell’avarizia è una drammatica contraddizione. L’avaro cioè non spende per non subire la duplice mortificazione del mancato appagamento e dell’angoscia connessa con la spesa (che dal suo punto di vista altro non è che una perdita) di denaro; ma, nel risparmiare, egli mortifica comunque se stesso, precludendosi la possibilità di soddisfare un bisogno. Ne consegue, come detto, che la sua è una non vita, ovvero una morte lenta, che corrode l’animo poco per volta. Il tentativo di esorcizzare la fine dell’esistenza ricorrendo all’accumulo di denaro ha perciò come effetto proprio quello di anticipare la morte, che consuma (e per certi versi proibisce) la vita – conclude Galimberti – «fino a renderla definitivamente non vissuta».
L’avaro quindi è essenzialmente un inguaribile autolesionista, che trascura se stesso per assecondare la sua ossessione verso il denaro. Poco importa, per lui, che il potere d’acquisto – per quanto grande possa diventare – di per sé non soddisfi, se inespresso, alcun bisogno e, soprattutto, che non rappresenti un bene in grado di accrescere la felicità: ciò che conta, infatti, è solo il potere in quanto tale, che dà l’illusione di offrire un riparo contro l’inquietudine connessa con l’idea della perdita. L’avaro, in parole povere, pur disponendo di ingente ricchezza, non può essere felice, dal momento che è consumato dall’interno da un demone che gli impedisce di godere di ciò di cui, potenzialmente, potrebbe disporre. Egli mortifica se stesso senza una valida ragione, e così facendo – come nota Galimberti – si mostra stupido e ottuso. Anche l’immagine che ne dà Dante nel settimo canto dell’Inferno pone l’accento sull’assurdità della sua condotta: come in vita si è preoccupato solo del denaro, elevandolo da mezzo a (inutile) fine, così dopo la morte, per la legge del contrappasso, l’avaro è condannato a spingere avanti e indietro un enorme masso, a compiere cioè un gesto del tutto inutile, ma estremamente logorante e dispendioso.

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«Simposio»: l’amore come irruzione del divino che scompagina l’universo razionale

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 ottobre 2014)

«Non bisogna leggere Platone in modo “platonico”». Umberto Galimberti, nelle pagine del suo Gli equivoci dell’anima dedicate al Simposio di Platone, esordisce con questa singolare avvertenza. Ma cosa intende, di preciso? A cosa ci si riferisce, cioè, abitualmente quando si afferma che un amore è «platonico»? Conviene citare l’autorevole Vocabolario Treccani, il quale, a proposito dell’uso corrente dell’aggettivo, propone la seguente definizione: «Amore non sensuale, che esclude rapporti sessuali e si appaga dell’unione spirituale con la persona amata».
Ebbene, Galimberti vuole dire che il Simposio è un testo molto complesso, nient’affatto «ascetico, edificante, “cristiano”» e del tutto inaccessibile se non si accetta di sgombrare la mente dalle aspettative indotte da un certo tipo di tradizione che vede in Platone essenzialmente il filosofo delle idee astratte e del mito della caverna. Non è possibile, perciò, leggere il Simposio senza le dovute precauzioni: a dispetto delle apparenze, questo dialogo è tutto fuorché un testo di facile comprensione.
Il termine simposio si riferisce alla consuetudine di riunirsi dopo un banchetto serale per discorrere di un argomento specifico e sorseggiare, al contempo, del vino. Nel nostro caso, l’occasione per la riunione di più convitati è offerta dalla celebrazione per la vittoria di Agatone (noto poeta ateniese) in una competizione tragica. A prendere la parola nel corso della discussione, incentrata sul tema dell’amore, sono, nell’ordine, Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate e Alcibiade. Naturalmente, nella seconda parte dell’opera, l’opinione di Platone è affidata alle parole del filosofo Socrate.
Analizziamo dunque, brevemente, i vari interventi del dialogo.
Il primo a parlare, come detto, è Fedro. A suo parere, Eros è il più antico degli dei, capace di infondere negli uomini l’amore per il bello. Nessun amante, infatti, compie azioni che possano procurargli vergogna al cospetto dell’amato; il che porta alla conclusione che, nella polis, i legami di coppia rivestono una significativa valenza sociale.
Più articolato è il discorso di Pausania. In sostanza, egli afferma che occorre tenere presente che Eros ha una doppia natura, ed è da considerarsi bello se si rivolge all’anima, brutto se è interessato solo al corpo. Di questa duplicità, il nomos (ossia l’insieme delle norme e delle tradizioni) ateniese tiene conto, differenziandosi perciò dalle consuetudini delle altre poleis.
Con Pausania concorda successivamente Erissimaco, anche se – precisa – è evidente che Eros «non viva soltanto nelle anime degli uomini, per le persone belle, ma abbia anche altri oggetti e altre sedi», ovvero «i corpi di tutti gli animali ed i vegetali e, per così dire, tutti gli esseri». Di conseguenza – aggiunge –, la medicina è governata da Eros, in quanto, favorendo l’amore sano rispetto a quello malato, cerca di «innamorare reciprocamente, nel corpo, gli elementi più ostili». L’amore, in sostanza, si contrappone drasticamente alla discordia.
A prendere la parola dopo Erissimaco è Aristofane, il quale si affida ad un racconto mitologico (che è, tra l’altro, il passo più conosciuto del Simposio). In origine – afferma – gli uomini erano di forma rotonda e si dividevano in tre distinti sessi: maschio, femmina e androgino. Esseri forti e tracotanti, questi uomini erano invisi agli dei, che li temevano, fintanto che Zeus non decise di tagliarli a metà. Da allora, gli uomini, esseri incompleti, vanno continuamente alla ricerca della propria metà: dagli androgini derivano uomini e donne attratti dall’altro sesso, mentre gli omosessuali provengono dal dimezzamento degli uomini e delle donne. Eros, dunque, dona all’uomo la possibilità di ricercare un ricongiungimento con la parte mancante di sé, e si esprime attraverso la percezione di una mancanza, di un bisogno di unità. «Ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente», conclude Aristofane. Ed è significativo che la parola simbolo, etimologicamente, rimandi all’idea di mettere insieme, far coincidere. Scrive infatti, al riguardo, Umberto Galimberti: «Nell’antica Grecia […] era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo».
Ad Aristofane succede, nel dialogo, Agatone. A suo parere, contrariamente a quanto affermato inizialmente da Fedro, Eros è il più giovane degli dei, come proverebbe la sua straordinaria bellezza. A questa, inoltre, si aggiunge la virtù, che si esprime nelle forme della giustizia, della temperanza, del coraggio e della sapienza. «È lui – sottolinea il poeta tragico – che ci libera dalla selvatichezza […]; lui che ispira la mitezza e bandisce la ruvidezza; generoso in benevolenza, avaro in malevolenza; propizio per i buoni, ammirabile per i saggi, meraviglioso per gli dei; desiderio di chi non ha fortuna, possesso di chi ha fortuna».
Viene quindi il turno di Socrate. Egli afferma, innanzitutto, che chi l’ha preceduto è ricorso il più delle volte ad argomenti retorici, lodando Eros in tutti i modi possibili ma senza alcun riguardo per la verità. Il suo discorso – che è ispirato dagli insegnamenti di Diotima, una sacerdotessa di Mantinea – intende dunque soffermarsi su ciò che Eros realmente è, e si discosta per questo dagli interventi precedenti, in particolare da quello di Agatone. Socrate, infatti, confuta subito l’idea che Eros sia bello, giacché, al contrario, se è vero che amore è sempre amore di qualcosa e che si desidera ciò di cui si è privi, risulta evidente che Eros, in quanto amore del bello, non possa possedere ciò di cui va in cerca.   
Ora, siccome gli dei sono tutti belli, è altresì ovvio che Eros non sia in realtà un dio, bensì un demone – né bello né brutto – che ha una natura intermedia tra gli uomini e gli dei. Secondo Platone, che parla per bocca di Socrate, Eros è infatti figlio di Penia (Povertà) e del dio Poros (Espediente). Si tratta di una genealogia carica di significati, come bene spiega Angelica Taglia: «Secondo la natura della madre, egli [Eros] è povero, privo di bellezza e di agi; come per Aristofane, quindi, anche nel discorso di Diotima Eros risulta nascere da una mancanza, da un bisogno. Ma, in quanto figlio di un dio, dalla natura del padre Eros ha ricevuto l’aspirazione al bello e al buono ed il possesso degli strumenti per procurarsi ciò cui aspira. Poros, che ne è il padre, rappresenta infatti la capacità di trovare la via per uscire dalle difficoltà».
Significativamente, Eros ha molti tratti in comune con la filosofia (che è amore del sapere): entrambi sono mossi infatti da una mancanza, motivo per cui il filosofo non è colui che sa, ma colui che va alla ricerca del sapere partendo da una condizione di ignoranza. Allo stesso modo, anche Eros è un continuo inseguimento: egli rappresenta cioè il tentativo dell’uomo di entrare in contatto con la propria parte irrazionale, la quale costituisce la componente più autentica dell’io ed è imbrigliata dalla ragione che si erge a scudo contro la minaccia della follia. Che cos’è, dunque, per Platone l’amore? È l’irruzione del divino che scompagina l’universo razionale e fa sì che l’uomo entri in contatto con la propria follia, con il proprio vero essere. In quest’ottica, è chiaro che l’amante trova nell’amato una guida che gli consente di accedere alla parte più autentica e recondita del suo io. Il che, in parole povere, equivale a dire che se A ama B, ciò significa che A esplora se stesso attraverso B.
Ecco allora che risulta chiara la natura intermedia di Eros, il quale – precisa Galimberti – «si fa interprete […] tra la ragione che l’uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita». A ben vedere, si tratta del ruolo rivestito da Socrate: così come Eros fa da tramite tra razionalità e follia, allo stesso modo il filosofo – attraverso il procedimento maieutico – è colui attraverso il quale è possibile entrare in contatto con la sapienza divina. È Alcibiade, nel suo intervento conclusivo, a cogliere indirettamente questo nesso. Egli infatti decide di lodare Socrate (e non Eros), lasciando intendere – come nota Angelica Taglia – che il filosofo sia «un Eros con fattezze umane: come Eros scalzo e brutto, ma insidiatore di belli, come Eros non sapiente, ma alla ricerca della sapienza». Tuttavia Alcibiade, pur attratto dalla saggezza di Socrate, non è in grado di comprenderne appieno le implicazioni. Socrate, infatti, scardina la ragione per far emergere la parte più autentica (ma al contempo minacciosa e angosciante) dell’umano; al pari di Eros, egli si pone in una posizione intermedia, prendendo per mano il suo interlocutore e conducendolo alla scoperta della follia che lo abita. Per questo egli è bandito dalla città e condannato a morte: perché l’irruzione del divino (di ciò che non è controllabile per via razionale giacché va al di là della ragione) è tremendamente destabilizzante. È lo stesso Alcibiade, del resto, a dirlo, riferendosi a Socrate: «A volte mi verrebbe quasi il desiderio di non vederlo più tra i vivi; ma poi, se questo accadesse, so bene che ne avrei molto maggiore angoscia: sicché non so proprio come comportarmi con quest’uomo». Per Platone, il mondo dell’Eros è dunque la disponibilità di un’esperienza – carica di fascino e di insidie – che oltrepassa i confini della ragione.  

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mercoledì 22 ottobre 2014

«L’arte di essere felici»: la riflessione di Schopenhauer su come «vivere passabilmente»

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 ottobre 2014)

Arthur Schopenhauer non era certo un tipo allegro. Austero, misantropo e campione di pessimismo, molti studenti lo considerano – in parte non a torto – il Leopardi della filosofia, un autore, cioè, che è obbligatorio leggere sui banchi del liceo, ma che – volendo utilizzare il gergo giovanile – porta un po’ sfiga. Se poi si aggiunge che il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, è un mattone onestamente piuttosto complesso, ecco che la frittata è fatta: nell’opinione della gente comune, chi legge Schopenhauer deve avere senz’altro qualche serio problema.
Eppure, anche se pochi lo sanno, spulciando tra le carte postume del filosofo tedesco, è emerso che Schopenhauer aveva a cuore anche un certo tipo di riflessione che, sicuramente, ai nostri occhi risulta parecchio accattivante: si tratta della cosiddetta eudemonologia (o eudemonica), ovvero – come egli precisa – di quella dottrina che «dovrebbe insegnare a vivere il più felicemente possibile». Il che ci porta ad una constatazione quantomeno bizzarra: lo stesso autore pessimista per antonomasia si occupò (tra le varie cose) dello studio dell’arte di essere felici. Il risultato della sua indagine sono cinquanta massime di vita (di varia lunghezza: alcune sono riflessioni complesse, altre semplici aforismi), che in italiano sono state raccolte in un volumetto dal titolo L’arte di essere felici, pubblicato da Adelphi nel 1997.
Schopenhauer parte da una considerazione fondamentale. Per poter apprendere un modo saggio di vivere, occorre rispettare due condizioni: rifuggire tanto da un atteggiamento stoico, quanto da un agire machiavellico. Argomenta, infatti, il filosofo: «Non la prima via, quella della rinuncia e della privazione, [è praticabile] poiché la scienza deve regolarsi sull’uomo comune, che è troppo colmo di volontà […] per cercare la sua felicità in questo modo. Non la seconda, il machiavellismo, cioè la massima di raggiungere la propria felicità a spese della felicità altrui, poiché proprio nel caso dell’uomo comune non si può dare per scontata la presenza della ragione necessaria a questo scopo».
Fatta questa premessa, Schopenhauer precisa che, di per sé, «una felicità compiuta e positiva è impossibile» (si tratta di un concetto più volte ribadito, come per esempio nella massima 22: «Il principio primo dell’eudemonologia è che questa espressione è un eufemismo e che “vivere felici” può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente»): ma ciò non impedisce all’uomo di darsi da fare per ridurre al minimo le sofferenze e vivere in pace. Le massime del trattatello costituiscono, pertanto, un agile strumento per avvicinarsi a quello che il filosofo considera il bene supremo: la serenità dell’animo. La quale, è bene sottolinearlo, è comunque vincolata alla salute fisica, senza la quale ogni discorso sulla felicità risulta inutile.
Procediamo dunque con l’analisi – che effettueremo in maniera “libera”, senza citare di volta in volta la numerazione corrispondente – di alcune tra le massime più significative. La prima di esse somiglia molto ad un avvertimento: dal momento che la felicità, concretamente, è un’illusione, mentre la sofferenza ed il dolore sono assolutamente reali, nella ricerca della serenità è bene preoccuparsi, più che altro, di sfuggire a questi ultimi. Al riguardo, prosegue Schopenhauer, un utile consiglio è evitare l’invidia e pensare sempre a chi sta peggio, senza farsi ossessionare da chi sembra esageratamente felice. Fondamentale, poi, è conoscere se stessi. Ognuno, infatti, ha esigenze personali e specifiche, ed è inutile, oltreché dannoso, fingere di volere ciò che in realtà non si desidera. «Un uomo – scrive il filosofo – deve [...] sapere ciò che vuole e sapere ciò che può. [...] Conosciamo del pari la natura e la misura delle nostre forze e delle nostre debolezze, e ci risparmieremo perciò molti dolori».
Inutile però farsi delle illusioni: il dolore fa parte della vita (di cui è una componente essenziale), ed è indispensabile accettarlo. Quanto alla felicità, essa può essere avvertita concretamente solo nel momento in cui sopraggiunge un mutamento gradito; ma poi, inesorabilmente, svanisce, allo stesso modo di come una grande sofferenza fa passare totalmente in secondo piano ogni piccola sgradevole difficoltà. Il punto è che lo stato d’animo di una persona è subordinato alle sue aspettative per il futuro, giacché è l’avvenire che condiziona il presente (e non il contrario). Ne consegue, quindi, che la felicità si basa sulla previsione (ingannevole) che il futuro sia lieto e che «ogni giubilo smodato […] riposa sempre sull’illusione di aver trovato nella vita qualcosa che non vi si può affatto incontrare, cioè una durevole soddisfazione dei tormentosi e sempre rinascenti desideri o cure». È pienamente condivisibile, pertanto, la conclusione cui giunge Orazio in un passo delle Odi: «Nei momenti difficili ricordati di conservare l’imperturbabilità, e in quelli favorevoli un cuore assennato che domini la gioia eccessiva».
La dipendenza dell’oggi dal domani non deve, tuttavia, trasformarsi in un’ossessione. Infatti, se è vero che non bisogna concentrarsi, come fanno gli sconsiderati, solo sul presente, è altresì evidente che «coloro che, animati da una continua tensione, vivono solo nel futuro, guardano sempre avanti e corrono incontro con impazienza alle cose che sopraggiungono come alle sole che porteranno la vera felicità, lasciando intanto passare inosservato il presente senza goderne, assomigliano all’asino italiano di Tischbein, con il suo fascio di fieno appeso davanti al muso che ne accelera il passo». Occorre pertanto moderazione nel guardare avanti nel tempo, anche perché l’assillo delle conquiste future rischia di confondere le idee su un aspetto cruciale del vivere: ovvero che, siccome «ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo, la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata».
Schopenhauer ritiene, in sostanza, che per vivere serenamente sia necessario sgombrare il campo da equivoci: è estremamente pernicioso, a suo parere, farsi fuorviare dall’ipocrisia di un mondo che diffonde continuamente il più sfrenato ottimismo, giacché è evidente, per esperienza, che i piaceri sfuggono, sono transeunti, mentre la sofferenza ha radici profonde, e permane. Chi guarda al futuro prospettando per se stesso un avvenire forzatamente sereno è destinato necessariamente a patire, non essendosi adeguatamente preparato a sopportare il dolore (che è inevitabile sopraggiunga, prima o poi); chi invece accetta la sofferenza come parte dell’esistenza va incontro a minori sorprese, e riduce sensibilmente lo stordimento provocato da una sventura improvvisa. Al riguardo, Schopenhauer riprende una frase di Goethe: «Chi vuol liberarsi di un male sa sempre quello che vuole; chi vuole invece qualcosa di meglio di quel che ha, è assolutamente cieco». E, da par suo, aggiunge che chi si affanna alla ricerca di un’inconsistente felicità positiva è paragonabile a un cacciatore che insegue «una selvaggina inesistente». Evitare i mali, pertanto, è il solo modo per vivere con serenità.
Da vecchi, prosegue il filosofo, tutto è più semplice, giacché mentre in giovinezza si va ostinatamente alla ricerca della felicità, «nella seconda metà della vita al posto dell’aspirazione alla felicità sempre insoddisfatta subentra la preoccupazione per la sventura, ma trovarvi rimedio è possibile: infatti a questo punto siamo finalmente guariti dal presupposto ora ricordato e cerchiamo solo la quiete e la maggiore assenza di dolori possibile». La vecchiaia, pertanto, è per Schopenhauer l’età più favorevole alla conquista della serenità dell’animo, dal momento che essa placa, in generale, i desideri, sostituendoli col bisogno di comodità, sicurezza e riflessione. Lo studio, per esempio, è un ottimo e gratificante passatempo in grado di allietare le giornate della persona anziana, se non altro perché pone degli obiettivi a chi, per questioni di età, corre costantemente il rischio di farsi sopraffare dall’ozio. Tutti, del resto, devono tenersi impegnati, dal momento che «svolgere un’attività, dedicarsi a qualcosa, o anche solo studiare sono cose necessarie alla felicità dell’uomo».
In definitiva, è essenziale che un uomo assecondi la propria indole, che sappia ascoltarsi e che usi moderazione nell’aspirare alla felicità. Scrive, verso la fine del trattatello, Schopenhauer: «Proprio perché nella vita il dolore è prevalente e positivo, mentre i piaceri sono negativi, chi fa della ragione il filo conduttore del suo agire, e quindi in tutto ciò che si prefigge riflette sulle conseguenze e sul futuro, dovrà spesso applicare il sustine et abstine e sacrificare piaceri e gioie per assicurare la massima assenza possibile di dolore in tutta la vita». E, nell’ultima massima, conclude che la felicità dipende «da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre per lo più si tiene conto solo del nostro destino e di ciò che abbiamo».

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