lunedì 28 aprile 2014

«Non potete servire Dio e la ricchezza»: la (controversa) parabola dell’amministratore scaltro

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 aprile 2014)

La parabola dell'amministratore scaltro (Lc, 16, 1-13) è probabilmente una delle più complesse e controverse del Vangelo. A causa soprattutto di un lessico in parte ambiguo, essa rischia infatti di apparire difficilmente comprensibile, se non addirittura completamente priva di senso. Vale pertanto la pena suggerire una plausibile chiave interpretativa, a partire, naturalmente, da un'attenta lettura dei versetti di Luca:
Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare". L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua". Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: "Tu quanto devi al mio padrone?". Quello rispose: "Cento barili d'olio". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta". Poi disse a un altro: "Tu quanto devi?". Rispose: "Cento misure di grano". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta". Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
La prima importante considerazione riguarda la collocazione della parabola: nel Vangelo di Luca essa segue immediatamente quella del figliol prodigo e, per certi versi, ne costituisce un fondamentale completamento. I due personaggi del padre misericordioso e del padrone sono, a ben vedere, speculari. Se il primo infatti trova la forza di perdonare il figlio scapestrato – pur avendo questi scialacquato la propria parte di eredità –, il secondo punisce severamente l'amministratore incapace, revocandogli l'incarico e cacciandolo. Ma non solo: il padre gioisce per il sincero pentimento di cui dà prova il figlio, mentre il padrone apprezza la scaltrezza (meschina e vendicativa) del suo amministratore. E ancora: il padre dà scarso peso alla ricchezza, laddove invece per il padrone è proprio la capacità di mettere a frutto i beni materiali a fare la differenza tra una persona meritevole ed una mediocre. La prima, fondamentale, precisazione è quindi relativa alla figura del padrone: al contrario di come potrebbe sembrare a una prima impressione, egli non è affatto un personaggio positivo, e incarna al contrario un modello di comportamento – opposto a quello del padre misericordioso – da cui il buon cristiano deve assolutamente rifuggire.
Altrettanto complessa è la figura dell'amministratore. Data la sua sfacciata disonestà, non si corre il rischio che il lettore, anche il più distratto, possa scambiarlo per un personaggio da emulare. Eppure Gesù racconta che il padrone, pur essendo stato raggirato una seconda volta, apprezza la scaltrezza del suo sottoposto. E subito dopo aggiunge: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce». La frase consente di chiarire l'apparente paradosso di un personaggio lodato per la sua disonestà: con tutta evidenza, Gesù non intende portare ad esempio il comportamento immorale dell'amministratore, bensì porre l'accento sulla solerzia con la quale compie il male, ingannando il suo padrone. L'insegnamento da cogliere è dunque che bisogna essere pronti nel decidere per il bene così come i peccatori sono rapidi nell'optare per il male. L'espressione «i loro pari», del resto, ha proprio questo scopo: scavare un solco netto tra i «figli del mondo» (in questo caso sia il padrone che l'amministratore, i quali si intendono alla perfezione poiché entrambi disonesti) e i «figli della luce».
Fatta questa distinzione, Gesù pronuncia quella che è senz'altro la frase più criptica dell'intera parabola: «Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». La parola chiave è ovviamente l'aggettivo «disonesta», che essendo riferito a «ricchezza» induce a pensare che Gesù alluda ai beni guadagnati con inganni e sotterfugi, in modo disonesto per l'appunto. Ma una simile interpretazione del passo è, naturalmente, improponibile. Con «ricchezza disonesta» l'evangelista Luca intende sottolineare che i beni materiali sono, in assoluto, disprezzabili se paragonati all'autentica ricchezza che è racchiusa nel messaggio di Gesù. La ricchezza terrena, in altre parole, è intrinsecamente disonesta, poiché rischia di diventare motivo di distrazione, di distogliere il cristiano dal compimento del proprio dovere di amare il prossimo. Essa, quindi, va condivisa: deve servire (a farsi degli amici, ossia ad aiutare chi ha bisogno), non essere servita. Prima o poi, infatti, i beni materiali vengono a mancare (nel senso che diventano inutili – se non dannosi – ai fini della salvezza); e quando si arriva alla resa dei conti con Dio, le tasche piene sono solo un peso in più se, in vita, non si è condiviso nulla dei propri averi.
Il messaggio di Gesù è radicale nelle parole di Luca: sono proprio gli amici (coloro, cioè, che sono stati soccorsi nel bisogno) ad accogliere i ricchi «nelle dimore eterne». Il che equivale a dire che la ricchezza – disonesta – è un qualcosa che bisogna farsi perdonare, dal momento che rischia continuamente di prendere il posto di Dio nella vita dell'uomo benestante. «Non potete servire Dio e la ricchezza»: è questo l'insegnamento più importante della parabola. Essa intende offrire un modello negativo, da evitare; e va contrapposta a quella del padre misericordioso, esempio positivo, da emulare. Quest'ultimo non dà alcun peso alla ricchezza: rispetto al pentimento del figlio (che «era morto ed è tornato in vita»), i beni materiali non valgono nulla.
Anche il figliol prodigo e l'amministratore sono, infatti, agli antipodi. Se il primo sbaglia in buona fede, si pente e – soprattutto – è disposto a pagare per gli errori commessi («Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati»), il secondo non solo non dà segni di pentimento, ma architetta per vendetta un'autentica truffa ai danni del padrone. Anche in questo caso, le due parabole giustappongono due modelli speculari, che sono antitetici essenzialmente rispetto al principio cardine della sincerità: per rimediare ad un errore, si può cioè ricorrere ad un onesto mea culpa, o, all'opposto, alla menzogna e all'inganno. Dal momento che nessuno può avere la presunzione di ritenersi estraneo al peccato, ciò che davvero fa la differenza tra gli uomini è la capacità di accettare le conseguenze dei fallimenti, di assumersi la responsabilità dei passi falsi compiuti. Gesù al riguardo è piuttosto esplicito: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti». E per «fedele» intende, di fatto, onesto, dal momento che la persona onesta è la sola che agisce secondo giustizia, a prescindere dall'interesse.
La vera ricchezza è pertanto quella interiore, che altro non è che la nobiltà d'animo. «Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?», chiede retoricamente Gesù, sottintendendo che l'onestà non è una linea di condotta cui ci si possa attenere una tantum. In sostanza, o si è onesti o si è disonesti, nelle grandi come nelle piccole cose. E se non si è capaci di rispettare il prossimo nelle questioni di poco conto, come pretendere di accaparrarsi la ricchezza autentica, quella che l'uomo deve cercare dentro di sé? Per entrare in possesso dei beni dell'anima non sono ammessi sotterfugi.

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mercoledì 23 aprile 2014

«Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie»: la morte come enigma che non ammette soluzioni

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 aprile 2014)

Coro di morti nello studio di Federico Ruysch

Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura; 
Lieta no, ma sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de' vivi al pensiero
L'ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura;
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega a' morti il fato.

Il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie possiede una struttura unica nel contesto delle Operette morali di Giacomo Leopardi. Esso infatti integra versi e prosa; ha inizio con il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch (componimento in endecasillabi e settenari) e prosegue con il dialogo vero e proprio tra lo scienziato olandese e le mummie.
Con evidente intenzionalità ironica, Leopardi immagina che Federico Ruysch (anatomista vissuto tra XVII e XVIII secolo che studiò le tecniche di conservazione dei cadaveri) venga svegliato nel cuore della notte dal lugubre canto delle mummie che si trovano nel suo studio.
Per la corretta comprensione del testo – che presenta un'architettura sintattica piuttosto complessa – una parafrasi è d'obbligo.
In te, morte – unica cosa eterna nel mondo, a cui necessariamente ritorna tutto ciò che è stato creato –, trova requie la nostra anima priva di vita, non contenta, ma finalmente al riparo dal dolore provato in vita. Come una notte buia, [la morte] spegne i pensieri dolorosi nella mente confusa; l'essere privo di vita sente venir meno lo slancio alla speranza e al desiderio: così è liberato dall'angoscia e dalla sofferenza ed esaurisce senza noia il tempo concesso alla lunga, vacua esistenza. Vivemmo: e come nel bambino resta il ricordo confuso di un incubo notturno [«paurosa larva» e «sudato sogno» comunicano con una duplice immagine l'idea di una apparizione spettrale e terrificante che turba il sonno], così permane in noi, che siamo morti, il ricordo della vita; ma il ricordo è estraneo alla paura. Che cosa fummo? Che cosa fu quell'esperienza crudele che chiamammo vita? Oggi [siccome siamo morti] la vita è per noi una cosa misteriosa, che suscita stupore, allo stesso modo di come la morte appare misteriosa ai vivi. La nostra anima morta è estranea alla vita così come, quando vivevamo, eravamo alieni dall'idea della morte; non contenta, ma rassegnata [è la nostra anima], dal momento che il destino nega tanto ai morti quanto ai vivi la possibilità di trovare la pace.
Terminato il canto, Ruysch entra nello studio e, dopo aver vinto la paura («Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero»), si rivolge ai morti per invitarli a fare silenzio. Uno di essi, immediatamente, lo rassicura: «Poco fa, sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell'anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose» (si intende il cosiddetto anno platonico, lungo periodo di tempo al termine del quale i pianeti riassumono la stessa posizione avuta all'inizio del loro moto); ogni volta che si compie uno di questi cicli – prosegue il morto –, tutti i defunti, in ogni cimitero, allo scoccare della mezzanotte intonano il coro che Ruysch ha appena udito. Dopodiché, hanno facoltà di parlare con i vivi per un quarto d'ora.
Incuriosito, lo scienziato decide a quel punto di porre alcune domande. E per prima cosa chiede di spiegare che cosa si prova esattamente «di corpo e di animo nel punto della morte».
La risposta dei defunti, tuttavia, è un po' deludente: non si ha alcuna percezione – dicono – del momento in cui finisce la vita, allo stesso modo di come non ci si rende conto dell'attimo in cui sopraggiunge il sonno. Ne consegue che, in punto di morte, non si avverte alcun dolore, dal momento che la cessazione della vita coincide con il venir meno di ogni sensazione corporea. Solo i vivi, pertanto, provano dolore.
Nient'affatto soddisfatto della spiegazione, Ruysch fa notare che molti filosofi – tanto gli epicurei (coloro cioè, per dirla con Dante, che «l'anima col corpo morta fanno»), quanto «quelli che tengono la sentenza comune» (ossia che credono nell'immortalità dell'anima) – ritengono che la morte, di per sé, sia dolorosissima. Ma i morti dissentono radicalmente. Essi sostengono che la morte consista proprio nella sparizione di ogni sensazione: «Come può essere – domanda una delle mummie – che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo?». È facile constatare, del resto, che anche coloro che patiscono a causa di mali estremamente dolorosi, «in sull'appressarsi della morte [...] si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella».
 Ruysch però insiste. Se la spiegazione dei defunti può risultare convincente per gli epicurei, come persuadere coloro che credono che il distacco dell'anima dal corpo in punto di morte non possa avvenire «senza una grandissima violenza»? La replica del morto che già aveva preso la parola in precedenza è netta: l'anima, così come nulla si avverte quando vi entra, abbandona il corpo al termine della vita senza provocare sofferenza, poiché è immateriale. Quando si muore – prosegue il defunto, rispondendo a una nuova domanda di Ruysch – non si prova affatto dolore, ma, al contrario, una sensazione piacevole, una «sorta di languidezza» che deriva dalla cessazione dei patimenti terreni. In altre parole, il venir meno di ogni forma di percezione sensoriale è paragonabile al «languore del sonno».
L'argomento sembra finalmente appagare l'esigente curiosità dello scienziato. Resta solo una questione in sospeso: colui che sta per cessare di vivere ha forse la chiara percezione del sopraggiungere della morte? Risponde il defunto: «Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono».
Tutte le altre mummie confermano queste parole, ma Ruysch non è ancora del tutto soddisfatto. «Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito dal corpo?», domanda ansioso. «Dite: come conosceste d'essere morti?». Di colpo, però, lo studio ripiomba nel silenzio. È scaduto il quarto d'ora; i morti tacciono. Allo scienziato non resta che tornare a dormire.
Con tutta evidenza, nel finale dell'Operetta Leopardi lascia cadere nel vuoto l'ultima domanda di Ruysch per un motivo ben preciso: nessuno può sperare di avere chiara percezione del momento esatto del trapasso. La vita e la morte resteranno sempre un enigma che non ammette soluzioni, un mistero rispetto al quale anche la scienza più avanzata – personificata in Federico Ruysch – deve necessariamente riconoscere i propri limiti. A questo punto però è lecito chiedersi: è possibile scacciare l'angoscia della morte? La riflessione di Leopardi indugia a lungo su questa questione, soffermandosi essenzialmente su una considerazione: se la vita è sofferenza a prescindere dal dolore fisico che può capitare di dover sopportare, se l'«esser beato nega ai mortali e nega a' morti il fato», perché mai si dovrebbe temere la fine dei patimenti terreni? L'istinto che porta ogni uomo a restare attaccato alla vita con tutte le forze disponibili, che spinge a coltivare continue illusioni di sopravvivenza anche in condizioni estreme di malattia e di sofferenza, non è altro che un vile inganno di quella natura che lo scrittore di Recanati considera crudele matrigna.
Il Coro di morti in questo senso è piuttosto esplicito. E la chiave di lettura del componimento sta tutta nell'aggettivo «sicura», che compare in due occasioni (versi 5 e 30) con significati molto diversi. Nel primo caso si dice che la «nostra ignuda natura» trova requie nella morte, non contenta («lieta no»), ma al riparo dalle sofferenze terrene («sicura dall'antico dolor»): il che significa che la morte, nella prospettiva dei defunti, è una condizione in parte desiderabile dal momento che pone fine ai tormenti della vita.
Quando invece, nel secondo caso, Leopardi scrive che «come da morte vivendo rifuggia, così rifugge dalla fiamma vitale nostra ignuda natura; lieta no, ma sicura», significativamente inserisce una pausa dopo quest'ultimo aggettivo, ricorrendo al punto e virgola come segno di interpunzione. Naturalmente, il fatto che non ripeta alla lettera il passo iniziale non dipende certo da una mera questione formale: il secondo «sicura», infatti, non significa affatto «al riparo», bensì «rassegnata», nel senso che l'anima dei morti non può che accettare passivamente il suo essere estranea alla vita. Non si tratta di un'accezione del tutto negativa del termine: basta convincersi che la rassegnazione risparmi, quantomeno, ben più atroci delusioni.
Accettare quindi la morte come fine delle sofferenze e, al pari dei defunti che intonano il Coro, non riporre troppe aspettative in quella che non è altro che una misera parentesi terrena: è questa, in definitiva, l'unica condotta possibile per Leopardi. Piuttosto che angosciarsi con domande che non possono trovare risposta, meglio – come Federico Ruysch – tornarsene a letto.

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martedì 15 aprile 2014

«La madre»: la drammatica impossibilità di eludere il senso di colpa

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 aprile 2014)

Pubblicato nel 1919, La madre di Grazia Deledda è un romanzo – come ha scritto Andrea Cannas nella prefazione all'edizione del 2005 per i tipi di Ilisso – costruito come «una rappresentazione del teatro antico, dove avvenimenti cruciali non vengono mostrati al pubblico, il quale tuttavia ne percepisce come un rumore di fondo». Il libro – un drammatico resoconto dell'angoscia di una madre in pena per il figlio – incuriosì il celebre scrittore britannico David Herbert Lawrence, che ne scrisse una significativa prefazione per l'edizione in lingua inglese apparsa nel 1928, un anno dopo l'assegnazione del Nobel all'autrice sarda.
L'incipit del romanzo proietta il lettore direttamente nel cuore della vicenda narrata (è un classico esempio di apertura in medias res): «Anche quella notte, dunque, Paulo si disponeva ad uscire». Il soggetto in questione è il figlio di Maria Maddalena (la madre che dà il titolo al romanzo),  giovane parroco del piccolo paese di Aar. Uscendo furtivo quando tutti ormai dormono, egli sta andando a trovare la sua amante. Maria Maddalena ne è certa, anche se non ha prove inconfutabili. Una madre sa intuire cosa passa per la mente del figlio, e alcuni indizi equivalgono a una confessione: da giorni, infatti, Paulo cura con ossessione il suo aspetto esteriore, indugiando a lungo davanti allo specchio prima di uscire, sempre a tarda ora.
Una notte Maria Maddalena decide di seguirlo. «Fino a quel momento – scrive la Deledda – ella s'era illusa nella speranza di vederlo scendere al paesetto per visitare qualche malato: eccolo invece che correva come trasportato dal diavolo verso la casa antica sotto il ciglione. E nella casa antica sotto il ciglione non c'era che una donna sana, giovine e sola...».
Fatta l'amara scoperta, alla povera madre non resta che riprendere la via di casa. Mentre attende che Paulo rientri, è attanagliata da mille pensieri. Dovrà prevenire uno scandalo, trarre in salvo il figlio – che pure era sempre stato un uomo di fede – e impedire che ceda nuovamente alle tentazioni del demonio. Sola, entro i muri di una stanza divenuta soffocante, ripercorre col pensiero le tappe significative della sua vita, scavando nel passato alla disperata ricerca di una spiegazione per la debolezza del figlio. E, quando questi finalmente fa ritorno, trova dentro di sé la forza per affrontarlo. Paulo dapprima nega, afferma di essere andato a trovare una malata; ma poi, messo alle strette, capitola: «Madre, vi giuro che non tornerò più in quella casa».
L'indomani il giovane sacerdote appare determinato: la notte sembra averlo reso consapevole delle possibili devastanti conseguenze del suo peccato. Affida pertanto alla madre una lettera da consegnare all'amante (il cui nome è Agnese), nella quale afferma di dover troncare una relazione incompatibile con i suoi doveri di parroco. La vita, nel paese, scorre nel frattempo come sempre, offrendo a Paulo l'occasione per provare a concentrarsi solo sugli impegni cui deve ottemperare in quanto sacerdote. Per quanto però egli provi a distrarre la mente, affiora sempre, implacabile, il senso di colpa, che si connota talvolta come impulso alla ribellione nei confronti dei precetti della Chiesa. Anche la madre, che patisce con il figlio, viene colta, nelle sue preghiere, dal dubbio: «Perché, Signore, Paulo non poteva amare una donna? Tutti possono amare, anche i servi e i mandriani, anche i ciechi e i condannati al carcere; perché il suo Paulo, la sua creatura, lui solo non poteva amare?».
Per fortuna di Paulo, lo attende una lunga giornata di lavoro. C'è da impartire l'estrema unzione ad un anziano del paese; bisogna provvedere ad una bambina che, a detta della madre, è posseduta dal demonio, praticando un esorcismo per il quale il parroco si procura – a dispetto del suo scetticismo – la fama di santità; e occorre infine parlare con la madre del sagrista (un ragazzo che ha deciso di farsi prete), per sincerarsi che entrambi abbiano ben chiaro cosa sia il sacerdozio. Quest'ultimo colloquio viene però bruscamente interrotto: giunge infatti la notizia che Agnese si è sentita male dopo una caduta e perde sangue dal naso. Paulo presto si rende conto che è suo dovere andare a trovarla, e si trova costretto ad ignorare il monito della madre, la quale teme che il figlio possa ricadere in tentazione. Egli però è deciso a non cedere e riesce, seppur con difficoltà, a tenere testa alla donna, che gli chiede di rinunciare all'abito talare per fuggire con lei lontano dal paese e sposarla. Il congedo tra i due amanti è però drammatico: Agnese, che si sente tradita, minaccia di rivelare la loro relazione il giorno seguente, durante la messa, dal pulpito della chiesa. Ella non crede che Paulo – il quale afferma di essersi sentito, improvvisamente, lontano da Dio, «sull'orlo dell'abisso» – sia sincero: «Perché – lo rimprovera, dando prova di avere capito tutto – non parlavi così ieri sera? E le altre sere? Perché la verità era allora un'altra. Adesso qualcuno ti ha scoperto, forse tua madre stessa, e tu hai paura del mondo. Non è la paura di Dio che ti spinge a lasciarmi».
Il giorno seguente Paulo è pronto per celebrare la messa. Non sa se dare credito alla minaccia di Agnese, ma decide comunque di confidarsi con la madre. In chiesa rispetta il rituale alla lettera, ma i gesti e le parole sono vuoti, privi di significato. Per la prima volta, Paulo, Maria Maddalena ed Agnese si ritrovano nella stessa stanza, concentrati esclusivamente su una realtà che essi solo conoscono. Terminata la funzione, Agnese si avvicina all'altare: ma è solo per inginocchiarsi, prima di incamminarsi verso l'uscita. Paulo, apparentemente, è salvo; la madre, invece, vinta dall'angoscia, giace priva di vita in un angolo della chiesa. «Egli intese subito ch'ella era morta della stessa pena, dello stesso terrore che egli aveva potuto superare».
 Nel commentare il romanzo, David Herbert Lawrence scrisse che «l'amore del prete per la donna è semplice passione istintiva, pura e non corrotta dal sentimentalismo. Come tale, essa è degna di rispetto». Questo, a ben vedere, è il motivo per il quale Grazia Deledda non giudica il suo personaggio, mostrando anzi una certa compassione. Paulo è una vittima: deve contrastare un sentimento che è sorto in lui spontaneamente, e che lo sovrasta, piegandone la volontà pur senza intaccare la sua fede in Dio. Vincendo, a caro prezzo, la tentazione di perseverare nell'errore, egli dà prova di grande forza d'animo, imponendosi di far prevalere l'amore, lecito e razionale, per la madre su quello, illecito e istintuale, per Agnese. Ma, è questo il duro messaggio della Deledda, non c'è scampo per chi è costretto a vivere nella colpa: il destino, inesorabile, di chi viola le leggi della propria morale non può essere che la sofferenza, l'espiazione.
Simbolicamente, Maria Maddalena rappresenta la coscienza di Paulo, una coscienza che, inevitabilmente, presenta infine il conto all'ignaro peccatore. La morte della madre è infatti l'esito di una resa, vista l'impossibilità di eludere la sorveglianza di quel giudice implacabile che ogni uomo, necessariamente, avverte dentro di sé. Non ci sono attenuanti per il sacerdote di Aar: lo sa, in primis, lo stesso Paulo; ma lo sanno anche la madre – la quale non regge il peso del dolore – e Agnese, che desiste dal suo proposito di denunciare il parroco proprio perché comprende che egli non potrebbe mai amarla in piena libertà. Nessuno, infatti, può dirsi libero rispetto ai vincoli imposti dalla propria morale. Ovvio, i limiti cambiano da persona a persona, ma per tutti esiste una soglia dell'inaccettabile superata la quale diventa pressoché impossibile convivere con se stessi, portare il peso della propria colpa.
Non importa che i compaesani riconoscano in lui un santo: Paulo resterà per sempre un peccatore. Forse, lascia intendere l'autrice, è possibile interrogarsi sulla natura e sulla provenienza di certi vincoli («Perché, Signore, Paulo non poteva amare una donna?»), ma non conta nulla il fatto che razionalmente li si possa mettere in discussione. Il punto è che quando una legge morale ha preso forma nell'animo di un uomo, questi rispetto ad essa non avrà mai scampo. Anche se Paulo non fa del male a nessuno e, in fin dei conti, asseconda un istinto naturale, verso il quale è proprio la morale a commettere un atto di violenza, non esiste alcuna possibilità che egli possa perdonarsi. E la madre, che ha ben compreso tutto questo ed è consapevole del destino di sofferenza e rimorso che attende il figlio, non può sopportare, per l'amore incommensurabile che prova per lui, una simile pena. La morte è quindi il prezzo da pagare per gli errori commessi: morte fisica, nel caso di Maria Maddalena; morte di una parte di sé (ovvero di quella spensieratezza che appartiene solo a chi non ha mai conosciuto la colpa), in quello di Paulo.

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lunedì 7 aprile 2014

«Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie»: semplice fuga dalla «prosaica realtà»?

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 aprile 2014)

Pubblicato nel 1865 – in piena età vittoriana –, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie è il capolavoro del reverendo e matematico inglese Charles Lutwidge Dodgson, meglio noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll. L'origine del libro è rievocata in una poesia introduttiva che precede il primo capitolo. Il 4 luglio 1862 Carroll fece una gita in barca in compagnia del reverendo Robinson Duckworth (i due erano colleghi, essendo entrambi docenti ad Oxford) e delle tre giovani figlie del grecista Henry George Liddell, dean del Christ Church College. Secondo la testimonianza dell'autore, la storia di Alice venne inventata in quell'occasione, per accogliere la richiesta delle bambine, «tre visi intenti, assetati di notizie del paese delle fate, che non avrebbero mai accettato un "no", e dalle cui labbra il "Ti prego, raccontaci una storia" aveva tutta la rigida ineluttabilità del Fato!». Fu poi Alice Liddell, per età la seconda delle tre figlie di Henry George, ad insistere perché la storia fosse messa per iscritto: a lei si deve pertanto la stesura del romanzo, che dapprima (pensato come regalo proprio per la bambina che, evidentemente, ispirò Carroll per la definizione dei tratti della protagonista del racconto) fu trascritto in soli quattro capitoli, e successivamente fu ampliato e pubblicato con le celebri illustrazioni di John Tenniel.
La trama è estremamente articolata, al punto di rendere pressoché impossibile l'individuazione di una lineare sequenza narrativa. Il racconto inizia con l'immediata introduzione della figura di Alice, la quale, seduta sull'erba accanto alla sorella – che è intenta a leggere un libro –, si annoia a morte e comincia «a non poterne più». Mentre cerca un modo per passare il tempo, sopraggiunge d'un tratto un coniglio bianco: l'animale indossa un panciotto e controlla ansioso un orologio estratto dal taschino. «Povero me! Povero me! Sto facendo tardi!», va dicendo tra sé, affrettando il passo, prima di sparire in una buca posta sotto una siepe.
Incredula, Alice si lancia all'inseguimento del coniglio. Ma, una volta entrata nella sua tana, sprofonda all'improvviso, precipitando in quello che le sembra un pozzo senza fondo. Quando finalmente atterra, senza essersi fatta alcun male, si ritrova in un vestibolo con numerose porte, tutte chiuse a chiave. Quindi si imbatte in un tavolino a tre gambe, sul quale trova una minuscola chiave d'oro, che apre una porticina nascosta dietro una tenda, dalla quale si accede a un giardino meraviglioso. Alice però è troppo grande per passare da quella piccola apertura, e si lascia prendere dallo sconforto, finché non scorge, sempre sul tavolino, una bottiglietta con un cartellino con su scritto «Bevimi». Dopo averne bevuto il contenuto, viene immediatamente rimpicciolita; ma ha dimenticato la chiave sul tavolino, e le sue nuove ridotte dimensioni non le consentono più di raggiungerla. Sconsolata, trova a questo punto un pasticcino «con la parola MANGIAMI formata chiaramente da tante uvette», il cui effetto è quello di ingrandirla nuovamente. Ma, ancora una volta, si ripete la situazione iniziale: ora Alice può raggiungere la chiave sul tavolino, ma è troppo grande per passare dalla porticina. E scoppia in lacrime.
Dopo un po' rientra in scena il coniglio, con un paio di guanti bianchi in una mano e un grosso ventaglio nell'altra. Questi, vedendosi venire incontro una bambina che cerca di attirare la sua attenzione, per lo spavento lascia cadere tutto in terra e corre via. Raccolti gli oggetti del coniglio, Alice presto realizza che il ventaglio ha la proprietà di rimpicciolirla; ma, mentre si dirige verso la porticina, scivola e si ritrova immersa fino al collo nel «laghetto delle lacrime» versate poco prima. Nuotando, si avvicina quindi a un topo e a «una folla di uccelli e di altri animali», con i quali raggiunge la riva. Per asciugarsi, i membri dell'insolita comitiva suggeriscono di dare inizio a una «Corsa Elettorale» (di fatto un andirivieni senza senso in cui ognuno parte e si ferma quando vuole); dopodiché Alice si allontana, raggiungendo la casetta del coniglio bianco (il vestibolo, nel frattempo, è misteriosamente scomparso).
Inizia a questo punto il vero e proprio viaggio nel Paese delle Meraviglie. Alice viene catapultata in un mondo dominato dalle assurdità, dove viene meno il nesso causa-effetto e tutti gli animali sono in grado di parlare. Cambiando continuamente le proprie dimensioni (a seconda di quello che mangia), la giovane visitatrice si ritrova dapprima intrappolata nella casa del coniglio (dal momento che è troppo grande per uscirne); poi si imbatte in figure fantastiche quali il Bruco, intento a fumare il narghilè da sopra un fungo, la Duchessa (che riceve da due Valletti – un pesce e una rana – un invito per una partita di croquet con la Regina), il Gatto del Cheshire (capace di svanire nel nulla), la Lepre Marzolina, il Ghiro e il celebre Cappellaio. Questi ultimi sono seduti in un angolo di un grande tavolo, apparecchiato per molte persone. Dopo essersi seduta a capotavola, Alice apprende che i tre commensali sono soliti prendere il tè cambiando continuamente posto, spostandosi di tazza in tazza. Il motivo, naturalmente, è bizzarro: a causa di un rimprovero della Regina di Cuori (che durante un'esibizione canora in occasione di un concerto l'aveva accusato di assassinare il tempo), il Cappellaio possiede un orologio che segna solo i giorni, ma sempre la stessa ora (le sei, l'ora del tè), sicché manca «il tempo di lavare la roba negli intervalli».
Abbandonata questa stramba comitiva, Alice giunge infine nel bel giardino oggetto del suo iniziale desiderio. Qui, in un mondo abitato da carte da gioco, partecipa al croquet della Regina, che si rivela essere un immane guazzabuglio, anche per l'irascibilità della sovrana, che ordina di mozzare il capo a chiunque le si pari davanti. Dopo essersi imbattuta in nuove strane creature (il Grifone e la Finta Tartaruga), Alice assiste al processo istruito contro il Fante di Cuori, accusato di avere rubato alcune paste da una tavola imbandita dalla Regina. Per decretare la colpevolezza dell'imputato risulta decisiva una lettera senza firma, su cui è trascritta una poesia totalmente priva di senso. «Prima la sentenza e poi il verdetto», prorompe decisa la Regina, ma Alice, che nel frattempo ha cominciato a crescere a dismisura, si oppone. Ormai, forte delle sue grandi dimensioni, non ha più alcun timore di dire ciò che pensa: «Non siete che un mazzo di carte!», afferma con tono risoluto, e immediatamente dopo si sveglia tra le braccia della sorella. Frastornata per l'incredibile sogno, rientra a casa per il tè.
Le ultime pagine del libro contengono una possibile chiave di lettura del racconto. Alice, dopo essersi ridestata, ha appena finito di esporre il suo sogno alla sorella; ed è subito corsa a casa. Scrive a questo punto Carroll: «Ma sua sorella rimase ferma a sedere proprio dove Alice l'aveva lasciata, con la testa appoggiata sulla mano, a guardare il sole al tramonto e a pensare alla piccola Alice e a tutte le sue meravigliose Avventure [...]. Così se ne restò lì a occhi chiusi, quasi credendosi nel Paese delle Meraviglie, pur sapendo che le sarebbe bastato riaprirli e tutto sarebbe ridiventato la prosaica realtà». Quest'ultimo aggettivo, a ben vedere, è carico di significati. Se da un lato, infatti, Carroll considera l'infanzia (incarnata da Alice) l'affascinante età dell'immaginazione e del mistero, dall'altro egli è perfettamente consapevole che sarebbe assurdo (così come assurdi sono i personaggi della sua storia) augurarsi di vivere in un mondo privo di senso. Nel reverendo Dodgson convivono perciò due nature: quella, onirica, di Alice e quella, razionale, della sorella. Questa ultima è tutt'altro che un personaggio secondario, e rappresenta per certi versi una trasfigurazione letteraria dello stesso Carroll, il quale si lascia solo parzialmente sedurre dall'incanto delle avventure fiabesche, rassicurato dall'idea che sia sufficiente riaprire gli occhi per uscire dal regno dei sogni.
Anche Alice, del resto, non rinuncia mai alla propria rigorosa razionalità, che si esprime soprattutto attraverso il pignolo rispetto di tutte le formalità tipiche della tradizionale educazione vittoriana. E il motivo è che un mondo senza tempo, dove non vige il principio di causalità e sono stravolte le più elementari leggi della fisica, non è un luogo poi così ospitale. La ribellione finale di Alice è in tal senso un chiaro indizio: pur essendo affascinante sprofondare, una tantum, in un fantastico regno di fantasia, alla lunga è sempre consigliabile tenere i piedi ben saldi a terra. Solo in questo modo è possibile che la «prosaica realtà» si trasformi in un Paese delle Meraviglie. Un Paese che – forse al di là delle intenzioni di Carroll – somiglia molto più a una terra promessa per adulti che non a un paradiso da fiaba per bambini.

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giovedì 3 aprile 2014

«Uno, nessuno e centomila»: la follia come evasione dalla prigione delle forme

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 marzo 2014)

Uscito in volume nel 1926 (ma iniziato, come stesura, già a partire dal 1909), Uno, nessuno e centomila è l'ultimo, sofferto romanzo di Luigi Pirandello, una sorta di summa che raccoglie, e porta a maturazione, tutti i motivi peculiari dell'intera sua produzione precedente.
La vicenda prende le mosse da un fatto, di per sé, insignificante: al protagonista, Vitangelo Moscarda, la moglie Dida fa notare che il naso gli pende leggermente verso destra; ed egli, che non si era mai accorto di nulla, realizza così, di colpo, che l'immagine che ha di sé non coincide con quella che le altre persone hanno di lui. Da quell'episodio, infatti, risulta evidente che esistono, potenzialmente, infiniti Moscarda, tanti quanti sono i punti di vista di coloro che lo osservano. Il che, per il protagonista, risulta essere una scoperta sconvolgente: «L'idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un "mio" dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest'idea non mi diede più requie».
Inizia così, da un dettaglio in apparenza trascurabile, la rivolta di Moscarda contro le forme entro le quali si sente costretto dal giudizio altrui. In gioco c'è, in sostanza, la questione della sua identità. Se infatti, come avverte, il suo io si forma di volta in volta in ciò che egli è per gli altri, questo significa che l'unità della sua persona si frammenta in molteplici immagini, con il conseguente sgretolamento delle certezze legate all'io. In altre parole, la presa di coscienza di essere centomila persone diverse per gli altri alimenta inevitabilmente la consapevolezza di non essere (e di non poter essere) nessuno per se stesso.
Tra tutte le forme da cui Moscarda si sente oppresso, quella del bieco usuraio è la più intollerabile. Vitangelo è infatti l'erede di un banchiere arricchitosi senza scrupoli, anche se, prima della sua crisi, era sempre vissuto nella più totale indifferenza, sfruttando la rendita garantita dalle ingenti ricchezze paterne, amministrate per lui da due fedeli amici. Ora, però, avendo deciso di rompere le catene che lo vincolano, secondo il giudizio comune, all'immagine del privilegiato parassita, si propone di distruggere tutti i diversi Moscarda che emergono dal confronto con le persone che lo conoscono. Tutti, ovviamente, a partire dal Moscarda-usuraio.
Come Mattia Pascal (l'eroe del più celebre romanzo pirandelliano), il protagonista di Uno, nessuno e centomila si scopre quindi in trappola, imprigionato entro un'identità scomoda, imposta dai legami sociali. Ma mentre il primo si era illuso di poter rinascere con un nuovo io creato dal nulla, Moscarda si mostra interessato esclusivamente alla pars destruens: egli, cioè, vuole sbarazzarsi delle identità che sente a sé estranee, senza avere la pretesa di riuscire a costruire un nuovo io più stabile («Troppo ero già compreso dall'orrore di chiudermi nella prigione d'una forma qualunque»). In sostanza, quello che per Pascal era stato il punto di arrivo (la consapevolezza di non esistere per sé, ma solo nella visione degli altri, al punto di convincersi di non essere nessuno), per Vitangelo diviene il punto di partenza.
È questo, in definitiva, il presupposto delle pazzie attraverso le quali Moscarda pretende di stravolgere l'opinione che la gente ha di lui. Per prima cosa sfratta un poveraccio, tal Marco di Dio, cui persino il padre aveva concesso di vivere gratuitamente in una catapecchia di sua proprietà. Poi, dopo essere stato fatto di segno di generale riprovazione, stupisce tutti regalando allo stesso di Dio un'abitazione più confortevole. In seguito fa liquidare la banca paterna ed entra in contrasto con la moglie, col risultato che quest'ultima lo lascia e si accorda con gli amministratori e con il suocero per farlo interdire. Delle intenzioni di Dida, Moscarda è messo al corrente da Anna Rosa, amica della moglie, alla quale il protagonista rivela l'essenza delle proprie considerazioni sull'io. La reazione della donna, però, è sconsiderata: pur affascinata dalle sue parole, spara a Vitangelo in un raptus di follia, ferendolo. Lo scandalo che segue all'episodio (che tutti interpretano come l'epilogo tragico di una relazione adulterina) provoca un ulteriore e definitivo colpo di scena: dopo avere riconosciuto pubblicamente le proprie colpe, Moscarda fa fondare con i suoi averi un «ospizio di mendicità», dove egli stesso viene immediatamente ricoverato. Ma il suo, ci tiene a precisare alla fine del racconto, non è affatto un ravvedimento: «Quel che più mi coceva era che questa mia totale remissione fosse interpretata come vero pentimento, mentre io davo tutto, non m'opponevo a nulla, perché remotissimo ormai da ogni cosa che potesse avere un qualche senso o valore per gli altri, e non solo alienato assolutamente da me stesso e da ogni cosa mia, ma con l'orrore di rimanere comunque qualcuno, in possesso di qualche cosa».
La conclusione della vicenda lascia dunque intendere che il protagonista accetti la disgregazione del suo io come l'unica soluzione possibile. La solitudine e la pazzia sono vissute come una liberazione dalla prigione delle forme, al punto che, nell'ultimo paragrafo del romanzo, Moscarda giunge persino a rifiutare il proprio nome («Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d'oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome»). La vita, infatti, scrive Pirandello, «non conclude», non può essere fissata una volta per tutte con una definizione. La conoscenza vorrebbe bloccare la vita, per darle una forma chiara e rassicurante: ma la vita scorre, e non si lascia mai imbrigliare – anche se gli uomini si illudono del contrario – in percezioni assolute e, inevitabilmente, soggettive. Per conoscere – afferma Moscarda, rivolto ad Anna Rosa – «bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s'atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa. [...] Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire».
L'alienazione di sé è quindi per Moscarda l'inevitabile conseguenza della sua ribellione. Se infatti l'identità non può prescindere dall'altro per affermare se stessa, risulta evidente che l'io è destinato a fallire quando tenti di costruirsi un'immagine propria, chiaramente definita. Solo annullandosi, sopprimendosi come identità, Moscarda si sente finalmente libero e autentico. Di fatto, egli si rende continuamente estraneo a se stesso, rifiuta di fermarsi e di osservarsi vivere. «Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori»: è questa la conclusione del romanzo, che trasfigura una realtà di apparente sconfitta indirizzandola verso una paradossale, e inaspettata, guarigione.
Nella malattia Moscarda ritrova dunque i presupposti per salvare se stesso: anche se le sue inquietudini lo rendono un pazzo agli occhi dei cosiddetti sani, la scelta di appartarsi dalla società rappresenta il solo modo per sopravvivere in un mondo falso e ipocrita. Di fatto Moscarda, dal momento che non accetta di sottostare alle regole – non scritte, ma ferree – della convivenza civile, ha assoluto bisogno di farsi da parte. Vivere tra le persone "normali" equivale infatti a subire continue imposizioni, nel senso che, in ogni momento, si è costretti ad indossare abiti adatti a soddisfare le esigenze altrui. Ma Moscarda si rifiuta di fare la marionetta, di vestire i panni dell'usuraio per la gente comune, del marito arrendevole per la moglie, dell'erede sfaccendato per gli amministratori della banca, e via dicendo. Dei centomila Moscarda esistenti, nessuno è quello autentico. Nemmeno quello che, ostinatamente, lo stesso protagonista cerca di costruire dal nulla potrà mai essere, del resto, il vero Moscarda. Forse proprio la follia – che con Pirandello si avvicina molto al suo contrario, alla salute mentale – è il più valido rimedio contro la perdita di consistenza dell'io. Se si accetta l'idea che la piena libertà – quella che consente di rigenerarsi giorno per giorno, senza costrizioni – sia accessibile solo varcando la soglia della pazzia, allora il folle è l'unico che possa evadere dalla prigione delle forme.

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