martedì 29 ottobre 2013

«Alla stazione in una mattina d’autunno»: Carducci e l’incubo della modernità

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 ottobre 2013)
 
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi 
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
 
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia, 
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna 
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
 
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
 
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
 
Già il mostro, conscio di sua metallica 
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
  
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi. 
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
 
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata 
pura fronte con atto soave!
 
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
 
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
 
Sotto la pioggia, tra la caligine 
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
 
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima! 
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
 
Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi 
in un tedio che duri infinito.
La poesia – ode alcaica di quindici quartine, ciascuna delle quali formata da due quinari doppi, un novenario e un decasillabo – fu composta da Giosue Carducci in due tempi: abbozzata nel giugno del 1875, fu portata a termine nel dicembre dell'anno successivo. Come si ricava dall'epistolario dell'autore, lo spunto venne offerto da un episodio risalente al 23 ottobre 1873, quando Carducci, in una piovigginosa mattina autunnale, accompagnò Lidia (nome letterario di Carolina Cristofori Piva, amante del poeta conosciuta nel 1871) alla stazione di Bologna, dove la donna era venuta a trovarlo.
L'ode risale a un periodo in cui la relazione con Lidia era confinata a marginali e fuggevoli incontri. Una lettera datata proprio 23 ottobre 1873 consente di chiarire le circostanze che portarono Carducci alla stesura del componimento: «Stamani con l'ultimo rumore allontanantesi del treno che ti portava, a me pareva che fuggisse irreparabilmente la visione più dolce della mia vita irrequieta. Parmi che l'inverno mi circondi». Lidia si era infatti recata a Bologna per salutare il poeta prima di partire per Civitavecchia, dove avrebbe raggiunto il marito, il colonnello Domenico Piva, che era stato trasferito in quella città con il suo reggimento. Il distacco dall'amata alla stazione ferroviaria fece sorgere nell'animo di Carducci quella sensazione di profonda tristezza che è alla base dell'ode, composta a distanza di circa due anni dall'avvenimento in essa descritto.
Il paesaggio d'apertura inquadra subito il componimento in un'atmosfera spettrale e buia. La pioggia, il fango, il cielo plumbeo trasmettono un senso di forte frustrazione, quasi d'angoscia, per l'imminente separazione del poeta dalla donna amata. La stazione, del resto, è tutto fuorché un luogo idilliaco, il che, per un maestro di classicismo come Carducci, deve suonare come campanello d'allarme. Il discorso indugia peraltro volutamente su particolari banali e prosaici – che non ci si aspetterebbe di trovare in un'ode –, come il biglietto esibito per il «secco taglio della guardia», gli addetti ai freni che armeggiano con sbarre di ferro, «gli sportelli sbattuti al chiudere» e il richiamo ai passeggeri affinché salgano in carrozza.
L'assenza di elementi aulici è tuttavia funzionale ad affermare un senso di profonda estraneità nei confronti dello squallore della vita moderna, che vanifica ogni desiderio di bellezza e sopprime l'umanità dei rapporti personali. L'atmosfera cupa, caratterizzata dalla predominanza del colore nero, richiama un drammatico senso di morte. La locomotiva, simbolo della tecnica che tutto assorbe, evoca l'immagine del traghettatore Caronte: non è più l'espressione del progresso umano che il primo Carducci, nell'Inno a Satana, aveva esaltato quale prodotto della «forza vindice della ragione»; è ormai un «empio mostro» pronto a completare il tragitto che porta, inesorabile, nel regno dei morti.
Al pari del Frankenstein di Mary Shelley, la macchina è pertanto una creatura dell'uomo che rischia di sfuggire al suo controllo. Il distacco forzato da Lidia, costretta a salire sul treno per prendere la strada di casa, ha la valenza di un distacco ancora più doloroso, quello cioè che priva l'umanità di un mondo che sta scomparendo. L'età moderna è frenetica e sostituisce i rapporti tra uomo e uomo con sempre più articolate interazioni tra uomo e apparati tecnici. Viene meno in sostanza il contatto intimo con le persone, cui subentrano ripetitivi e continui botta e risposta con esseri disumanizzati, come i «vigili» e la «guardia» della stazione, figure infernali addette al controllo del corretto funzionamento della locomotiva-mostro.
Un forte senso d'angoscia risiede altresì nella constatazione che l'uomo sembra ignaro del destino che l'attende. Le due domande che Carducci pone nei versi 9-12 non solo, per i più, non trovano risposta, ma probabilmente non sono nemmeno avvertite come impellenti: «Dove e a che move questa, che affrettasi a' carri foschi, ravvolta e tacita gente? a che ignoti dolori o tormenti di speme lontana?». Sembra di leggere la pagina in cui Heidegger, in un saggio del 1959 intitolato L'abbandono, sottolineava che, più della tecnica, ciò che è davvero inquietante «è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo». E non è preparato poiché la modernità, oggi come ai tempi di Carducci, non si lascia imbrigliare dalle pretese finalistiche di un'umanità che ancora tenta di conferirle uno scopo. La tecnica non ha altro fine se non quello di realizzare il possibile, a prescindere dalle conseguenze. Ma siccome l'uomo vorrebbe a tutti i costi trovare un senso alle sue azioni, finisce inevitabilmente per apparire – come rilevato dal filosofo Günther Anders – inadeguato, ancorato a categorie di pensiero anacronistiche, che non possono più portare conforto. Con largo anticipo rispetto ai due citati pensatori tedeschi, Carducci sembra aver intuito che alla modernità non si può accostare con entusiastica serenità il concetto di progresso. Se quest'ultimo, infatti, deve essere inteso come miglioramento della qualità della vita, l'avanzamento senza freni di una tecnica senza scopi nasconde molteplici insidie, dal momento che spodesta l'uomo, privandolo del suo controllo sul mondo. Il futuro è pertanto una minaccia, in quanto non promette altro che sviluppo, che è ben altra cosa rispetto al progresso.
Contrapposto al fosco paesaggio infernale della stazione – teatro in cui va in scena il trionfo della tecnica – è il mondo dei ricordi, evocati per esorcizzare le forze oscure verso cui conduce l'empio mostro. I temi classicheggianti dell'estate, del calore, della bellezza, dell'amore, tutti connessi con la figura di Lidia, inducono il poeta ad abbandonarsi ad un'illusione di quiete eterna, destinata però inesorabilmente a dissolversi al contatto con la fredda realtà. L'ode infatti è subordinata a una concezione del tempo che non lascia speranze per l'avvenire: il bene, la serenità sono confinati nel passato, mentre il presente di sofferenza è costretto a cedere il passo ad un incerto (e per questo angosciante) futuro. Non ha senso, pertanto, coltivare illusioni: la stazione è l'anticamera dell'inferno. Ed è talmente evidente che la locomotiva trainerà l'umanità verso il male che «gli sportelli sbattuti al chiudere paion oltraggi: scherno par l'ultimo appello che rapido suona».
Se quindi Lidia è la personificazione di un passato idealizzato, è chiaro che, alla stazione, Carducci sta celebrando il funerale delle proprie illusioni. La risposta emotiva dell'autore è racchiusa in una parola chiave, ripetuta due volte: tedio. Non si tratta, però, della comune noia, e nemmeno della noia di vivere. Al verso 23, dopo aver descritto il lugubre «nero convoglio», il poeta afferma che «di fondo a l'anima un'eco di tedio risponde doloroso, che spasimo pare»: si tratta, in questo caso, di vuoto esistenziale, della sensazione di sgomento provata per il distacco da Lidia, della paura dell'ignoto cui l'umanità, trainata dalla locomotiva-mostro, va incontro.
Ma il tedio più significativo è chiaramente quello dell'ultima strofa: «Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere, meglio quest'ombra, questa caligine: io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito». È questa la vera parola chiave dell'ode. Carducci, siccome è evidente «che per tutto nel mondo è novembre», vorrebbe sprofondare in una eternità assoluta, senza confini; vorrebbe smarrire il senso dell'essere, perdere il triste e amaro privilegio della chiaroveggenza. In definitiva,  sarebbe auspicabile confondersi con la pioggia e la caligine, per non dover più avvertire, con angosciante lucidità, la miseria cui l'uomo sta andando incontro. Il tedio, quindi, non è altro che l'annullamento delle capacità percettive, lo spegnimento della luce dell'intelletto, la soppressione del pensiero. Addolorato per la perdita di Lidia, la cui partenza ha il sapore di un addio; frustrato per il tramontare dello stesso mondo dell'arte e della poesia, destinato a soccombere sotto il peso della modernità; impossibilitato a cogliere, nel futuro, anche solo un barlume di speranza, al poeta non resta che attendere la morte. «Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere»: è in questo grido di dolore che Carducci racchiude il proprio desolato desiderio di ribellione.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero 

sabato 19 ottobre 2013

«Edipo re»: viaggio di sola andata nel mondo della contaminazione dei contrari

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 ottobre 2013)
 
Il senso più profondo dell'Edipo re, complessa tragedia di Sofocle risalente alla metà del V secolo a. C., è racchiuso, di fatto, nel tentativo di comprendere fin dove possa spingersi – e con quali conseguenze – la conoscenza umana. L'uomo, in altre parole, in che misura deve accettare i limiti posti dalla natura alla sua ricerca razionale della verità?
Edipo, con la sua sete di sapere, porta in scena l'angoscia dell'intera umanità, vanamente protesa alla ricerca di una conoscenza che elimini la paura dell'ignoto. Paura che da un lato è il motore dell'indagine razionale (si teme ciò che non si conosce, e per questo si vuole conoscere), ma, dall'altro, è il prodotto della frustrazione che inevitabilmente pervade l'animo di chiunque abbia constatato l'impossibilità di raggiungere la meta del vero. In Edipo il lettore non può non riconoscere se stesso.
La tragedia di Sofocle si apre con la descrizione delle conseguenze di un'immane pestilenza che affligge la città di Tebe. Accompagnati da un anziano sacerdote di Zeus, alcuni giovani si recano presso il palazzo del re Edipo affinché questi prenda provvedimenti efficaci contro il flagello. Chi infatti meglio del sovrano – che si era guadagnato a suo tempo il trono liberando la città dalla Sfinge (dal mostro, cioè, che aveva divorato tutti coloro che non erano stati in grado di risolvere il suo indovinello, impresa infine riuscita proprio a Edipo) – potrebbe farsi carico della situazione?
Edipo rassicura a questo punto i cittadini, affermando di avere già inviato il cognato Creonte a consultare l'oracolo di Delfi. Immediatamente fa il suo ingresso in scena proprio Creonte: la peste – annuncia – lascerà la città solo se saranno puniti gli assassini di Laio, il precedente re di Tebe. La reazione di Edipo è istantanea: egli lancia contro questi ultimi una terribile maledizione, dà inizio ad una serrata indagine per scovare i colpevoli e, su consiglio di Creonte, fa chiamare l'indovino cieco Tiresia. Questi, tuttavia, si mostra reticente, non vorrebbe dire ciò che sa. Ma alla fine, messo alle strette, rivela che l'assassino di Laio è lo stesso Edipo.
Turbato, il re di Tebe respinge le accuse, convinto che il vero obiettivo dell'indovino, d'accordo con Creonte, sia quello di spodestarlo. Tra Edipo e il cognato scoppia quindi una lite, interrotta dall'ingresso in scena di Giocasta (moglie del sovrano e, al contempo, vedova di Laio), che cerca di placare l'ira del marito provando a convincerlo dell'inaffidabilità degli oracoli. Come prova, la regina adduce il ricordo di una vicenda personale: quando era sposata con Laio un oracolo aveva infatti predetto al marito che sarebbe stato ucciso dal figlio, mentre in città – afferma – tutti sostengono che Laio sia stato ucciso da alcuni banditi non lontano da Delfi, all'incrocio di tre strade. Il racconto di Giocasta, tuttavia, sgomenta Edipo: egli ricorda infatti che proprio nel luogo descritto dalla moglie ha in passato ucciso un uomo con la sua scorta in seguito ad un alterco. La descrizione dell'uomo fornita da Giocasta corrisponde poi a quella dell'uomo assassinato da Edipo.
Il re di Tebe ripercorre a questo punto il suo passato. Racconta così alla moglie di essere cresciuto a Corinto con i genitori Polibo e Merope, finché un giorno, poiché un ubriaco aveva insinuato che egli fosse «falso figlio» di suo padre, aveva deciso di recarsi a Delfi per conoscere la verità. Il responso dell'oracolo era stato terrificante: Edipo avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. Per scongiurare l'avverarsi della profezia aveva quindi ripreso la via non più di Corinto, ma di Tebe, dirigendosi verso la quale, all'incrocio di tre vie, aveva avuto lo scontro con il presunto Laio.
Angosciato, Edipo vuole conoscere a tutti i costi la verità, e non esita a far chiamare l'unico sopravvissuto della strage costata la vita a Laio, un servo che, dopo l'accaduto, aveva voluto abbandonare la città. In attesa dell'arrivo di quest'ultimo giunge però un messaggero da Corinto, il quale informa della morte di Polibo e chiede ad Edipo di raggiungere la sua vecchia città per cingerne la corona. Al rifiuto del re di Tebe – che teme si possa comunque avverare la seconda parte dell'oracolo, quella relativa all'incesto con la madre –, il nunzio replica che non c'è motivo di esitare: Polibo e Merope non sono infatti i veri genitori di Edipo, giacché egli stesso, il messaggero, aveva ricevuto Edipo fanciullo dalle mani di un pastore della casa di Laio e l'aveva poi consegnato ai sovrani di Corinto, i quali l'avevano adottato. Quanto all'identità di questo pastore, il corifeo insinua un dubbio: deve con ogni probabilità trattarsi dello stesso servo che Edipo ha mandato a chiamare.
Giocasta, che ormai ha intuito la verità, cerca di dissuadere il marito dal proseguire l'indagine, ma invano. Disperata, rientra nel palazzo, ma Edipo ancora non comprende appieno la situazione, convinto che la reazione della moglie sia provocata dalla vergogna per aver sposato un uomo di umili natali. A questo punto entra finalmente in scena il servo: riconosciuto dal messaggero, è costretto a rivelare di avere consegnato a quest'ultimo il figlio di Laio e Giocasta, non avendo avuto il coraggio di esporlo sul monte Citerone (come richiesto invece dai sovrani, timorosi che si avverasse l'oracolo secondo cui Laio sarebbe stato ucciso da suo figlio).
Oramai tutto è chiaro: Edipo ha ucciso il padre e sposato sua madre. Disperato, il re rientra nel palazzo e trova Giocasta impiccata; presa una fibbia dalla sua veste si acceca e torna in scena con il viso insanguinato. Non gli resta che congedarsi dalle figlie, condannate all'infelicità, e chiedere a Creonte di essere bandito da Tebe.
Nella sua affannosa indagine Edipo finisce dunque per realizzare che non è in grado di reggere il peso della verità. La sua identità, che si svela a poco a poco, è incompatibile con le leggi della morale: è doppia, enigmatica e confligge con il razionale principio di non contraddizione, che è alla base del quieto vivere civile. Edipo è lo straniero di Corinto, ma è in realtà nativo di Tebe; decifra enigmi, ma è egli stesso un enigma; è marito ma anche figlio, padre ma anche fratello. Chiaroveggente capace di sconfiggere la Sfinge, si ritrova infine cieco.
Edipo – come sottolinea Umberto Galimberti – abita di fatto una dimensione caratterizzata dalla confusione dei codici, dalla contaminazione dei contrari: le leggi razionali, suo strumento d'indagine, perdono in lui ogni efficacia nel momento in cui abbandona la condizione di membro integrato della comunità per varcare la soglia del sacro. Ha voluto guardare oltre i limiti della ragione, ha preteso di conoscere; ed ha oltrepassato l'invalicabile barriera che separa la realtà umana – regolata dal principio che stabilisce che una determinata cosa è se stessa e non altro – da quella divina, dove il principio di non contraddizione cade, con la conseguente polivalenza continua dei significati.
Una volta entrato nella dimensione sacrale, che l'uomo tiene rigorosamente separata da quella razionale, Edipo non può tornare indietro. Avendo visto il mondo dell'indifferenziato non gli resta che accecarsi, poiché non sarebbe più in grado di vivere tra le differenze della realtà umana. Anche Tiresia, del resto, è cieco: egli vede con gli occhi degli dei, ma per gli uomini è avvolto dalle tenebre. È passato, come Edipo, al di là della ragione; e, significativamente, deve essere appositamente chiamato su consiglio di Creonte proprio perché non vive in comunità, è separato, e c'è bisogno di lui solo quando la civiltà non è in grado di placare la propria sete di conoscenza. Tiresia conosce il destino cui Edipo va incontro: per questo, proprio perché l'impatto col divino rischia di essere devastante, si mostra reticente e vorrebbe tacere.
Considerato dal punto di vista degli abitanti di Tebe, Edipo è un chiaroveggente, finché non pretende di andare troppo oltre i limiti dell'umano; dal punto di vista degli dei, egli perde il suo valore. La sua nuova condizione è la cecità: nella dimensione sacrale Edipo (e con lui Giocasta) perde la regalità e diventa un essere insignificante, spregevole.
La ricerca tenace della verità, desiderata al di sopra di ogni altra cosa, accosta la condizione di Edipo a quella dell'intera umanità. Ogni uomo, al pari del re di Tebe, è quindi, per Sofocle, enigmatico e indecifrabile. Per vivere in comunità è però indispensabile che la follia sia governata dalla ragione, per essere relegata in uno spazio separato. Edipo è pertanto colpevole non delle sue azioni immorali (tutte inconsapevoli), bensì di averle svelate (in primis a se stesso), violando il patto che bandisce dalla società la commistione dei contrari. L'immoralità di Edipo è innocua finché non contamina la città di Tebe; la sua cecità rispetto al vero è irrilevante, mentre la sua cecità rispetto agli uomini è il prezzo da pagare per aver visto con gli occhi degli dei. Edipo non è, in definitiva, colpevole, la sua immoralità non è intenzionale; tuttavia, avendo preteso di conoscere ciò che sta oltre i limiti della ragione, ha scoperto di essere contaminato. Per questo, divenuto immondo, non gli resta che allontanarsi in esilio.

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