lunedì 29 settembre 2014

«Autostrada della Cisa»: l’enigma della morte e la presenza impalpabile (ma reale) del vuoto

(articolo apparso su Prima Pagina del 27 settembre 2014)

Autostrada della Cisa

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).

Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio dal ciglio di un dirupo,
spegne un giorno già spento, e addio.

Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.

Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochtitlàn.

Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.

Ancora non lo sai
– sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

Vittorio Sereni è un autore probabilmente non troppo conosciuto. A scuola, se va bene, i suoi componimenti (non più di due o tre, peraltro) sono letti dagli studenti dell’ultimo anno, per lo più a conclusione del secondo quadrimestre, giusto per ingrossare il programma d’esame. Non è, cioè, un cosiddetto grande classico della letteratura, uno di quelli – per intendersi – da sapere a tutti i costi per evitare brutte sorprese in sede d’interrogazione.
Vittorio Sereni, però, è un poeta estremamente affascinante: colto, non troppo accessibile, a tratti persino misterioso. I suoi versi sembrano condurre in un mondo a metà fra il sonno e la veglia, popolato da figure spettrali a tratti suadenti, a tratti inquietanti. Sereni non è – non c’è dubbio – un autore “facile”, ma è certamente uno scrittore che vale la pena leggere. Il componimento che qui si presenta – Autostrada della Cisa, tratto da Stella variabile, l’ultima sua raccolta – confermerà con ogni probabilità questa impressione: si tratta cioè di un testo complesso, infarcito di reminiscenze letterarie, che tuttavia merita grande considerazione, se non altro per l’originalità delle tematiche affrontate (basti pensare al concetto della presenza ingombrante del vuoto, dell’assenza, di coloro, cioè, che non ci sono più ma è come se non se ne fossero mai andati).
Leggiamo dunque la poesia di Sereni, procedendo lentamente commentando strofa per strofa:
Tempo dieci anni, nemmeno / prima che rimuoia in me mio padre / (con malagrazia fu calato giù / e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Come si vede, il linguaggio è colloquiale e prosastico, a dispetto della gravità dell’argomento. Sereni fa subito una previsione: entro dieci anni, la morte porrà fine ai suoi giorni. Il trapasso è accostato alla figura del padre, evidentemente una persona fondamentale per il poeta, come si evince dal fatto che per quest’ultimo il decesso sarà equiparabile a una seconda morte dell’amato genitore. Tra parentesi, Sereni descrive cos’ha significato, per lui, dire addio al padre. Semplicemente, questi fu calato giù (ovvero nella tomba), in un luogo inaccessibile e reso impenetrabile da una fitta nebbia, simbolo della barriera invalicabile che separa i vivi dai defunti. La morte, in altre parole, è per Sereni la fine di tutto (un banco di nebbia ci divise per sempre): non c’è speranza che esista un aldilà nel quale ricongiungersi con i propri cari.
Oggi a un chilometro dal passo / una capelluta scarmigliata erinni / agita un cencio dal ciglio di un dirupo, / spegne un giorno già spento, e addio.
Il passo è quello della Cisa, richiamato dal titolo, che il poeta sta percorrendo in automobile. È un tratto appenninico che collega Parma a La Spezia, e dunque, idealmente, un valico che mette in contatto due versanti di un rilievo montuoso, l’uno rappresentante la vita, l’altro la morte. Sereni vede una donna che agita un cencio dal ciglio di un dirupo: si tratta probabilmente di una contadina che cerca di attirare su di sé l’attenzione dei passanti per vendere qualche prodotto della terra; ma il poeta non può fare a meno di trasfigurarla, e scorge in lei l’immagine mitica dell’erinni, ovvero di quella divinità della mitologia greca – con lunghi capelli arruffati (scarmigliata), come vuole l’iconografia classica – che abita gli inferi e perseguita, per vendetta, i mortali che si siano macchiati di una grave colpa). L’apparizione di un essere mostruoso si collega al presagio di morte della prima strofa: l’erinni, cioè, annuncia al poeta che la sua fine è vicina. Ma il suo messaggio non è per nulla inatteso: esso non fa altro che spegnere un giorno già spento, privo, cioè, di vitalità.
Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno – / sappilo che non finisce qui, / di momento in momento credici a quell’altra vita, / di costa in costa aspettala e verrà / come di là dal valico un ritorno d’estate.
 La voce che si rivolge al poeta sembra più che altro interiore: non proviene, cioè, da un amico o da un conoscente. Egli ascolta il richiamo della speranza, che tenta disperatamente di farsi sentire prospettando l’esistenza di una seconda, autentica vita dopo la morte. Speranza che – scrive Sereni – un uomo segue di costa in costa (idealmente percorrendo i tornanti di un’autostrada), aspettandosi improvvisamente che una luce intensa rischiari l’orizzonte, come un inaspettato ritorno d’estate oltre il monte.
Parla così la recidiva speranza, morde / in un’anguria la polpa dell’estate, / vede laggiù quegli alberi perpetuare / ognuno in sé la sua ninfa / e dietro la raggera degli echi e dei miraggi / nella piana assetata il palpito di un lago / fare di Mantova una Tenochtitlàn.
La speranza è però definita recidiva, con un termine abitualmente utilizzato per indicare il reiterarsi di un reato: essa cioè accompagna il poeta come un vizio, non gli dà tregua. Sereni la rappresenta, personificandola, mentre addenta la polpa di un’anguria (forse acquistata dall’erinni-contadina), un tipico frutto estivo che diviene simbolo della vitalità e della pienezza. Tutt’intorno, la natura si anima a formare un paesaggio affollato di creature mitiche (come le ninfe degli alberi), mentre la pianura Padana (piana assetata) si trasforma idealmente in un immenso lago, tanto che Mantova (che per metonimia indica l’intera regione) si trasfigura in un’immaginaria Tenochtitlàn (nome precolombiano di Città del Messico) incantata.
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità / tendo una mano. Mi ritorna vuota. / Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Attraversando i vari tunnel dell’autostrada (e quindi passando continuamente dalla luce abbagliante del giorno all’oscurità della galleria), Sereni ha l’impressione di rivivere la scena mitica di Enea quando, sceso agli inferi, tenta invano di abbracciare l’ombra del padre Anchise. Il poeta sente di avere bisogno di un contatto con chi non c’è più, ma ogni suo tentativo di restare aggrappato agli affetti perduti risulta vano (tende una mano e questa gli ritorna vuota; allunga un braccio, ma stringe una spalla d’aria).
Ancora non lo sai / – sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?
Il componimento si chiude con un’ultima immagine tratta dalla mitologia classica: attraversando le volte dei tunnel, Sereni ha l’impressione di entrare nella grotta della Sibilla per un vaticinio. Questa però (che sempre più ha voglia di morire, poiché, secondo il mito, aveva ricevuto in dono da Apollo una lunga vita ma era stata privata della giovinezza) dà un responso crudele: il vuoto, ossia il nulla che il poeta stringe nel tentativo di riabbracciare i suoi cari defunti, è la cosa più autentica che un uomo avventuratosi alla ricerca di un senso della vita e della morte possa trovare. Il che, in altre parole, significa che ciò che manca è spesso più presente di tutto quello che tocchiamo con mano.
L’assenza riveste un ruolo decisivo nella poesia di Sereni. Di fronte ad un’esistenza insoddisfacente, persino patetica se confrontata con le aspirazioni umane, il vuoto – ovvero ciò che sfugge alla realtà, ciò che va al di là delle nostre capacità di comprensione – diviene la sola cosa in grado di tenerci in vita. Il vuoto, afferma Sereni, ha un colore indelebile poiché è una sensazione cui nessuno può sfuggire: esso è ciò che va riempito, nel tentativo di trovare un senso che giustifichi una realtà così deludente. È come il carburante che alimenta il motore della speranza, di una speranza recidiva, ingannevole, ma pur sempre indispensabile per andare avanti nella vita, per tenere duro a dispetto di tutto. Forse, a ben vedere, il vuoto è ciò che ci dice chi siamo e indirizza la nostra esistenza verso una meta. Per conoscersi, occorre cercare dentro di sé. Anche se – inutile illudersi – l’assente è (per definizione) irraggiungibile e la ricerca – affannosa, disperata, ma imprescindibile – è tutto ciò che ci resta.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

martedì 23 settembre 2014

«All’apparir del vero tu, misera, cadesti»: «A Silvia» e la morte, inevitabile, della «lacrimata speme»

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 settembre 2014)

Per il testo del canto consultare:
http://www.poesieitaliane.it/poesie_italiane_p_01.php?idt01=1

Composto nell’aprile del 1828, A Silvia è probabilmente il canto più celebre di Giacomo Leopardi dopo L’infinito, e rappresenta senza dubbio uno dei momenti più alti della poesia dello scrittore di Recanati. Il componimento fa riferimento ad una ragazza morta nella prima giovinezza, individuabile, secondo diversi indizi sparsi nella produzione leopardiana, in Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi morta di tisi nel 1818, appena ventunenne.
Il testo, che consta di 63 versi suddivisi in sei strofe, è piuttosto conosciuto e, per questioni di spazio, non può essere riportato per intero in questa sede. Per una sua corretta comprensione si proporrà qui di seguito una parafrasi, anche se si consiglia caldamente una preliminare lettura della lirica, facilmente rintracciabile in qualsiasi storia della letteratura. A livello metodologico, è bene precisare che si è deciso di inserire tra parentesi tonde il numero della strofa e tra parentesi quadre alcuni chiarimenti lessicali.
(1) Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita [vita mortale, dice Leopardi, rafforzando con l’aggettivo pleonastico il senso di fugacità dell’esistenza], quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi gioiosi e sfuggenti e tu, serena e piena di pensieri, varcavi la soglia della giovinezza? (2) Il tuo canto assiduo, mentre sedevi intenta alla tessitura [opre femminili], paga del futuro incerto che ti figuravi nella mente [l’avvenire, cioè, è un’immagine piacevole proprio perché confuso e indeterminato], faceva risuonare le stanze silenziose e le vie tutt’intorno. Era il maggio odoroso [per via degli alberi in fiore]: e tu eri solita trascorrere le giornate in questo modo. (3) Io, tralasciando per breve tempo gli studi poetici e filologici [studi leggiadri e sudate carte corrisponderebbero, secondo alcuni interpreti, a questi due ambiti], in compagnia dei quali ho consumato i miei anni giovanili e le mie migliori energie, dall’alto dei balconi della mia casa paterna tendevo l’orecchio per ascoltare il suono della tua voce (4) e il rumore che faceva la tua mano mentre lavoravi con fatica sulla tela. Ammiravo il cielo sereno, le vie soleggiate e gli orti, e da una parte il mare da lontano, dall’altra il monte. Non ci sono parole per spiegare cosa provavo. (5) Che pensieri dolci, che speranze, che emozioni, o Silvia mia! Come ci apparivano lieti, allora, la vita umana e il destino! Quando mi torna in mente tutta questa speranza, un moto dell’animo che unisce amara delusione e sconsolato rimpianto mi opprime, e torno a dolermi della mia infelicità. O natura, o natura, perché non mantieni, nella maturità, quanto prometti durante la giovinezza? Perché inganni a tal punto le tue creature? (6) Tu, cara, prima che l’inverno facesse seccare l’erba, colpita e infine stroncata da un male oscuro [e quindi incurabile], morivi. E non vedevi il compimento della tua giovinezza [il fior degli anni tuoi]; non ti lusingava il cuore ricevere i graditi complimenti rivolti ora ai tuoi capelli castani, ora ai tuoi timidi occhi che innamorano [nello Zibaldone Leopardi annota che innamorato può voler dire proprio «che innamora»]; e nemmeno le tue amiche parlavano con te d’amore durante i giorni di festa. (6) Anche la mia dolce speranza sarebbe venuta meno di lì a poco: anche alla mia vita [agli anni miei] il destino avverso [i fati] negò la giovinezza. Ahi, come sei svanita cara compagna dei miei anni giovanili, mia compianta speranza! È questo il mondo sognato e vagheggiato [sottinteso: in gioventù]? sono queste le gioie, i sentimenti, le attività operose, gli avvenimenti di cui tanto a lungo parlammo insieme? È questo il destino dell’umanità? Con il rivelarsi della reale natura delle cose, tu [cioè la lacrimata speme del verso 55], misera, peristi: e con la mano [qui la speranza è personificata] indicavi in lontananza la fredda morte ed una tomba desolata.
A proposito di A Silvia, l’opinione più diffusa, espressa più che altro da parte di chi conosce il componimento solo superficialmente, è che si tratti di una sorta di lamento per l’impossibilità, da parte del poeta, di conquistare il cuore della donna amata. Ebbene: come è auspicabile risulti evidente da quanto scritto finora, Leopardi parla di tutto meno che dell’infatuazione per una ragazza. La lirica, infatti, è tutta incentrata su un parallelismo tra la giovinezza spensierata di Silvia e la speranza del poeta: così come la prima svanisce al sopraggiungere della malattia, la seconda si dissolve «all’apparir del vero».
Vale la pena leggere un appunto dello Zibaldone, scritto poche settimane dopo la stesura della lirica: «Una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci e salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta, quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria di innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure e dei patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità».
È questa impressione, in definitiva, che spinge Leopardi a soffermarsi sul tormento che deriva dalla constatazione che il senso di divinità connesso con la giovinezza di Silvia è destinato, inesorabilmente, a perire. Il che impone di fare chiarezza su un aspetto: quando si afferma – come spesso si sente dire – che Leopardi è il poeta del nulla, della negazione, del pessimismo rinunciatario, non si tiene conto del fatto che, in realtà, lo scrittore di Recanati è animato da un fortissimo bisogno di pienezza vitale, dalla necessità assoluta di assaporare un’esistenza autentica, energica e appagante. Il pessimismo, in altre parole, non è una premessa, ma una conseguenza della sua riflessione, nel senso che all’origine dello sconforto è la frustrazione per l’impossibilità di raggiungere la felicità. Il nulla è pertanto una drammatica conquista della ragione (che va alla ricerca del vero, scoprendo l’inesorabile pochezza della realtà), non un irrazionale punto di partenza.
Questo spiega, inoltre, perché il pessimismo di Leopardi si manifesti come ribellione alla natura-matrigna e non come lamentoso abbandono. Cos’altro sono, infatti, le ripetute domande dell’ultima strofa, se non un feroce e straziante grido di dolore emesso da un uomo che si sente sconfitto ma non vuole rassegnarsi a smettere di combattere? La poesia di Leopardi, in questo senso, è virile. Giacché se anche la speranza, al pari di Silvia, è destinata a morire, scontrandosi con l’arido vero, ciò non toglie che l’uomo – pur dovendo fare i conti giorno dopo giorno con «la fredda morte» che incombe – debba restare in piedi e tenere duro. Altro che poeta della rassegnazione: Leopardi, a ben vedere, è il poeta della tenacia, della pervicacia e del coraggio!
Il fatto di ostinarsi a vivere una vita tutta interiore, separata dal resto del mondo e dagli uomini non è, infatti, per forza di cose una debolezza. Leopardi sa, del resto, di non avere alternative: la sua mente brillante lo spinge necessariamente a cercare il vero, a smascherare gli inganni. «È come un vizio sottile, e più penso più mi ritrovo questo vuoto immenso», direbbe Francesco Guccini – attento studioso dell’opera leopardiana –, che così si esprime nel finale della sua Canzone per Piero. Il poeta, in altre parole, è un acuto osservatore, ma come tutti gli osservatori se ne sta in disparte, chiuso nella propria stanza. Egli osserva la realtà attraverso la sua finestra (simbolo del confine che mette in contatto mondo interiore ed esteriore), e non può fare a meno di ricorrere al doppio filtro dell’immaginazione e della memoria (con la prima che spesso si alimenta della seconda). In un certo senso, è proprio la realtà virtuale la componente essenziale della poesia, secondo quella che, citando L’infinito, potrebbe definirsi la logica della siepe: una realtà sublimata, destinata a cadere miseramente sotto i colpi dell’indagine razionale, che abbatte tutto ciò che è fantasia per far emergere l’arido vero.  

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

giovedì 18 settembre 2014

«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»: l’uomo e il tremendo assillo della fine

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 settembre 2014)

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Rileggendo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese le prime immagini che mi sono venute in mente sono quelle della scena conclusiva della serie tv americana Six feet under, creata dal pluripremiato regista Alan Ball (l’autore della bellissima sceneggiatura di American Beauty). Six feet under è la storia di una famiglia di impresari funebri (i Fisher) e tratta, in sostanza, del difficile rapporto che essi sono costretti ad instaurare quotidianamente con la morte. Morte che, in definitiva, è la vera protagonista dell’intera serie, il cui titolo allude per l’appunto alla profondità (sei piedi, ovvero circa un metro e ottanta) a cui si interrano le bare negli Stati Uniti.
Tornando alla poesia di Pavese, dicevo che essa mi ha ricordato la scena finale di quello che, a mio avviso, è un autentico capolavoro della televisione. Six feet under si conclude con la partenza della figlia minore dei coniugi Fisher, Claire, che sale in macchina e si avvia verso un futuro tutto da scoprire, lasciandosi alle spalle i parenti più stretti e una vita, costantemente a contatto con la sofferenza altrui, che non fa per lei. Sulle note della bellissima Breathe me di Sia, Claire si allontana da Los Angeles percorrendo una di quelle tipiche, infinite strade americane: così lunga che sembra condurre in un altro mondo, in un’altra dimensione. Mentre la macchina divora l’asfalto rovente, scorrono le immagini di ripetuti flash forward che colgono l’attimo esatto della dipartita dei membri della famiglia Fisher. Ogni morte è alternata con un primo piano di Claire, fino al decesso di quest’ultima, ultracentenaria, in completa solitudine su un letto d’ospedale. Infine, l’ultima immagine è un primissimo piano della stessa Claire nel tempo presente, gli occhi fissi sulla telecamera con l’inquadratura che, progressivamente, si stringe.
Tra tutti gli spunti possibili, c’è un elemento decisivo nella ricostruzione di Alan Ball, ed è che la morte – vale per tutti i membri della famiglia Fisher e per i loro congiunti – si accompagna ad uno sguardo. In Six feet under, infatti, si muore dopo aver visto, per un istante, il volto di una persona cara, il più delle volte della persona alla quale si è dedicata un’intera vita. Il marito, la moglie, il padre, la madre o il figlio di chi è giunto al termine dell’esperienza terrena diventano così messaggeri di morte nel momento del trapasso: sono angeli che prendono per mano il defunto e lo accompagnano nell’aldilà. Ecco allora – il lettore perdonerà questa lunga digressione incentrata su un’impressione personale – che ha senso accostare Verrà la morte e avrà i tuoi occhi a Six feet under: per entrambi, la morte è la fine di tutto condensata in un flash, cristallizzata in un’immagine.
Ma passiamo, ora, alla poesia di Pavese. L’autore de La luna e i falò la scrisse nel 1950, poche settimane prima di togliersi la vita. Si tratta del componimento – pubblicato postumo – che dà il titolo all’ultima sua raccolta poetica, ed è dedicato a Costance Dowling, l’attrice americana con la quale lo scrittore piemontese ebbe una travagliata relazione amorosa. Il lessico, la sintassi e la forma sono estremamente lineari, e non necessitano di parafrasi. Pavese, del resto, non amava gli artifici retorici, come scrisse chiaramente in un passo de Il mestiere di vivere («La poesia deve dire qualcosa e quindi è inutile che violi la logica e la sintassi, modi universali del dire»).
Per una corretta comprensione del testo, può essere utile soffermarsi brevemente su singole unità tematiche, scorrendo lentamente i diciannove versi del componimento. Isoleremo, pertanto, i singoli passi, facendo seguire ad ogni citazione un rapido commento.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo.
La morte, dunque, giunge per il poeta con le sembianze della donna amata: non sembra una minaccia, più che altro è qualcosa di ineluttabile, di familiare. La morte, infatti, è presente nella vita di tutti i giorni, in ogni istante, in ogni emozione o sentimento, persino nel sonno. È come un vizio assurdo – dice Pavese –, poiché, di per sé, è illogico che l’uomo cerchi il senso della vita con l’assillo del suo contrario, ossia la fine dell’esistenza. La morte è sorda: non ci sente, non ascolta le nostre disperate richieste di chiarimento: di fronte ad essa siamo tutti impotenti. La morte è presente ovunque, ma non ha né luogo né tempo: è come un vecchio rimorso che affiora quando meno te lo aspetti. È una presenza incombente che non dà tregua, che toglie il respiro.
I tuoi occhi / saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio. / Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio.
Gli occhi della donna amata – che annunciano la morte, un po’ come quelli di Claire in Six feet under – saranno portatori di un messaggio scontato e per lungo tempo atteso (vano, dice Pavese). Lo sguardo di Costance, catturato nell’istante del trapasso, esprimerà l’inutile desiderio di gridare. Ma non si udirà alcun suono: la morte strappa un’anima alla vita nel più totale silenzio, dal momento che nel nulla non v’è rumore.
Gli occhi, messaggeri di morte, della donna sono gli stessi ch’ella vede ogni mattina riflessi nello specchio: non sono, cioè, occhi reali, ma inconsistenti. Sono niente più di un’immagine, uno spettro – novello Caronte – che prenderà il poeta per mano nel momento della sua dipartita. Pavese rovescia cioè, attraverso l’immagine dello specchio, la tradizione letteraria secondo la quale gli occhi sono il simbolo della vita e dell’espressività: nel suo caso, gli occhi, riflessi, di Costance sono il segnale supremo che indica la fine di tutto.
O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla.
Nell’istante della morte, realizzeremo che la speranza – ciò che ha reso possibile la nostra vita, giacché non sarebbe tollerabile un’esistenza senza promesse di un futuro nel quale collocare quella felicità che non riusciamo a toccare con mano nel presente – non è stata altro che un’illusione.
Per tutti la morte ha uno sguardo. / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. / Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio / riemergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti.
Sono qui riprese le tematiche introdotte nella prima strofa. Per chiunque, dice Pavese, la morte ha uno sguardo, verrà cioè sotto forma di immagine, che ci abbaglierà come un improvviso flash. Di nuovo, la morte è associata all’idea del vizio: in vita, non si può non pensare all’aldilà, a cosa ci sarà dopo, se qualcosa ci sarà, così come un fumatore incallito non può smettere di fumare, o un alcolizzato di bere. Solo con la morte si riuscirà a vincere il vizio della riflessione, semplicemente perché, dopo la vita, non ci sarà più nulla su cui riflettere. Morire, perciò, sarà come vedere riflesso nello specchio un volto che si credeva perduto per sempre: il volto della spensieratezza, ma anche – volendo – il volto del messaggero che si manifesta per annunciare l’avvenuto trapasso. Dinanzi ad esso, non ci sarà più bisogno di parole: l’immagine della morte ci parlerà senza aprire bocca e ci trascinerà nel gorgo dove tutto finisce, dove la vita si spegne, nel più assoluto silenzio.
Per Pavese, dunque, la morte è un semplice passaggio, che si compie con naturalezza. Tutto nasce, si consuma e finisce: e se la vita non è altro che un progressivo, drammatico avvicinarsi della fine, la prospettiva di varcare le colonne d’Ercole dell’aldilà facendosi accompagnare da un volto familiare somiglia più a una liberazione che a una sconfitta. Tutti ce ne andremo con un’immagine, che sarà l’ultima cosa che vedremo. Quell’immagine racchiuderà l’intera esperienza terrena, sarà ciò che ci dirà perché abbiamo vissuto e cosa è stata, in sostanza, la nostra vita. Non importa sapere cosa c’è dopo, nel senso che è inutile insistere con il vizio dell’indagine razionale applicata a ciò che non sarà mai spiegabile. La morte sarà il compimento di tutto: finalmente, giunti a quel punto, sapremo se c’è un dopo, o se tutto svanirà nel nulla. Ad ogni modo, comunque andrà, vedere gli occhi della morte nelle sembianze della donna amata (o di una persona cara) sarà una liberazione dai tormenti dell’esistenza. Everyone’s waiting, è il messaggio di Alan Ball, che così intitola l’ultimo episodio di Six feet under: ognuno vive nell’attesa (dell’inevitabile).    

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

giovedì 11 settembre 2014

«A Cesena»: il vano tentativo di ignorare il grigiore della quotidianità

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 settembre 2014)

Marino Moretti è un autore forse non troppo noto, per lo più letto da qualche appassionato di letteratura o da studenti di liceo e università. Della sua vita non c’è molto da dire: nacque e morì a Cesenatico (1885-1979), visse per qualche tempo a Firenze e scrisse numerose raccolte poetiche e romanzi, in gran parte sconosciuti. In pratica, a salvarsi dall’oblio che abbraccia l’intera sua produzione è un unico, celebre componimento, presente pressoché in tutte le storie della letteratura: A Cesena. Si tratta, effettivamente, di un testo tra i più belli della corrente crepuscolare: in tutto, diciassette terzine in rima e un endecasillabo conclusivo caratterizzati da un andamento prosastico perfettamente in sintonia con il grigiore della mediocre quotidianità che fa da sfondo all’intera vicenda. Di fatto, il contenuto si riassume in poche parole: il poeta, recatosi a Cesena per far visita alla sorella da poco sposa, intuisce immediatamente che il matrimonio non l’ha resa felice. Subentrano così i ricordi dell’infanzia, in un clima di angoscia e malinconia.
Leggiamo dunque i versi di Moretti, i quali, molto semplici, non necessitano di parafrasi (ci si limiterà, pertanto, ad inserire tra parentesi quadre alcune brevi note chiarificatrici):
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena. // Batte la pioggia il grigio borgo, lava / la faccia [la facciata] della casa senza posa [senza sosta], / schiuma a piè delle gronde come bava. // Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse / triste è per te la pioggia cittadina, / il nuovo amore che non ti soccorse [che non ti ha portato la felicità sperata], // il sogno che non ti avvizzì [che non ti ha invecchiato, che non si mantiene vivo, cioè, nella nuova condizione di sposa], sorella / che guardi me con occhio che s’ostina / a dirmi bella la tua vita, bella, // bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora / o sposa, io vedo tuo marito, sento, / oggi, a chi dici mamma, a una signora [la suocera]; // so che quell’uomo è il suocero dabbene [aggettivo che sottolinea la moralità, formale più che sostanziale e tipicamente piccolo borghese, del nuovo ambiente familiare della sorella] / che dopo il lauto pasto è sonnolento, / il babbo che ti vuole un po’ di bene. // «Mamma!» tu chiami, e le sorridi e vuoi / ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida, / che le parli dei miei viaggi, poi... // poi quando siamo soli (oh come piove!) / mi dici rauca [a voce bassa] di non so che sfida / corsa tra voi; e dici, dici dove, // quando, come, perché; ripeti ancora / quando, come, perché; chiedi consiglio / con un sorriso non più tuo, di nuora. // Parli d’una cognata quasi avara / che viene spesso per casa col figlio / e non sai se temerla o averla cara; // parli del nonno ch’è quasi al tramonto / il nonno ricco del tuo Dino, e dici: / «Vedrai, vedrai se lo terrò di conto»; // parli della città, delle signore / che già conosci, di giorni felici, / di libertà, d’amor proprio, d’amore. // Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / sono a Cesena e mia sorella è qui, / tutta d’un uomo ch’io conosco appena, // tra nuova gente, nuove cure [impegni, problemi], nuove / tristezze, e a me parla... così, / senza dolcezza, mentre piove o spiove: // «La mamma nostra t’avrà detto che... / E poi si vede, ora si vede, e come! / sì, sono incinta... Troppo presto, ahimè! // Sai che non voglio balia? che ho speranza / d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome... / Ho fortuna, è una buona gravidanza...» // Ancora parli, ancora parli, e guardi / le cose intorno. Piove. S’avvicina / l’ombra grigiastra [la sera]. Suona l’ora. È tardi. // E l’anno scorso eri così bambina!
«Piove. È mercoledì. Sono a Cesena»: inizia così, con tre scarne annotazioni, il componimento di Moretti. L’essenzialità della vita, per certi versi così piatta e banale, quasi insignificante rispetto alle aspettative, trova riscontro nel primo verso di un testo che sembra tutto fuorché poetico. Venuta meno l’apparenza, infatti, l’esistenza è ben poca cosa, è un sopravvivere tra stenti, un continuo tener duro di fronte ad avversità che si rivelano ogni giorno più minacciose.
C’è chi però non riesce a fingere e rifiuta la maschera delle convenzioni sociali. Perché far credere di essere felici, quando invece si ha l’animo turbato? Il poeta, la cui tristezza è inizialmente l’unico sentimento sincero, non accetta il costume borghese secondo cui tutto deve essere sempre, costantemente in ordine. Egli percepisce il disagio della sorella e si stupisce che ella tenti di nascondere ciò che prova, che si ostini a ridere, quando è evidente che il suo è un sorriso di facciata, che non può ingannare l’occhio esperto e sensibile di un fratello.
 Di fronte allo sguardo impietoso del poeta, l’artefatto idillio di una vita familiare ostentatamente serena e appagante si dissolve. Il nuovo ambiente domestico della sorella, infatti, è soffocante: sembra quasi una prigione che opprime e impedisce la libera espressione di sé. Tutto è fastidiosamente finto, come la nuova mamma (la suocera), che si fa chiamare proprio così, «mamma», ma che non ha nulla a che vedere con la «mamma nostra», quella autentica, imprescindibile punto di riferimento dell’infanzia. O come il suocero, uomo «dabbene» (termine, come anticipato, usato in senso ironico) che «vuole un po’ di bene» alla nuora, ma senza esagerare, verrebbe da aggiungere. Per certi versi, sembra che il passato si contrapponga al presente come periodo delle certezze, in contrasto con l’indeterminatezza dell’avvenire. Gli affetti dell’infanzia, la famiglia, la casa natale: sono questi i veri punti di riferimento del poeta, laddove invece ogni cambiamento è guardato con sospetto, come se celasse inevitabilmente una minaccia.
Il ricordo, di conseguenza, risulta essere l’unico porto sicuro cui approdare per difendersi dall’angoscia. Scrive infatti Moretti in una pagina autobiografica: «Il passato è la mia sola ricchezza e, dirò, il mio avvenire alla rovescia […]. Tutta la fede, tutte le speranze che si sogliono porre nell’avvenire, io le porrò nel passato, e se una frase fatta come “ipotecare l’avvenire” avrà un senso per me, vorrà dire che ipotecherò proprio il mio passato fino ad annetterlo tutto, fino a divorarlo, come le ipoteche divorano la proprietà degli immobili. Che m’importa di quel che mi riserba la vita? M’importa di quel che ho già visto e che voglio rivedere e rivivere, non più alla maniera degli altri, non più in servizio della fatalità, ma sì, finalmente, a mio modo […]. Solo così potrò dare un senso alla vita, alle cose che quasi non l’ebbero».
Moretti quindi non ha nessuna voglia di scoprire come evolverà la sua vita e, nel caso specifico della sorella, di fare i conti con un rapporto che, rispetto all’infanzia, si è necessariamente complicato. I cambiamenti sono per lui drammaticamente sconvolgenti, e risultano gestibili solo nel momento in cui la sorella getta la maschera e riconosce, in confidenza, il proprio disagio. Il matrimonio, infatti, l’ha catapultata in un ambiente estraneo e a tratti ostile; e, soprattutto, la prospettiva della maternità, lungi dal configurarsi come motivo di speranza, risulta essere in realtà una sorta di prigione destinata a cristallizzare l’esistenza in un eterno arido presente.
La terzina conclusiva non concede però spazio alla speranza. Il tempo corre senza tregua: è una prova tangibile della fugacità della vita, dell’impossibilità di fermarsi anche solo brevemente ad assaporare i pochi momenti felici, che scivolano, inesorabilmente, nell’impalpabile interiorità del ricordo. «Ancora parli, ancora parli, e guardi le cose intorno», scrive Moretti, alludendo al vano tentativo da parte della sorella di afferrare un presente che sfugge, di trovare un appiglio. Ma non c’è nulla che si possa fare: «Piove. S’avvicina l’ora grigiastra. Suona l’ora. È tardi». Sembra il rapido resoconto degli ultimi istanti di vita di un condannato a morte. La pioggia, corrispettivo simbolico dello stato d’animo del poeta, lava via ogni illusione, scandisce implacabile il grigiore di un’esistenza simile ad una promessa non mantenuta. Il presente scorre via trascinato da un futuro che incute timore, minaccioso e inquietante. E pensare – conclude il poeta, rivolgendosi alla sorella con l’amara nostalgia di chi percepisce la felicità confinata nel ricordo – che «l’anno scorso eri così bambina!».

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

«Il sabato del villaggio»: la «festa» come trionfo di «tristezza e noia»

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 agosto 2014)

Scrive Giacomo Leopardi nello Zibaldone: «Prima di provare la felicità, o vogliamo dire un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovinezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell'uomo è stabilita».
Il tema affrontato in queste righe è quello che sta alla base di uno dei canti più celebri del poeta di Recanati: Il sabato del villaggio. Composto nel 1829, esso approfondisce il concetto secondo il quale la felicità è una condizione dell'animo irrimediabilmente legata al futuro. È l'attesa di un piacere che si presume concreto, in altre parole, a darci l'impressione che la felicità sia possibile, dal momento che nel presente prevalgono sempre frustrazione e sofferenza.
Procediamo dunque con la lettura del canto, non prima però di aver fatto una piccola premessa metodologica. Il testo non è particolarmente complesso, e non necessita di parafrasi. Nondimeno, per facilitarne la comprensione, si è preferito inserire tra parentesi quadre alcune brevi precisazioni:
La donzelletta vien dalla campagna, / in sul calar del sole, / col suo fascio dell'erba; e reca in mano / un mazzolin di rose e di viole, / onde [con cui], siccome suole [come è solita], / ornare ella si appresta / dimani, al dì di festa, il petto e il crine [il seno e i capelli]. / Siede con le vicine / su la scala a filar la vecchierella, / incontro là dove si perde il giorno [rivolta, cioè, al tramonto]; / e novellando vien del suo buon tempo [racconta della sua giovinezza], / quando ai dì della festa ella si ornava, / ed ancor sana e snella / solea danzar la sera intra di quei [tra coloro] / ch'ebbe compagni dell'età più bella. / Già tutta l'aria imbruna [si oscura], / torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre / giù da' colli e da' tetti, / al biancheggiar della recente luna [il cielo sereno, arrossato dai colori del tramonto, torna azzurro, e la luce della luna appena sorta disegna nuovamente profili e ombre che si allungano dalle colline e dai tetti delle case]. / Or la squilla [la campana della chiesa] dà segno / della festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta. / I fanciulli gridando / su la piazzola in frotta, / e qua e là saltando, / fanno un lieto romore: / e intanto riede [torna] alla sua parca mensa, / fischiando, il zappatore, / e seco [tra sé e sé] pensa al dì del suo riposo. // Poi quando intorno è spenta ogni altra face [luce], / e tutto l'altro tace, / odi il martel picchiare, odi la sega / del legnaiuol [il falegname], che veglia / nella chiusa bottega alla lucerna, / e s'affretta, e s'adopra / di fornir l'opra [di terminare il lavoro] anzi il chiarir dell'alba. // Questo di sette è il più gradito giorno, / pien di speme [speranza]  e di gioia: / diman tristezza e noia / recheran l'ore, ed al travaglio usato [al lavoro quotidiano] / ciascuno in suo pensier farà ritorno. // Garzoncello scherzoso [fanciullo spensierato], / cotesta età fiorita [l'età in cui si è in fiore, cioè la giovinezza] / è come un giorno d'allegrezza pieno, / giorno chiaro, sereno, / che precorre [precede] alla festa di tua vita [festa sta qui per pienezza, e allude pertanto alla maturità]. / Godi [sii felice], fanciullo mio; stato soave, / stagion lieta è cotesta. / Altro dirti non vo'; ma la tua festa / ch'anco tardi a venir non ti sia grave [non ti affligga il pensiero che la tua maturità tardi ancora a giungere].
Per la comprensione del canto può essere utile citare un altro passo dello Zibaldone: «Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell'ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch'è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L'atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».
Il sabato del villaggio è pertanto un perfetto esempio del pessimismo leopardiano. A parere del poeta di Recanati, la felicità non è altro che un'illusione che si basa sull'ignoranza. Il sabato – ossia la giovinezza, la fase della vita che precede la piena maturazione (la festa) – è il più bel giorno della settimana proprio perché nasconde la falsa promessa del piacere previsto per l'indomani. Tutte le figure serene che animano la prima parte del canto sono infatti caratterizzate dal fatto di non sapere, di essere all'oscuro della delusione che si cela dietro l'immagine suadente della domenica. L'invito a godere del presente rivolto da Leopardi al garzoncello scherzoso non ha nulla di vitalistico: si tratta della cruda constatazione che il piacere non è altro che assenza di dolore, unita però all'amara consapevolezza che alla giovinezza – essendo essa impossibilitata a conoscere il vero per mancanza di esperienza – è preclusa ogni possibilità di provare questo genere di sollievo.
In sostanza, Leopardi afferma che l'età della maturazione coincide inevitabilmente con quella del disincanto. Affannarsi alla ricerca del vero, volere portare alle estreme conseguenze l'indagine razionale è quindi drammaticamente controproducente, dal momento che la conoscenza non fa altro che disvelare il male che contraddistingue l'esistenza. L'uomo tuttavia non può fare a meno di interrogarsi sul senso dell'esistenza. La ricerca costante di un perché non è una scelta, è come un vizio che è impossibile contrastare con successo. Solo la giovinezza, infatti, ha il pregio della spensieratezza: in un certo senso, si potrebbe dire che si nasce di sabato (con mille aspettative per il futuro) e si muore di domenica, sopraffatti dall'arida realtà. Non per niente, del resto, Leopardi definisce scherzoso il fanciullo al quale si rivolge nella parte finale del canto: chi vive di sabato ride della vita, non la prende sul serio nel senso che non si domanda il perché dell'esistenza. Quando si è giovani, l'essere al mondo è dato per scontato.
Questa considerazione è fondamentale per fugare una mala interpretazione piuttosto ricorrente de Il sabato del villaggio, ovvero che esso sia un inno alla vita, un incitamento a godersi il presente senza preoccuparsi del domani. Leopardi non intende niente di tutto ciò, essenzialmente perché non esiste, a suo parere, alcun tipo di presente da assaporare. Il fanciullo, infatti, è estraneo al dolore solo in quanto essere inconsapevole: egli non ha, in altre parole, alcuna percezione della propria spensieratezza, nel senso che non conosce alternative al suo modo di vivere. La sua esistenza è una conseguenza di quanto predisposto dalla natura. Il giovane non è felice: semplicemente non ha né l'esperienza né le capacità razionali per riflettere sul concetto stesso di felicità.
Solo la maturità consente dunque di realizzare che la festa altro non è che un trionfo di tristezza e noia. Il che avviene essenzialmente per due ragioni: l'irruzione della ragione e l'impossibilità di soddisfare il desiderio di piacere. Da un lato, cioè, l'uomo adulto si osserva vivere, si studia, analizza ogni singolo aspetto della propria esistenza ed è costretto a realizzare che la vita, dal momento che non mantiene le promesse, non può essere appagante; dall'altro è evidente che il contrasto tra le aspettative del sabato e la delusione della domenica è avvertibile solo nel momento in cui si concretizza il passaggio da una condizione all'altra. Ciò che rende lieta la giovinezza è perciò il ricordo, non l'oggettiva percezione – quando si è giovani – di uno stato di benessere. Il giovane vive nella più totale incoscienza; l'adulto invece, proprio perché ha acquisito la consapevolezza necessaria a comprendere che la felicità è irraggiungibile per eccesso di amor proprio, è in grado di rimpiangere quella fase della sua vita nella quale non si poneva alcuna domanda. È la conoscenza di sé, in sostanza, a fare la differenza tra la serenità d'animo (giacché di felicità, come detto, non è possibile parlare) e l'angoscia. Per questo Leopardi, rivolgendosi al fanciullo, precisa che «Altro dirti non vo'»: proprio perché il sapere distrugge ogni illusione. A suo modo di vedere, la domenica coincide necessariamente con una triste, malinconica epifania.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero