giovedì 11 settembre 2014

«Il sabato del villaggio»: la «festa» come trionfo di «tristezza e noia»

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 agosto 2014)

Scrive Giacomo Leopardi nello Zibaldone: «Prima di provare la felicità, o vogliamo dire un'apparenza di felicità viva e presente, noi possiamo alimentarci delle speranze, e se queste son forti e costanti, il tempo loro è veramente il tempo felice dell'uomo, come nella età fra la fanciullezza e la giovinezza. Ma provata quella felicità che ho detto, e perduta, le speranze non bastano più a contentarci, e la infelicità dell'uomo è stabilita».
Il tema affrontato in queste righe è quello che sta alla base di uno dei canti più celebri del poeta di Recanati: Il sabato del villaggio. Composto nel 1829, esso approfondisce il concetto secondo il quale la felicità è una condizione dell'animo irrimediabilmente legata al futuro. È l'attesa di un piacere che si presume concreto, in altre parole, a darci l'impressione che la felicità sia possibile, dal momento che nel presente prevalgono sempre frustrazione e sofferenza.
Procediamo dunque con la lettura del canto, non prima però di aver fatto una piccola premessa metodologica. Il testo non è particolarmente complesso, e non necessita di parafrasi. Nondimeno, per facilitarne la comprensione, si è preferito inserire tra parentesi quadre alcune brevi precisazioni:
La donzelletta vien dalla campagna, / in sul calar del sole, / col suo fascio dell'erba; e reca in mano / un mazzolin di rose e di viole, / onde [con cui], siccome suole [come è solita], / ornare ella si appresta / dimani, al dì di festa, il petto e il crine [il seno e i capelli]. / Siede con le vicine / su la scala a filar la vecchierella, / incontro là dove si perde il giorno [rivolta, cioè, al tramonto]; / e novellando vien del suo buon tempo [racconta della sua giovinezza], / quando ai dì della festa ella si ornava, / ed ancor sana e snella / solea danzar la sera intra di quei [tra coloro] / ch'ebbe compagni dell'età più bella. / Già tutta l'aria imbruna [si oscura], / torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre / giù da' colli e da' tetti, / al biancheggiar della recente luna [il cielo sereno, arrossato dai colori del tramonto, torna azzurro, e la luce della luna appena sorta disegna nuovamente profili e ombre che si allungano dalle colline e dai tetti delle case]. / Or la squilla [la campana della chiesa] dà segno / della festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta. / I fanciulli gridando / su la piazzola in frotta, / e qua e là saltando, / fanno un lieto romore: / e intanto riede [torna] alla sua parca mensa, / fischiando, il zappatore, / e seco [tra sé e sé] pensa al dì del suo riposo. // Poi quando intorno è spenta ogni altra face [luce], / e tutto l'altro tace, / odi il martel picchiare, odi la sega / del legnaiuol [il falegname], che veglia / nella chiusa bottega alla lucerna, / e s'affretta, e s'adopra / di fornir l'opra [di terminare il lavoro] anzi il chiarir dell'alba. // Questo di sette è il più gradito giorno, / pien di speme [speranza]  e di gioia: / diman tristezza e noia / recheran l'ore, ed al travaglio usato [al lavoro quotidiano] / ciascuno in suo pensier farà ritorno. // Garzoncello scherzoso [fanciullo spensierato], / cotesta età fiorita [l'età in cui si è in fiore, cioè la giovinezza] / è come un giorno d'allegrezza pieno, / giorno chiaro, sereno, / che precorre [precede] alla festa di tua vita [festa sta qui per pienezza, e allude pertanto alla maturità]. / Godi [sii felice], fanciullo mio; stato soave, / stagion lieta è cotesta. / Altro dirti non vo'; ma la tua festa / ch'anco tardi a venir non ti sia grave [non ti affligga il pensiero che la tua maturità tardi ancora a giungere].
Per la comprensione del canto può essere utile citare un altro passo dello Zibaldone: «Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente, in quell'ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch'è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L'atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere».
Il sabato del villaggio è pertanto un perfetto esempio del pessimismo leopardiano. A parere del poeta di Recanati, la felicità non è altro che un'illusione che si basa sull'ignoranza. Il sabato – ossia la giovinezza, la fase della vita che precede la piena maturazione (la festa) – è il più bel giorno della settimana proprio perché nasconde la falsa promessa del piacere previsto per l'indomani. Tutte le figure serene che animano la prima parte del canto sono infatti caratterizzate dal fatto di non sapere, di essere all'oscuro della delusione che si cela dietro l'immagine suadente della domenica. L'invito a godere del presente rivolto da Leopardi al garzoncello scherzoso non ha nulla di vitalistico: si tratta della cruda constatazione che il piacere non è altro che assenza di dolore, unita però all'amara consapevolezza che alla giovinezza – essendo essa impossibilitata a conoscere il vero per mancanza di esperienza – è preclusa ogni possibilità di provare questo genere di sollievo.
In sostanza, Leopardi afferma che l'età della maturazione coincide inevitabilmente con quella del disincanto. Affannarsi alla ricerca del vero, volere portare alle estreme conseguenze l'indagine razionale è quindi drammaticamente controproducente, dal momento che la conoscenza non fa altro che disvelare il male che contraddistingue l'esistenza. L'uomo tuttavia non può fare a meno di interrogarsi sul senso dell'esistenza. La ricerca costante di un perché non è una scelta, è come un vizio che è impossibile contrastare con successo. Solo la giovinezza, infatti, ha il pregio della spensieratezza: in un certo senso, si potrebbe dire che si nasce di sabato (con mille aspettative per il futuro) e si muore di domenica, sopraffatti dall'arida realtà. Non per niente, del resto, Leopardi definisce scherzoso il fanciullo al quale si rivolge nella parte finale del canto: chi vive di sabato ride della vita, non la prende sul serio nel senso che non si domanda il perché dell'esistenza. Quando si è giovani, l'essere al mondo è dato per scontato.
Questa considerazione è fondamentale per fugare una mala interpretazione piuttosto ricorrente de Il sabato del villaggio, ovvero che esso sia un inno alla vita, un incitamento a godersi il presente senza preoccuparsi del domani. Leopardi non intende niente di tutto ciò, essenzialmente perché non esiste, a suo parere, alcun tipo di presente da assaporare. Il fanciullo, infatti, è estraneo al dolore solo in quanto essere inconsapevole: egli non ha, in altre parole, alcuna percezione della propria spensieratezza, nel senso che non conosce alternative al suo modo di vivere. La sua esistenza è una conseguenza di quanto predisposto dalla natura. Il giovane non è felice: semplicemente non ha né l'esperienza né le capacità razionali per riflettere sul concetto stesso di felicità.
Solo la maturità consente dunque di realizzare che la festa altro non è che un trionfo di tristezza e noia. Il che avviene essenzialmente per due ragioni: l'irruzione della ragione e l'impossibilità di soddisfare il desiderio di piacere. Da un lato, cioè, l'uomo adulto si osserva vivere, si studia, analizza ogni singolo aspetto della propria esistenza ed è costretto a realizzare che la vita, dal momento che non mantiene le promesse, non può essere appagante; dall'altro è evidente che il contrasto tra le aspettative del sabato e la delusione della domenica è avvertibile solo nel momento in cui si concretizza il passaggio da una condizione all'altra. Ciò che rende lieta la giovinezza è perciò il ricordo, non l'oggettiva percezione – quando si è giovani – di uno stato di benessere. Il giovane vive nella più totale incoscienza; l'adulto invece, proprio perché ha acquisito la consapevolezza necessaria a comprendere che la felicità è irraggiungibile per eccesso di amor proprio, è in grado di rimpiangere quella fase della sua vita nella quale non si poneva alcuna domanda. È la conoscenza di sé, in sostanza, a fare la differenza tra la serenità d'animo (giacché di felicità, come detto, non è possibile parlare) e l'angoscia. Per questo Leopardi, rivolgendosi al fanciullo, precisa che «Altro dirti non vo'»: proprio perché il sapere distrugge ogni illusione. A suo modo di vedere, la domenica coincide necessariamente con una triste, malinconica epifania.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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