venerdì 26 dicembre 2014

«E per rimedio soltanto il dormire»: la riflessione leopardiana di Francesco Guccini

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 settembre 2013)



Mio vecchio amico di giorni e pensieri / da quanto tempo che ci conosciamo,
venticinque anni son tanti e diciamo / un po' retorici che sembra ieri.
Invece io so che è diverso e tu sai / quello che il tempo ci ha preso e ci ha dato:
io appena giovane sono invecchiato, / tu forse giovane non sei stato mai.
Ma d'illusioni non ne abbiamo avute, / o forse si, ma nemmeno ricordo,
tutte parole che si son perdute / con la realtà incontrata ogni giorno.
Chi glielo dice a chi è giovane adesso / di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare / perché ogni volta è poi sempre lo stesso.
Eppure il mondo continua e va avanti / con noi o senza e ogni cosa si crea
su ciò che muore e ogni nuova idea / su vecchie idee e ogni gioia su pianti.
Ma più che triste ora è buffo pensare / a tutti i giorni che abbiamo sprecati,
a tutti gli attimi lasciati andare / e ai miti belli delle nostre estati.
Dopo l'inverno e l'angoscia in città / quei lunghi mesi sdraiati davanti,
liberazione del fiume e dei monti / e linfa aspra della nostra età.
Quei giorni spesi a parlare di niente / sdraiati al sole inseguendo la vita,
come l'avessimo sempre capita, / come qualcosa capito per sempre.
Il mio Leopardi, le tue teologie: / «Esiste Dio?». Le risate più pazze,
le sbornie assurde, le mie fantasie, / le mie avventure in città con ragazze.
Poi quell'amore alla fine reale / tra le canzoni di moda e le danze:
«È in gamba sai, legge Edgar Lee Masters». Mi ha detto no, non dovrei mai pensare.

Le sigarette con rabbia fumate, / i blue jeans vecchi e le poche lire,
sembrava che non dovesse finire, / ma ad ogni autunno finiva l'estate.
Poi tutto è andato e diciamo siam vecchi, / ma cosa siamo e che senso ha mai questo
nostro cammino di sogni fra specchi, / tu che lavori quand'io vado a letto.
Io dico sempre non voglio capire, / ma è come un vizio sottile e più penso
più mi ritrovo questo vuoto immenso / e per rimedio soltanto il dormire.
E poi ogni giorno mi torno a svegliare / e resto incredulo, non vorrei alzarmi,
ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi / le mie domande, il mio niente, il mio male.
Quando nell'estate del 2004 fu informato che la sua Canzone per Piero era stata inclusa tra i documenti che gli studenti maturandi avevano potuto consultare per svolgere il tema di ambito artistico-letterario, è possibile che Francesco Guccini, pur lusingato per la nobile "compagnia" di autori quali Dante, Verga e Manzoni, abbia pensato: «Strano, manca il mio Leopardi». Non è un segreto infatti che il cantautore modenese apprezzi enormemente l'opera del grande scrittore di Recanati, i cui versi hanno ispirato diverse sue celebri ballate. In Canzone per Piero il nome del poeta è citato in una delle strofe finali, e di certo non è un caso. Forse non è stato un unico componimento, in prosa o in versi, a fare da musa a Guccini: certo però è che, senza troppe forzature, un accostamento tra Francesco (il cantautore) e Piero da una parte e Porfirio e Plotino – i due filosofi neoplatonici protagonisti di un noto dialogo delle Operette morali – dall'altra consente quantomeno di ipotizzare una fonte plausibile.
In Canzone per Piero Guccini esordisce rivolgendosi all'amico ed evocando il tempo passato trascorso insieme. Venticinque anni separano i due dal loro primo incontro: possono sembrare tanti, eppure «sembra ieri». Il ricordo, come per il Leopardi di Alla luna, edulcora anche i momenti di più acuta sofferenza, col risultato che persino un quarto di secolo pare ridursi a poche sensazioni, a pochi attimi.
Francesco e Piero sono però coscienti che, dopo tanto tempo, è cambiata la percezione del presente, ed è maturata la consapevolezza reciproca di non essere mai stati realmente giovani. «D'illusioni», tipiche della giovinezza, «non ne abbiamo avute»: la prospettiva cioè di concedersi delle aspettative per il futuro si è sempre scontrata «con la realtà incontrata ogni giorno».
Gli sfrenati ottimismi dei giovani d'oggi (si noti che la canzone è del 1974, in piena età della contestazione) sono destinati a sbattere contro il muro dell'errore, che si ripete eterno, «fino al disgusto di ricominciare». Un po' come la leopardiana Silvia, personificazione della speranza, che cade «all'apparir del vero».
«Eppure il mondo continua e va avanti», prosegue Guccini, ed è inutile (e quindi allo stesso tempo sia «triste» che «buffo») rimpiangere il passato, riscrivere la propria storia personale con i "se". Ma l'uomo è come costretto a ricordare: ed ecco quindi che affiorano inesorabili le immagini dei bei momenti trascorsi sui monti (il riferimento è a Pavana, dove oggi il cantautore vive), lontano dall'«angoscia» della città, simbolo dei turbamenti interiori in contrapposizione con l'Appennino, luogo senza luoghi dove un tempo pareva possibile «parlare di niente sdraiati al sole inseguendo la vita».
Il dialogo tra i due amici poteva vertere indifferentemente su argomenti elevati («il mio Leopardi, le tue teologie») o fatti banali, come «le sbornie assurde», «le sigarette con rabbia fumate», i pochi soldi a disposizione o le avventure amorose. Una di queste, in particolare, colpì il giovane Francesco. Ma non si trattava di una ragazza come le altre: leggeva le poesie di Edgar Lee Masters, il che pare quasi una giustificazione fornita a Piero di quell'ingenuo abbandono ad un'avventura sentimentale che, ora è chiaro, non avrebbe potuto procurare nient'altro che disillusione e dolore. Ed è per questo, riflette il Francesco di oggi, che «non dovrei mai pensare».
Che senso ha quindi, da vecchi, «questo nostro cammino», imprevedibile come le immagini (i «sogni») multiformi riflesse «da specchi»? Francesco ribadisce quanto detto poco prima: «Io dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso più mi ritrovo questo vuoto immenso». Ovvero, come Filemazio che nella celebre Bisanzio (altro capolavoro gucciniano) confonde vita e morte e si addormenta, sarebbe meglio non pensare, l'unico rimedio sarebbe il dormire: ma tutto è inutile, perché l'uomo non può fare a meno di riflettere sul senso della propria vita.
Il sonno, ovvero la morte delle aspettative e delle paure legate al futuro, è una chimera. Francesco è «incredulo» tutte le volte che si sveglia, ma non ha alternative: vive, o meglio convive, con le sue domande, il suo niente, il suo male, e forse l'unico conforto, ciò che dà un briciolo di senso alla sua vita, è proprio la condivisione delle sue angosce con Piero. È l'amico, e più in generale il legame affettivo con le persone care, a destare Francesco dal suo sonno e ad impedire che diventi perpetuo.
Anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio due amici discorrono sul senso dell'esistenza. Porfirio, che avverte un forte «fastidio della vita», un tedio «che si assomiglia a dolore e a spasimo», non riesce ad accettare «la vanità di ogni cosa» e pertanto difende la liceità del suicidio come gesto consapevole di ribellione contro la natura «matrigna», cagione di tutti i mali dell'uomo.
Plotino, pur accettando l'idea che la vita sia un «quasi carcere», cerca di distogliere l'amico dall'intenzione di uccidersi: ma ogni sua argomentazione è efficacemente contrastata da Porfirio, per il quale la morte è un «porto», non una «tempesta». Nemmeno la religione può dare conforto, dal momento che promette un «guiderdone» (una ricompensa) la cui presunta «dolcezza […] è nascosa, ed arcana», e la cui inconsistenza fa apparire persino una «crudeltà» ogni illusione di vita ultraterrena. Meglio dunque, direbbe Guccini, il sonno; meglio, afferma Porfirio, la cessazione di ogni male, la morte.
Non ha senso, del resto, sostenere che l'«atto dell'uccidersi» sia «contrario a natura»: come può dirsi tale, prosegue Porfirio, l'unico modo che hanno gli uomini di sfuggire all'infelicità, essendo istinto naturale avere «amore del nostro meglio»? E poi, se anche così fosse, per quale motivo all'uomo – membro di una civiltà che ha dimenticato i «costumi primitivi e silvestri» – è lecito vivere ma non «morire contro natura»?
L'uomo, dopo avere abbandonato, con la ragione, il primitivo stato di natura, ne ha acquisito un altro, incivilendosi: perché dunque, continua Porfirio, «questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva», che è quella che impedisce agli animali di desiderare la morte? La verità è che «la noia stessa e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita»; il che vale anche (e anzi, soprattutto) per coloro che, trovandosi «in sulla cima di quella che chiamasi felicità umana», non possono sperare che il domani sia meglio dell'oggi.
A queste argomentazioni Plotino fatica a ribattere, ed è anzi costretto infine ad ammettere che possa definirsi «ragionevole l'uccidersi». Nondimeno, egli ritiene che «quantunque sia [...] diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla»; e che pertanto sia innato nell'uomo un istinto di conservazione della propria vita che merita quantomeno di essere rispettato, pur se incomprensibile razionalmente. Del resto, se la vita «è cosa di tanto piccolo rilievo», non ha senso che ci si preoccupi più di tanto «né di ritenerla né di lasciarla».
Questa riflessione precede il ragionamento conclusivo di Plotino, l'unico, in realtà, che Porfirio non possa contestare. Il suicidio, cioè, è un atto di egoismo che un uomo non può permettersi di compiere, poiché «non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici» rappresenta «il men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo». Il peso della noia che rende detestabile la vita può essere alleviato solo dalla condivisione della sofferenza con le persone care, alle quali non è giusto, è «inumano» arrecare deliberatamente dolore. La vita, del resto, è cosa breve: e «quando la morte verrà – conclude Plotino rivolgendosi all'amico –, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora».
Al vivere, dunque non c'è alternativa. La morte, come il sonno di Guccini, sarà la fine del nostro patire, ma è una frontiera che non possiamo desiderare di oltrepassare, è un qualcosa che ci sfugge, come la vita. La consapevolezza di essere importanti per qualcuno (e qualcuno che tiene a noi c'è sempre) ci desta dal sonno in cui vorremmo inconsciamente sprofondare, ci proibisce l'egoismo della ribellione: come Francesco ritrova in Piero un pretesto per ricordare, sforzandosi di capire il passato alla luce del presente, così Porfirio accetta, discutendo con Plotino, di mettere in dubbio le proprie convinzioni. E concede a Plotino la possibilità di dimostrare che quella di congedarsi dal mondo non può essere una scelta proprio perché in fondo è lo stesso dialogo, l'idea di condividere la sofferenza con l'amico, che gli dà conforto.

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domenica 14 dicembre 2014

«Una questione privata»: l’esperienza totalizzante della guerra partigiana

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 dicembre 2014)

Apparso postumo nella primavera del 1963 – pochi mesi dopo la scomparsa del suo autore, Beppe Fenoglio – Una questione privata è un romanzo per certi versi unico nell’ambito della letteratura resistenziale. In esso infatti la lotta partigiana fa da sfondo a una vicenda di poco conto, che coinvolge il protagonista a livello strettamente personale; e la guerra è niente più di un dato di fatto, un’esperienza che va accettata e con la quale bisogna forzatamente convivere.
Una questione privata è la storia di una ricerca. Nel corso di un’azione militare ad Alba (nelle Langhe), il partigiano Milton (studente poco più che ventenne) si imbatte nella villa dove, nei primi anni di guerra, si era rifugiata Fulvia, la ragazza di cui è perdutamente innamorato. La casa è vuota: Fulvia, sfollata ad Alba da Torino per timore dei bombardamenti, dopo l’8 settembre del 1943 ha fatto ritorno in città, nel frattempo divenuta più sicura delle campagne, teatro di rastrellamenti e rappresaglie.
Per Milton rivedere la villa è un modo per sentirsi nuovamente vicino alla ragazza che ama («Arrivò sotto il portichetto. “Fulvia, Fulvia, amore mio”. Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi»). Ma Fulvia è partita, e nella casa è rimasta solo la custode, che prontamente riconosce Milton. Questi le chiede il permesso di entrare, attratto dalla prospettiva di rievocare il ricordo delle lunghe giornate trascorse a chiacchierare con Fulvia, quasi sempre di letteratura, poesie e canzoni americane (di cui è esperto conoscitore e che traduce senza difficoltà). A un tratto, però, la governante insinua nella mente del giovane un atroce dubbio: è più che probabile che Fulvia se la intendesse con Giorgio, un bel ragazzo di Alba, amico di Milton e ora come lui partigiano: «Loro due non li sentivo mai parlare. Io origliavo [...]. Ma c’era sempre un silenzio, quasi non ci fossero. E io non stavo per niente tranquilla. Ma non dica queste cose al suo amico, mi raccomando. Si misero a far tardi, ogni volta più tardi. Fossero sempre rimasti qui fuori, sotto i ciliegi, non mi sarei preoccupata tanto. Ma cominciarono a uscire a passeggio. Prendevano per la cresta della collina».
Per Milton la rivelazione è sconcertante. Immediatamente decide che deve sapere, deve a tutti i costi conoscere la verità sul presunto tradimento di Fulvia. Chiede dunque un permesso al comando partigiano per poter andare alla ricerca di Giorgio, giacché è convinto che gli basti incrociare gli occhi con quelli dell’amico per avere conferma (o smentita) delle parole della custode della villa. Ma Giorgio non si trova: nessuno, tra i compagni partigiani, sa dove sia finito, finché un contadino non rivela di averlo visto legato su un carro, tenuto prigioniero da alcuni fascisti.
La cattura di Giorgio rappresenta un altro duro colpo per Milton, che teme che il suo amico venga giustiziato, portandosi nella tomba l’agognata verità su Fulvia. L’unica soluzione è quella di trovare al più presto un prigioniero da scambiare con Giorgio: ma al momento nessuna brigata della zona è in grado di fornirne uno. A Milton non resta, pertanto, che fare da sé, e, dopo infruttuosi tentativi, la sua ricerca viene premiata dalla preziosa informazione che riceve da una vecchia: un ufficiale nemico ha una relazione con una donna che abita nei pressi di Alba (dove Giorgio è tenuto prigioniero), e si reca spesso furtivamente in casa sua. È addirittura un sergente, quindi una preziosa moneta di scambio. Milton gli tende con successo un’imboscata, riesce a catturarlo, ma è costretto a freddarlo quando questi, senza motivo, tenta la fuga. La morte dell’ufficiale fascista è fortuita, non voluta: ma sarà comunque vendicata con la fucilazione di due giovanissime staffette partigiane.
Perduta ogni speranza di liberare Giorgio, Milton decide di fare ritorno alla villa di Fulvia per interrogare nuovamente la governante, anche se, preso dallo sconforto, è ormai certo di essersi illuso e di avere perduto per sempre il suo amore («Ma che ci vado a fare? […] Non c’è nulla da chiarire, da approfondire, da salvare. Non ci sono dubbi. Le parole della donna, una per una, e il loro senso, il loro unico senso…»). Giunto nei pressi dell’abitazione, è sorpreso da un drappello di fascisti e costretto a una fuga precipitosa. Mentre corre forsennatamente, schivando miracolosamente centinaia di pallottole, Milton pare rassegnarsi all’imminente destino di morte. D’un tratto, però, riacquista lucidità: «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!».
I fascisti, pian piano, perdono terreno, ma Milton non rallenta. Continua a correre all’impazzata, finché non raggiunge una borgata. Dapprima la schiva, poi però torna sui suoi passi: «Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli». Superate le case – è questa la conclusione del romanzo –, «gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò».
Il finale di Una questione privata è, con tutta evidenza, decisamente aperto. Milton è inseguito dai fascisti che sparano a più non posso, riesce a guadagnare qualche metro di vantaggio e infine, giunto in prossimità di un bosco, crolla. Resta quindi il dubbio: Milton muore o si salva? Fenoglio è volutamente evasivo, come si evince del resto dalla scelta stessa dell’ultimo verbo – «crollò» –, che può voler dire molte cose diverse.
Al riguardo, esistono opposte interpretazioni (e forse è lecito supporre che Milton si salvi, se non altro perché una persona ferita a morte difficilmente riesce a correre a perdifiato), ma è probabile che Fenoglio non desse troppa importanza al destino del protagonista del suo romanzo. A prescindere cioè dal fatto che Milton muoia o che sopravviva, ciò che conta è che egli, alla fine del suo percorso di ricerca, non sia più disposto a sacrificare tutto per conoscere la verità su Fulvia. Di colpo, la sua questione privata – così insignificante se confrontata con la battaglia per la libertà combattuta dalle formazioni partigiane – diventa un insensato atto di egoismo, un sacrificio del tutto inutile. Ben altre, del resto, sono le ragioni per cui vale la pena morire: si può donare la vita per un ideale, per difendere ciò che si ha di più caro, ma non certo per sciogliere uno stupido dubbio, peraltro tale solo nella mente di Milton, offuscata dalla gelosia.
Fenoglio, in sostanza, si serve di una vicenda di poco conto per fare luce sul dramma psicologico, prima ancora che materiale, della guerra civile. Fare il partigiano tra il 1943 e il 1945 significa, cioè, uscire allo scoperto in un contesto nel quale la maggioranza tende a starsene cautamente in disparte, in attesa che ritorni la pace (quasi per grazia ricevuta). Significa accettare di rischiare la pelle per il solo fatto che si è deciso di prendere posizione tra due parti in lotta e, soprattutto, acquisire la consapevolezza che, quando la posta in palio è così alta, non c’è spazio per nessuna questione privata. In altre parole, ogni singolo aspetto della vita di un partigiano diventa pubblico, nel senso che di ogni azione bisogna rendere conto.
Al riguardo, è esemplare l’inserimento dell’episodio della fucilazione delle due staffette partigiane. Come infatti nota Gabriele Pedullà, Fenoglio vuole evitare «che la disperata corsa nel fango alla ricerca della “verità su Fulvia” possa essere liquidata come una semplice “questione privata”. In definitiva per far comprendere ai lettori che, dietro l’apparente eccezionalità dell’esperienza del partigiano anglomane, è della guerra civile italiana nel suo complesso che il romanzo […] sta parlando. La guerra civile: con il suo terribile principio di reversibilità dove (indipendentemente dai torti e dalle ragioni) ciascuno occupa a turno il ruolo del fucilato e del fucilatore, della vittima e del carnefice».
Una questione privata si pone pertanto l’obiettivo di far entrare la Storia nella storia, ovvero di impedire che la seconda obliteri la prima. Attraverso l’assurda ricerca di Milton, ostinato nel voler inseguire una verità già ampiamente alla sua portata, Fenoglio riesce a raccontare il dramma di una guerra fratricida, combattuta per lo più da ragazzini, che nega a chiunque vi prenda parte il privilegio dell’egoismo.

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Allarme libri: in Italia si legge sempre meno

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 dicembre 2014)

Sito dell’Istat, pagina riguardante i dati relativi alla lettura di libri in Italia: «Nel 2013, oltre 24 milioni di persone di 6 anni e più dichiarano di aver letto, nei 12 mesi precedenti l’intervista, almeno un libro per motivi non strettamente scolastici o professionali. Rispetto al 2012, la quota di lettori di libri è scesa dal 46% al 43%».
Che l’Italia sia un paese in crisi, lo si evince anche da questi numeri: oltre la metà degli abitanti della penisola non legge nemmeno un libro nell’arco di un intero anno. Capito bene? Nemmeno uno! In compenso, sempre secondo i dati Istat, nel 2013 il 98% dei bambini tra i 4 e i 14 anni trascorre tre ore e ventiquattro minuti al giorno davanti ad un televisore. In pratica, terminato l’orario scolastico, i nostri giovani cominciano una sorta di secondo lavoro – che porta loro via un tempo di poco inferiore a quello trascorso sui banchi – che li tiene incollati ad uno schermo. Il tutto senza contare le ore dedicate ad internet e ai telefoni cellulari (altro dato significativo: l’uso del cellulare tra gli 11-17enni è passato dal 55,6% del 2000 al 92,7% del 2011).
Dunque per la lettura sembra essenzialmente essere venuto meno il tempo. Per quanto riguarda i ragazzi (che necessariamente devono essere tenuti in particolare considerazione in quanto testimoni e protagonisti del mondo che cambia), tolti la scuola, si spera un po’ di studio e tutto l’insieme delle attività che si svolgono davanti ad uno schermo, restano davvero pochissime ore a disposizione da dedicare ad un buon libro. Ebbene, a questo punto gli interrogativi da porsi sono in sostanza due. Primo: riteniamo che questa crescente disaffezione nei confronti della lettura sia un problema per la nostra società, oppure, tutto sommato, siamo da un lato convinti che la cultura sia un superfluo passatempo da professori, e dall’altro per nulla preoccupati che la televisione fagociti per intero il nostro tempo libero? Perché il nocciolo della questione è tutto qui: meno si legge, meno il distacco dai libri sarà avvertito come problema; e se la scuola non solo non ci fa amare i libri, ma tende, al contrario, a farceli odiare, ecco che la frittata è fatta.
Secondo interrogativo: quali sono le ragioni che provocano agli italiani questa specie di allergia alla carta stampata? Porre questa domanda significa prendere atto del fatto che i dati statistici sono molto più allarmanti di quanto sembrino. Occorre infatti tenere presente che, nel 2010, tra gli abitanti del Bel Paese che leggono, il 45,6% non sfoglia più di tre libri all’anno e solo il 13,8% rientra nella categoria dei cosiddetti “lettori forti”, i quali leggono dodici o più libri all’anno. In sostanza, quasi la metà dei lettori “consuma” meno di un libro per stagione, mentre poco più di un lettore su dieci riesce a tenere il ritmo di un libro al mese. A completare il quadro, si tenga presente che nel 2011 il 9,9% delle famiglie dichiara di non possedere alcun libro in casa.
Va detto, a voler essere un tantino più precisi, che i dati fin qui presi in considerazione offrono una media che non tiene conto di alcune importanti differenze. Per esempio, tornando all’indagine relativa al 2013, tra le donne la percentuale delle lettrici sale al 49,3%, mentre tra gli uomini scende ad uno sconfortante 36,4%. Si legge poi molto di più al Nord (50,1% nel Nord-ovest; 51,3% nel Nord-est) che al Sud e nelle isole (30,7%); per quanto concerne, infine, i ragazzi della fascia di età 6-14 anni, legge il 75% di coloro che hanno entrambi i genitori lettori, contro solo il 35,4% di quelli con genitori che non leggono.
Quest’ultimo dato, già di per sé, è molto significativo: quella della lettura sembra essere un’abitudine che si trasmette quasi spontaneamente di padre in figlio. Leggere aiuta a far leggere; parlare di libri evidentemente invoglia potenziali nuovi lettori a sfogliare qualche volume in più. E da qui è necessario partire: se si entra nel “tunnel del libro” (per i più svariati motivi: perché mamma e papà leggono o posseggono una bella collezione di libri, perché un professore ci incuriosisce, perché si è deciso di cominciare anche solo per provare e non si riesce più a smettere…), è quasi sempre difficile uscirne, nel senso che quando si familiarizza con la lettura, il libro diventa un amico inseparabile.
Poi, certo, ci sono i numeri sopra citati. In Italia, ahimè, non legge più nessuno, e i pochi che leggono spesso leggono quasi nulla. Però non bisogna darsi per vinti: se si è capaci di toccare le corde giuste, non è poi così difficile convincere una persona a fare un salto in biblioteca. Bisogna dirsele queste cose, altrimenti il pessimismo misto a disgusto di chi con orgoglio si sente (giustamente) parte di un’elite solo perché legge rischia di diventare una futile (e un po’ snob) presa di distanza dal mondo. Chi legge deve in altre parole sentire il dovere di coinvolgere più persone possibili, anche solo con brevi accenni. Stuzzicare l’appetito di chi ritiene di non aver bisogno di cibo (per la mente, nel nostro caso) dovrebbe diventare una sorta di missione comune a tutti coloro che rientrano nel 43% certificato dall’Istat.
Per quale motivo, infatti, in Italia si legge così poco? D’accordo: c’è la questione dello scarso tempo a disposizione di cui si diceva poc’anzi. E si tratta senz’altro di un problema reale, poiché è evidente che – se intendiamo, come è lecito presumere che molti facciano, la lettura come un passatempo – negli ultimi trent’anni la tecnologia ha messo a disposizione una miriade di apparecchi che sono più accattivanti, allettanti e facilmente fruibili dello strumento-libro. Ma siamo sicuri che la lettura di un libro debba essere messa sullo stesso piano della visione di un film o di una partita ad un videogioco? Davvero cioè possiamo ritenere i libri competitivi rispetto a questo genere di svaghi?
Il punto è che la lettura sarà sempre perdente se considerata un mero passatempo, un modo per distrarsi o per rilassarsi. Al contrario, essa è sinonimo di concentrazione, di impegno e di fatica. Leggere è cosa gratificante solo a patto di mettersi in gioco, di accettare di farsi carico del sacrificio della riflessione. Libri e giochi, in questo senso, non hanno nulla in comune, dal momento che nessun lettore serio legge solo per divertirsi, nemmeno quando ha tra le mani un volume di poco conto. Leggere significa essere disposti a sgombrare la mente per poter entrare in un mondo che prende forma solo attraverso l’immaginazione o il ragionamento. Leggere, in definitiva, è un investimento: si accetta di compiere una grande, faticosa cavalcata riga per riga, in cambio della promessa di ricevere una gratificazione mille volte maggiore dopo la conclusione dell’ultima pagina.
Occorre dunque parlare di libri facendo leva sulla loro intrinseca diversità: un libro, infatti, è un prodotto unico e insostituibile, e costituisce il principale veicolo di diffusione della cultura. È impensabile che una società evoluta come la nostra pensi di poter fare a meno della lettura, a meno che non intenda rassegnarsi a veder proliferare esseri sempre più ignoranti e insignificanti. Certo è, però, che siamo a bordo di una nave che sta colando a picco. E se vogliamo evitare di sprofondare del tutto, è bene che corriamo al più presto ai ripari: per salvare i libri occorre parlare di libri. E bisogna farlo un po’ dappertutto: in casa, nelle scuole, in televisione, su internet. Ovunque! Chi ha la fortuna di amare la lettura deve comportarsi come una guida turistica e condurre i non lettori alla scoperta dei tesori che sono custoditi tra le pagine dei libri.
Quanto poi alle scuole, esse hanno il compito più delicato: dotare gli studenti degli strumenti necessari per coltivare interessi culturali. La scuola, cioè, non deve riempire di nozioni dei contenitori vuoti, ma far sì che i ragazzi imparino ad apprezzare la bellezza e l’importanza dello studio individuale. Per raggiungere questo traguardo, occorrono sicuramente basi solide, che purtroppo l’istruzione al giorno d’oggi non sempre garantisce (l’impressione, per esempio, è che molti studenti fatichino a comprendere i grandi classici della nostra letteratura proprio a livello letterale prima ancora che contenutistico): ma se queste sono la conditio sine qua non, è altresì vero che da sole non bastano. Ciò che manca davvero al nostro tempo è la capacità di far scoccare la scintilla, di far nascere l’amore per i libri. Perché – qualunque lettore potrebbe confermarlo – esiste una legge non scritta: chi contrae il virus della bibliofilia, non ha speranza alcuna di guarire.

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martedì 2 dicembre 2014

«Dialogo d’Ercole e di Atlante»: l’ignavia del mondo moderno

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 novembre 2014)

Nel Dialogo d’Ercole e di Atlante Leopardi propone una versione comico-satirica della secolare disputa tra antichi e moderni, accesasi in Francia alla fine del Seicento e ancora viva ai suoi tempi (il celeberrimo Discorso sulla libertà degli antichi, paragonata alla libertà dei moderni di Benjamin Constant, per esempio, viene pronunciato nel 1819, cinque anni prima dell’operetta). Il mondo – si chiede indirettamente il poeta di Recanati – si è evoluto o è regredito? Gli uomini di oggi che giudizio meritano se confrontati con quelli del passato, in particolare con i popoli dell’antichità classica? A discorrere di queste tematiche Leopardi fa intervenire due personaggi della mitologia, Ercole e Atlante (il Titano che prese parte alla guerra di Crono contro gli dei dell’Olimpo e che Zeus punì con l’obbligo di sorreggere la Terra sulle spalle).
Così il primo, nell’incipit, si rivolge al secondo: «Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono [il riferimento è alla tredicesima fatica di Ercole, il quale rimpiazzò provvisoriamente Atlante dopo averlo convinto a rubare i pomi d’oro nell’orto delle Esperidi, ma poi glieli sottrasse con uno stratagemma], tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco».
La risposta di Atlante è piuttosto singolare: siccome, egli afferma, «il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più», non c’è alcun bisogno di riprendere fiato. La Terra, infatti, si è ridotta a poca cosa, tanto che potrebbe tranquillamente essere sorretta attaccata «ciondolone a un pelo della barba».
A queste parole, Ercole reagisce con stupore. Com’è possibile, si domanda, che il mondo si sia tanto alleggerito rispetto al tempo della sua fatica? Atlante non sa dare una risposta, ma invita il suo interlocutore a provare di persona a sorreggere la Terra per qualche istante. Ercole accetta, e subito nota un’altra anomalia: «L’altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo [orologio] che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto [non avverto il minimo rumore]».
Ancora una volta, Atlante non è in grado di fornire una spiegazione. Afferma però che «è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile», tanto che – aggiunge – in passato gli era venuto il dubbio che fosse morto. Tuttavia – prosegue –, siccome i morti si decompongono e la Terra non ha invece emanato nel tempo alcun «puzzo», è evidente che il mondo sia in realtà ancora vivo, ed è lecito pensare che si sia trasformato in pianta. 
«Io piuttosto credo che dorma», replica Ercole; e, onde evitare che qualcuno lo scambi per morto e gli dia fuoco, propone di escogitare qualcosa per destarlo dal sonno. Atlante è d’accordo, così Ercole suggerisce di usare il mondo come una palla con cui giocare. Il percolo – ribatte prontamente il Titano – è che Giove si infastidisca e prenda provvedimenti punitivi, un po’ come fece con Fetonte, il figlio di Apollo che fu precipitato nel Po per aver messo in pericolo la Terra con la sua guida spericolata del carro che trasporta il Sole. Ma Ercole non ha dubbi: a suo avviso Giove non dirà nulla perché l’intenzione di svegliare la Terra è buona, non come quelle di Fetonte, interessato solo a pavoneggiarsi e a «fare una bella mostra di sé tra gli Dei del cielo».
Ha così inizio il gioco della palla, anche se Atlante si mostra sin da subito titubante e si raccomanda, preoccupato, che il suo interlocutore non faccia cadere la Terra. I due si passano la sfera colpendola con le mani, finché Ercole non manca la presa a causa di un tiro troppo basso. L’incidente sembra comunque totalmente privo di conseguenze: «Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima, e mostra che tutti dormano come prima».
Atlante, che teme la punizione del Signore dell’Olimpo, non vuole però più sentire ragioni, e interrompe il gioco: «Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è seguito per tua cagione».
La replica di Ercole, che vale la pena citare per intero, è il preludio alla conclusione dell’operetta e ne indica il senso: «Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad istanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre una dove dice che l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’è mosso».
Il senso della riflessione di Orazio è che l’uomo giusto non teme la rovina del mondo, dal momento che per lui il rispetto dei doveri morali ha la precedenza su qualunque altra preoccupazione. Ma dunque – si chiede Ercole –, siccome il mondo è caduto e nessuno ha battuto ciglio, bisogna inferire che tutti gli uomini siano giusti? Atlante, nella battuta finale dell’operetta, risponde con ironia: «Chi dubita della giustizia degli uomini?».
Il mondo moderno, in sostanza, per Leopardi si è come addormentato. Il suo sonno è sinonimo di ignavia, di quell’indolenza che rende fiacco e privo di volontà l’agire umano. Il torpore è così profondo che resiste persino a una potente scossa, tanto che nulla sembra in grado di contrastarlo efficacemente. Per il genere umano, in altre parole, non c’è futuro: esso è vivo solo nel senso che sopravvive, si trascina senza scopo; ma, di fatto, è come se fosse morto.
Il Dialogo d’Ercole e di Atlante rappresenta pertanto un tipico esempio del pessimismo leopardiano, anche se è bene tenere presente che sotto accusa finiscono più che altro le storture dell’età moderna (e non quindi l’umanità in quanto tale), laddove invece per l’antichità è implicito un elogio da parte dell’autore dell’Infinito. Nel momento in cui Ercole e Atlante ricordano, infatti, che un tempo la Terra era più pesante ed emetteva un ronzio (indice di vitalità), indirettamente ammettono che un mondo migliore sia possibile, se non altro perché è esistito in passato. Resta da chiedersi, pertanto, per quale ragione l’umanità sia sprofondata in un sonno atrofizzante. Cos’è che rende il presente così meschino e l’uomo così apatico?
Leopardi non dà una risposta precisa nell’operetta, ma è lecito supporre che alla base della crisi della civiltà occidentale egli individui l’individualismo esasperato che contraddistingue l’uomo moderno, indifferente rispetto a tutto ciò che non lo coinvolge in prima persona. Gli antichi, infatti, avevano ben radicato il senso della collettività, tanto che il singolo poteva esercitare la propria libertà solo come parte di un tutto, come componente di un insieme. La società borghese dell’Ottocento sta invece progressivamente allontanandosi da questo modello: l’individuo viene prima di tutto, e la libertà non è più concepita come positiva (libertà di), ma essenzialmente come negativa (libertà da). All’uomo moderno, in sostanza, sta a cuore solo l’interesse personale (materiale ed economico), mentre manca completamente la disponibilità a sacrificarsi sul serio per qualcosa.
È questo, in definitiva, il significato del sonno cui allude Ercole. L’uomo moderno è addormentato nel senso che non è più in grado di recepire i cambiamenti, tutto preso com’è dalle proprie faccende personali. Anche se il mondo andasse in rovina, a lui importerebbe solo trovare un modo per sopravvivere come individuo. Ciò che conta nell’età moderna è essenzialmente il profitto, la capacità cioè di arricchirsi, sempre come singolo – s’intende –, mai come popolo. Il mondo si è fatto leggero perché la volontà degli uomini di operare per la grandezza della specie è stata completamente sopraffatta dall’egoismo.

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