lunedì 16 dicembre 2013

La maschera imposta dal giudizio collettivo: «La patente», atto d'accusa contro la «schifosa umanità»

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 dicembre 2013)

La patente è una delle più conosciute novelle di Luigi Pirandello. Fu pubblicata per la prima volta il 9 agosto 1911 sul «Corriere della Sera»; ripresa quattro anni dopo nella raccolta La trappola, fu infine accolta, nel 1922, ne La rallegrata, terzo volume delle Novelle per un anno.
La trama è esilissima.
Il giudice D'Andrea è un individuo solitario e un po' bizzarro, il cui «strambo» aspetto fisico (ha «una spalla più alta dell'altra» e uno «smunto sparuto viso di bianco» su cui risaltano «capelli crespi gremiti da negro») rispecchia comportamenti piuttosto insoliti. Di notte egli ha l'abitudine di abbandonarsi a lunghe riflessioni filosofiche, dalle quali tuttavia non ricava che «la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo».
Il giudice D'Andrea è inoltre un uomo moralmente retto e ligio al dovere, che non lascia «mai dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare». Un caso particolare, tuttavia, gli dà il tormento: un tal Chiàrchiaro, un povero disgraziato che la gente comune considera uno iettatore, ha sporto denuncia per diffamazione contro due persone dopo averle sorprese a fare gli scongiuri al suo passaggio. Il giudice sa perfettamente che il malcapitato, pur essendo vittima di «una spietata ingiustizia», non ha alcuna possibilità di vincere la causa. Come condannare infatti due autori di un gesto sgradevole se gli stessi colleghi giudici mostrano di temere gli arcani "poteri" del Chiàrchiaro, se tutti i concittadini potrebbero testimoniare che egli è da tempo al corrente della diffusione della propria fama di iettatore? Perché prendersela solo con due persone in particolare?
Per essere comunque d'aiuto al povero Chiàrchiaro, il giudice D'Andrea decide di convocarlo in tribunale per dissuaderlo dall'intentare una causa, persa in partenza, che peggiorerebbe solo le cose. Ma l'incontro tra i due avviene in modo insolito: il Chiàrchiaro, infatti, si presenta nell'ufficio del giudice conciato in maniera bizzarra, con la barba incolta, «un pajo di grossi occhiali cerchiati d'osso» e un abito grigiastro. Esattamente come la fantasia popolare immagina debba essere il perfetto iettatore.
Ovviamente il D'Andrea, quasi inebetito, si mostra infastidito dalla messinscena, anche perché trova che le dicerie su quell'uomo con «l'aspetto d'un barbagianni» siano solo becere invenzioni. Egli proprio non capisce come si possa sporgere denuncia per diffamazione e, allo stesso tempo, incoraggiare di proposito le malelingue con un comportamento volto proprio a confermare i pregiudizi delle stesse. A sorpresa, tuttavia, il Chiàrchiaro gli rivolge questa criptica domanda: «Ah, lei si figura di fare il mio bene [...] dicendo di non credere alla jettatura?».
Il punto è che il Chiàrchiaro non vuole vincere la causa, bensì ottenere, con la sconfitta, un riconoscimento ufficiale (una «patente») del potere di arrecare sventura. È questo l'unico «capitale» che gli è rimasto dopo aver perso il lavoro a causa delle dicerie: «Signor giudice – è la conclusione cui giunge Chiàrchiaro –, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore. [...] E ci sono tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell'ignoranza? io dico della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d'avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città».
La novella è divisa da Pirandello – attraverso spazi tipografici lasciati in bianco – in tre parti. Nella prima viene presentato il giudice D'Andrea, un personaggio «strambo» e dall'aspetto non comune, le cui inconcludenti elucubrazioni cozzano palesemente con la sua professione. La certezza, tipicamente pirandelliana, di «non poter nulla sapere» si scontra infatti col ruolo istituzionale di amministratore della giustizia: il D'Andrea, che per mestiere deve saper distinguere il falso dal vero, non è in grado, in realtà, di comprendere il senso dell'esistenza. Le riflessioni notturne, che non portano ad alcun risultato concreto, non fanno altro che suscitare nuove angosciose domande.
Forse proprio perché avverte l'esigenza di mettere ordine alla sua vita, il D'Andrea è un lavoratore indefesso, che non trascura mai una pratica, anche a costo di restare in ufficio fino a tardi. Ma il caso del Chiàrchiaro – descritto nella seconda sezione – proprio non riesce a gestirlo. Il malcapitato, presunto iettatore, è una vittima innocente dell'ignoranza della gente, la quale per superstizione, cattivo gusto o chissà cosa ha emesso una condanna "sicura", dalla quale è impossibile sfuggire. Non importa che il Chiàrchiaro sia solo un poveraccio senza colpa: il marchio di iettatore gli è stato impresso a fuoco sulla carne e non c'è niente che si possa fare per cancellarlo. Persino i giudici, i custodi del tempio della ragione e della legge, contribuiscono a diffondere le dicerie, ad alimentare lo stolto pregiudizio.
A differenza del giudice D'Andrea, il Chiàrchiaro ha lucidamente compreso quale sia la strada più facilmente percorribile. Travolto dalle chiacchiere maligne della gente, egli non si oppone alla corrente, incontrastabile, del pensare comune, ma l'asseconda. Se tutti hanno deciso che debba indossare la maschera dello iettatore, tanto vale formalizzare la sentenza che lo condanna a vestire i panni del menagramo e farsi rilasciare dal tribunale una patente ufficiale. Chiàrchiaro – al cui sfogo è dedicato il terzo nucleo narrativo della novella – è consapevole che è impossibile sfuggire all'altrui giudizio: ogni uomo, del resto, dovrebbe rendersi conto che non sempre è consentito indossare la maschera che si desidera. L'aspetto umoristico – nel senso pirandelliano del termine – dell'intera vicenda risiede quindi nel paradosso che il Chiàrchiaro pretenda l'istituzionalizzazione della propria ingiusta condizione proprio dall'ente, il tribunale, cui abitualmente ci si rivolge per ottenere giustizia.
Pirandello si interroga, in definitiva, sul contrasto tra verità e maschera. Se l'io è, essenzialmente, il riflesso di sé nell'altro, allora esistono tanti io quanti sono i punti di vista da cui si osserva. Come Vitangelo Moscarda, che in Uno, nessuno e centomila si rende conto che l'unità della sua persona si sgretola nelle centomila immagini che egli lascia trasparire di sé (e quindi realizza che avere infiniti volti equivale a non averne nessuno), così il Chiàrchiaro intuisce che è inutile pretendere di indossare un'unica maschera. Tuttavia, a differenza di Moscarda, egli coglie l'opportunità di annullare se stesso in una maschera ben definita, che gli restituisce una sicura – seppur spiacevole – identità. Per questo definisce «tassa della salute» il prezzo che tutti dovranno pagare per evitare la sventura che egli ha il potere di "somministrare". La sua vendetta contro la «schifosa umanità» che lo ha privato della possibilità di mostrarsi in pubblico per quello che pensa di essere consiste nel farsi restituire un'identità. Piuttosto che annegare nel mare dell'indifferenziato, Chiàrchiaro preferisce indossare una maschera che, per quanto odiosa, tiene in vita un simulacro del suo io. La salute che va cercando è la sopravvivenza dell'unica forma di riconoscimento sociale che gli sia rimasta.
La verità, pertanto, è inaccessibile, nel senso che tanto il giudice D'Andrea – che nelle meditazioni notturne vede continuamente frustrati i propri tentativi di venire a capo della complessità del mondo – quanto il Chiàrchiaro – il quale, non potendo mostrare in pubblico la (presunta) reale immagine di se stesso, accetta di portare la maschera che altri, senza alcun motivo, hanno scelto per lui – sono impossibilitati a dare un senso alla propria vita. E se al primo stanno bene i panni del giudice, al secondo, obtorto collo, calzano alla perfezione quelli dello iettatore. Come direbbe Pirandello, così è (se vi pare).

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lunedì 9 dicembre 2013

La travolgente (e vacua) «fiumana del progresso»: il pessimismo di Giovanni Verga

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 dicembre 2013)

La Prefazione a I Malavoglia – che funge da premessa anche all'intero Ciclo dei Vinti – costituisce senza dubbio il più articolato documento di teoria narrativa che Giovanni Verga ci abbia lasciato.
Per prima cosa, il grande romanziere siciliano afferma che il suo racconto vuole essere uno «studio sincero e spassionato» dei meccanismi che regolano, a partire dalle classi subalterne, la nascita e lo sviluppo delle «irrequietudini pel benessere». Occorre però considerare che la continua «ricerca del meglio» assume caratteristiche differenti in base alla stratificazione sociale: se essa, infatti, al livello più basso si riduce ad una semplice «lotta pei bisogni materiali», ai gradini più alti della cosiddetta piramide delle classi corrispondono, progressivamente, l'«avidità di ricchezze», la «vanità aristocratica» e l'«ambizione». Nel progetto verghiano del Ciclo dei Vinti, ognuno di questi gradini doveva diventare argomento di un singolo romanzo, per un totale di cinque: ai Malavoglia seguì infatti Mastro don Gesualdo, dopo il quale erano previsti La Duchessa de Leyra, L'onorevole Scipioni e, infine, L'uomo di lusso (che doveva riunire in sé tutte le «bramosie» delle classi inferiori). Solo i primi due romanzi, tuttavia, videro effettivamente la luce.
A partire da questo progetto, Verga intende dimostrare che, pur essendo «grandioso, nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano», il cammino dell'umanità verso il progresso – ma forse sarebbe più corretto chiamarlo, con accezione meno ottimistica, sviluppo – determina un «risultato umanitario» che necessariamente «copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono». La «fiumana del progresso», in altre parole, travolge i singoli individui, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza. Di conseguenza, proseguendo con la metafora, tutti i protagonisti del Ciclo, dai Malavoglia all'Uomo di lusso, «sono altrettanti vinti che la corrente ha deposto sulla riva».
Di fronte a questo spettacolo di natura – che si ripete, cioè, in continuazione, in quanto segue leggi immutabili –, «solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto d'interessarsi ai deboli che restano per via, [...] ai vinti che levano le braccia disperate». Diritto che, però, non consente di esprimere giudizi: lo scrittore che intenda studiare il «campo della lotta» deve accingersi al suo compito «senza passione», al fine di «rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata».
Con tutta evidenza, quella del Verga è una concezione meccanicistica di una realtà regolata da ferrei principi deterministici. La continua «ricerca del meglio» che caratterizza la condizione umana rappresenta una legge assoluta, dalla quale lo scrittore interessato a studiare la realtà non può assolutamente prescindere. Se infatti suo compito è quello di rendere accessibile al lettore le dinamiche che determinano la lotta per la vita, una corretta comprensione della suddetta legge – la quale, ovviamente, non può coesistere con alcun tipo di coinvolgimento personale – risulta imprescindibile. Il che, tuttavia, costituisce per il bravo scrittore una condizione necessaria ma non sufficiente: fondamentale diviene infatti anche l'eclisse dell'autore – che non può intervenire né con commenti né con giudizi correttivi o rassicuranti – e la regressione della voce narrante nel mondo dei personaggi. Solo attraverso questo accorgimento formale – come scrisse Verga nella Prefazione a L'amante di Gramigna – «la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile» e «l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé».
La Prefazione ai Malavoglia presuppone, pertanto, una concezione fortemente pessimistica della realtà. A parere del Verga il progresso altro non è che l'esasperazione del meccanicismo, immutabile, che regola la vita degli uomini. Confidare in un miglioramento e illudersi (come invece suggerivano i seguaci della dottrina economica liberista risalente ad Adam Smith) che il perseguimento di interessi individuali possa giovare al bene collettivo costituisce, in tutto e per tutto, operazione priva di senso. L'uomo che lotta per migliorare il proprio benessere personale non può modificare la condizione di perenne antagonismo tra i membri di una società, dal momento che, nel loro complesso, i singoli interessi individuali producono inevitabilmente dei contrasti. Risulta così chiarita l'impersonalità narrativa di stampo verghiano: lo scrittore siciliano non coltiva alcuna illusione, sa che è impossibile confidare nel progresso e, per questo, non giudica i suoi personaggi, i quali vengono lasciati liberi di esprimersi con le loro parole, secondo i loro costumi.
La tecnica narrativa del Verga è profondamente innovativa rispetto a quella dei contemporanei naturalisti francesi. Questi ultimi si confrontano con la realtà alla stessa stregua di come gli scienziati studiano la natura: il loro scopo consiste nel dimostrare che tanto la legge di gravitazione universale quanto i meccanismi che regolano lo sviluppo delle passioni sono riconducibili a principi logici e assoluti. Secondo questa prospettiva, lo scrittore veste dunque i panni dello studioso che applica e scopre leggi deterministiche inerenti alla natura umana: egli è impersonale nel raccontare proprio perché, dall'esterno, controlla il mondo della finzione narrativa con l'autorità di colui che è in grado di conferirgli un senso preciso.
Nel naturalismo, di conseguenza, è riscontrabile una certa sintonia tra autore e narratore, considerando che quest'ultimo non regredisce al livello dei personaggi ma, al contrario, è al di sopra dei singoli punti di vista e si fa portavoce di quelle leggi che i protagonisti del racconto subiscono inconsapevolmente. Un simile atteggiamento è evidentemente dovuto a una visione ottimistica e progressista della realtà, che riconosce nella scienza un sicuro mezzo per dominare la natura.
Il pessimismo di Verga è invece totalmente incompatibile con questa prospettiva. Siccome la realtà, dominata dalla legge della lotta per la vita, è immutabile, è assurdo, per lo scrittore siciliano, che l'autore intervenga nella narrazione. Un tale comportamento sarebbe giustificabile solo se si coltivasse la speranza di un cambiamento, il che sarebbe possibile solo per una persona che avesse la presunzione di ritenersi depositaria della ricetta per un mondo migliore. Ma Verga non è Manzoni: non interviene a interrompere la narrazione poiché – al contrario dell'autore de I promessi sposi, il quale sente il bisogno di correggere pensieri, azioni e costumi di una società che, ai suoi occhi, dovrebbe (e potrebbe) essere diversa – preferisce far parlare da sé la realtà. Tra Verga e il narratore dei suoi romanzi c'è un abisso. Se si considera, per esempio, il celebre incipit di Rosso Malpelo, è evidente che l'autore del racconto non ha nulla a che vedere con il giudizio – espresso dal narratore – secondo il quale «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo». Nulla di tutto ciò si trova non solo, chiaramente, negli scritti del Manzoni, ma nemmeno in quelli di Zola.
Nel momento in cui il narratore nega il proprio tradizionale ruolo di filtro o, meglio, di mediatore tra lettore e mondo dei personaggi, viene meno la finalità più ovvia del racconto, che è quella di trasmettere messaggi costruttivi. Verga non ha la presunzione di voler indicare una via praticabile per il riscatto dell'umanità: questa prospettiva per lui è ingannevole, poiché si basa sull'erronea convinzione che il progresso debba necessariamente condurre l'uomo verso il miglioramento della qualità della vita. Ma un progresso di questo genere non è nient'altro che un'utopia: per quanto la scienza faccia passi avanti, per quanto l'uomo riesca ad andare incontro allo sviluppo, le leggi che regolano la lotta per la vita negano la possibilità che dal mondo scompaia la categoria dei vinti. L'uomo non può sfuggire al suo destino: così come è sempre accaduto in passato, anche in futuro la conflittualità avrà la meglio sulla solidarietà. La storia più recente, del resto, non può far altro che confermarlo.

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lunedì 2 dicembre 2013

La parabola del figliol prodigo e la natura divina del perdono

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 novembre 2013)

La parabola più celebre del Vangelo, quella cosiddetta del figliol prodigo, è anche una delle più complesse. Prima di addentrarci nella lettura, a livello preliminare è sufficiente sottolineare che essa affronta un tema – quello del perdono – estremamente controverso. Di fronte ai versetti dell'evangelista Luca (15, 11-32), a molti sarà capitato, almeno una volta, di alzare bandiera bianca e pensare: «Questa parabola proprio non la capisco: come dar torto al figlio maggiore?». O magari: «Il racconto propone un caso estremo e il messaggio va interpretato: quella di Gesù è una provocazione a scopo educativo».
Ecco, senza particolari velleità, e soprattutto senza la pretesa di offrire suggerimenti per l'omelia della domenica, è opinione di chi scrive che, al contrario, Gesù non utilizzi per nulla un linguaggio interpretabile. Ed è proprio in questa sconcertante trasparenza che risiede l'enorme complessità della parabola. Gesù non sottintende significati oscuri: il suo racconto, che dev'essere accessibile a tutti, non cela strane insidie. Con un gioco di parole si potrebbe dire che egli afferma esattamente ciò che intende affermare.
Leggiamo dunque la parabola.
Disse ancora [Gesù]: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta". Ed egli divise fra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". Ma il padre disse ai servi: "Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: "Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso". Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».
Per prima cosa, è bene distinguere i personaggi in due categorie: i figli da una parte, il padre dall'altra. Anche se può sembrare una forzatura legare tra loro due figure apparentemente opposte, il figliol prodigo e il figlio maggiore (che potremmo definire figlio retto) hanno infatti in comune una visione esclusivamente razionale della propria realtà interiore.
Il figliol prodigo segue una logica di pensiero lineare. Ha diritto alla sua parte di eredità e la rivendica; vuole l'indipendenza e si allontana da casa. Anche quando, dopo essere caduto in miseria, decide di ritornare sui suoi passi, è la ragione a guidarlo: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Volendo semplificare, schematicamente, il suo comportamento, egli 1) capisce di aver sbagliato; 2) constata le conseguenze delle sue azioni; 3) decide di far ritorno dal padre, convinto che gli spetti un futuro da salariato, comunque preferibile alla condizione di addetto al pascolo dei maiali. Il figliol prodigo subordina cioè il proprio pensiero al nesso causa-effetto: ha peccato, dunque deve pagare. A questa visione razionale non ha, e non può avere, alternative. Per espiare le proprie colpe, egli non può fare a meno di accettare il castigo. Solo così può trovare la forza di chiedere scusa, dal momento che mancherebbe nuovamente di rispetto al padre se pretendesse un perdono incondizionato. Il senso di colpa diviene pertanto per il figliol prodigo un fardello da cui non è possibile separarsi: esso è sì un avvertimento a non commettere due volte il medesimo errore, ma è anche un marchio indelebile impresso a fuoco.
Pure il figlio retto è vincolato al principio razionale di causalità. A suo parere il fratello minore è uno scapestrato che meriterebbe il castigo del padre, non certo la sua comprensione. Egli è altresì convinto di meritare per sé il vitello grasso, come premio per non avere mai trasgredito un comando del genitore. Schematicamente, il figlio retto non è in grado di giustificare quella che reputa una doppia contraddizione, ovvero: 1) suo fratello ha peccato ed è accolto in festa; 2) non per lui, che è senza peccato, ma per l'improbo fratello viene sacrificato il vitello grasso. Si comprende quindi come entrambi i fratelli non riescano a prescindere dal nesso causa-effetto, con la differenza che il figliol prodigo non può pretendere per sé l'indulgenza paterna (e non può nemmeno discostarsi dalla convinzione di meritare un castigo), mentre il figlio retto avrebbe la possibilità di perdonare, ma in cuor suo non ci riesce.
Rispetto ai due figli, il padre è invece in grado di andare oltre i limiti del pensiero razionale, anche perché, razionalmente, il suo comportamento è inspiegabile. Chiunque pretendesse di capire il suo perdono, vedrebbe inevitabilmente frustrati i propri tentativi di ricerca di un senso logico. E il motivo è semplice: il perdono – come disposizione della coscienza – rientra nella sfera del divino e, di conseguenza, supera la frontiera dell'umanamente comprensibile. Come Dio non si vendica degli uomini che hanno crocifisso Gesù, ed anzi li accoglie nel suo regno, così il padre non esita a sacrificare il vitello grasso e si rallegra per il ritorno a casa del figlio che «era morto ed è tornato in vita».
L'insegnamento di Gesù è dunque rivolto a quanti, dovendo prendere una decisione, si affidano esclusivamente alle leggi degli uomini. Queste ultime non possono infatti regolare tutti gli aspetti dell'esistenza, poiché l'uomo non deve subordinare tutto se stesso ai codici che sono il frutto della sua intelligenza razionale. Il perdono, che va al di là della ragione, non può essere imposto da nessuna legge, in quanto non ha alcun senso, non è né giusto né sbagliato. Come dice la stessa etimologia, perdonare significa, di fatto, offrire un dono. E i doni sono gesti d'amore che non rispondono ad una precisa necessità, non presuppongono alcun fine terreno.
Il motivo per cui la risposta del padre al figlio retto è volutamente evasiva è semplice: non ha senso domandare perché si perdona, poiché, se si tentasse di rispondere, non si troverebbero che buone ragioni per non giustificare il perdono stesso. Solo Dio, che con amore paterno infonde nei cuori dei suoi figli il coraggio di perdonare, può comprendere il senso più profondo di quello che è uno dei gesti più nobili che un uomo possa compiere. Quando perdoniamo, di fatto ci avviciniamo alla condizione divina, poiché, al pari di Gesù che è morto in croce per la salvezza dell'umanità, sacrifichiamo noi stessi (cioè il nostro legittimo diritto ad un risarcimento) per il bene del prossimo che ha peccato nei nostri confronti.
Chiunque può provare l'esperienza del padre della parabola dopo avere subito un torto. Finché ci si chiede se colui che ci ha arrecato un danno o una perdita meriti il nostro perdono, di fatto non si è ancora pronti per cancellare la colpa di chi ci ha offeso. Nessuno, sul piano razionale, merita il perdono, dal momento che il principio di causalità (quello che non consente al figlio retto di accogliere il fratello scapestrato) impedisce di accettare che ad una determinata azione non corrisponda una reazione, che al peccato non segua una punizione. Solo andando oltre la domanda è possibile predisporsi al perdono, nel senso che, se decido di perdonare, non devo chiedermi il perché. 

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