(articolo apparso su Prima Pagina del 30 novembre 2013)
La parabola più celebre del Vangelo, quella cosiddetta
del figliol prodigo, è anche una delle più complesse. Prima di addentrarci nella
lettura, a livello preliminare è sufficiente sottolineare che essa affronta un
tema – quello del perdono – estremamente controverso. Di fronte ai versetti
dell'evangelista Luca (15, 11-32), a molti sarà capitato, almeno una volta, di
alzare bandiera bianca e pensare: «Questa parabola proprio non la capisco: come
dar torto al figlio maggiore?». O magari: «Il racconto propone un caso estremo
e il messaggio va interpretato: quella di Gesù è una provocazione a scopo
educativo».
Ecco, senza particolari velleità, e soprattutto senza la
pretesa di offrire suggerimenti per l'omelia della domenica, è opinione di chi
scrive che, al contrario, Gesù non utilizzi per nulla un linguaggio interpretabile. Ed è proprio in questa
sconcertante trasparenza che risiede l'enorme complessità della parabola. Gesù
non sottintende significati oscuri: il suo racconto, che dev'essere accessibile
a tutti, non cela strane insidie. Con un gioco di parole si potrebbe dire che
egli afferma esattamente ciò che intende affermare.Leggiamo dunque la parabola.
Disse ancora [Gesù]: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta". Ed egli divise fra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". Ma il padre disse ai servi: "Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: "Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso". Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».
Per prima cosa, è bene distinguere i personaggi in due categorie: i figli da una parte, il padre dall'altra. Anche se può sembrare una forzatura legare tra loro due figure apparentemente opposte, il figliol prodigo e il figlio maggiore (che potremmo definire figlio retto) hanno infatti in comune una visione esclusivamente razionale della propria realtà interiore.
Il figliol prodigo segue una logica di pensiero lineare. Ha diritto alla sua parte di eredità e la rivendica; vuole l'indipendenza e si allontana da casa. Anche quando, dopo essere caduto in miseria, decide di ritornare sui suoi passi, è la ragione a guidarlo: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Volendo semplificare, schematicamente, il suo comportamento, egli 1) capisce di aver sbagliato; 2) constata le conseguenze delle sue azioni; 3) decide di far ritorno dal padre, convinto che gli spetti un futuro da salariato, comunque preferibile alla condizione di addetto al pascolo dei maiali. Il figliol prodigo subordina cioè il proprio pensiero al nesso causa-effetto: ha peccato, dunque deve pagare. A questa visione razionale non ha, e non può avere, alternative. Per espiare le proprie colpe, egli non può fare a meno di accettare il castigo. Solo così può trovare la forza di chiedere scusa, dal momento che mancherebbe nuovamente di rispetto al padre se pretendesse un perdono incondizionato. Il senso di colpa diviene pertanto per il figliol prodigo un fardello da cui non è possibile separarsi: esso è sì un avvertimento a non commettere due volte il medesimo errore, ma è anche un marchio indelebile impresso a fuoco.
Pure il figlio retto è vincolato al principio razionale di causalità. A suo parere il fratello minore è uno scapestrato che meriterebbe il castigo del padre, non certo la sua comprensione. Egli è altresì convinto di meritare per sé il vitello grasso, come premio per non avere mai trasgredito un comando del genitore. Schematicamente, il figlio retto non è in grado di giustificare quella che reputa una doppia contraddizione, ovvero: 1) suo fratello ha peccato ed è accolto in festa; 2) non per lui, che è senza peccato, ma per l'improbo fratello viene sacrificato il vitello grasso. Si comprende quindi come entrambi i fratelli non riescano a prescindere dal nesso causa-effetto, con la differenza che il figliol prodigo non può pretendere per sé l'indulgenza paterna (e non può nemmeno discostarsi dalla convinzione di meritare un castigo), mentre il figlio retto avrebbe la possibilità di perdonare, ma in cuor suo non ci riesce.
Rispetto ai due figli, il padre è invece in grado di andare oltre i limiti del pensiero razionale, anche perché, razionalmente, il suo comportamento è inspiegabile. Chiunque pretendesse di capire il suo perdono, vedrebbe inevitabilmente frustrati i propri tentativi di ricerca di un senso logico. E il motivo è semplice: il perdono – come disposizione della coscienza – rientra nella sfera del divino e, di conseguenza, supera la frontiera dell'umanamente comprensibile. Come Dio non si vendica degli uomini che hanno crocifisso Gesù, ed anzi li accoglie nel suo regno, così il padre non esita a sacrificare il vitello grasso e si rallegra per il ritorno a casa del figlio che «era morto ed è tornato in vita».
L'insegnamento di Gesù è dunque rivolto a quanti, dovendo prendere una decisione, si affidano esclusivamente alle leggi degli uomini. Queste ultime non possono infatti regolare tutti gli aspetti dell'esistenza, poiché l'uomo non deve subordinare tutto se stesso ai codici che sono il frutto della sua intelligenza razionale. Il perdono, che va al di là della ragione, non può essere imposto da nessuna legge, in quanto non ha alcun senso, non è né giusto né sbagliato. Come dice la stessa etimologia, perdonare significa, di fatto, offrire un dono. E i doni sono gesti d'amore che non rispondono ad una precisa necessità, non presuppongono alcun fine terreno.
Il motivo per cui la risposta del padre al figlio retto è volutamente evasiva è semplice: non ha senso domandare perché si perdona, poiché, se si tentasse di rispondere, non si troverebbero che buone ragioni per non giustificare il perdono stesso. Solo Dio, che con amore paterno infonde nei cuori dei suoi figli il coraggio di perdonare, può comprendere il senso più profondo di quello che è uno dei gesti più nobili che un uomo possa compiere. Quando perdoniamo, di fatto ci avviciniamo alla condizione divina, poiché, al pari di Gesù che è morto in croce per la salvezza dell'umanità, sacrifichiamo noi stessi (cioè il nostro legittimo diritto ad un risarcimento) per il bene del prossimo che ha peccato nei nostri confronti.
Chiunque può provare l'esperienza del padre della parabola dopo avere subito un torto. Finché ci si chiede se colui che ci ha arrecato un danno o una perdita meriti il nostro perdono, di fatto non si è ancora pronti per cancellare la colpa di chi ci ha offeso. Nessuno, sul piano razionale, merita il perdono, dal momento che il principio di causalità (quello che non consente al figlio retto di accogliere il fratello scapestrato) impedisce di accettare che ad una determinata azione non corrisponda una reazione, che al peccato non segua una punizione. Solo andando oltre la domanda è possibile predisporsi al perdono, nel senso che, se decido di perdonare, non devo chiedermi il perché.
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