(articolo apparso su Prima Pagina del 23 novembre 2013)
Il Libro di Giobbe
pone da oltre due millenni quello che probabilmente è l'interrogativo che più
assilla l'intera umanità: è possibile comprendere il dolore?
La domanda sottintende una considerazione di fondo: se
fosse possibile dare un senso al dolore, e magari comprendere i motivi della
sua comparsa, sarebbe molto più semplice accettarlo. Ma sta di fatto che la
sofferenza è una componente ineludibile dell'esistenza di ogni essere umano,
contro la quale non esistono scudi o barriere. Il dolore ci coglie sempre
impreparati proprio perché è incomprensibile, sfugge alle nostre potenzialità
cognitive e, secondo criteri razionali, non ha alcun senso.Il Libro di Giobbe approfondisce con estrema acutezza queste tematiche.
Giobbe è un uomo giusto e timorato di Dio. È ricco e ha dieci figli (sette maschi e tre femmine): tutti godono, come il padre, di ottima salute.
In un imprecisato empireo, Satana [da intendersi letteralmente come "avversario", un ministro di Dio incaricato di mettere alla prova gli uomini per saggiarne la fede] insinua che la devozione di Giobbe sia la conseguenza del suo benessere materiale e fisico. «Ma stendi un poco la mano – chiede provocatoriamente Satana al Signore – e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!». Il Signore accetta la sfida: prima permette a Satana di privare Giobbe di ogni suo bene (figli compresi); poi, al fine di portare la prova alle estreme conseguenze, acconsente che all'elenco delle disgrazie venga aggiunta anche una gravissima malattia.
Giobbe è però determinato a resistere. Alla moglie, che lo invita a maledire Dio e a morire, replica deciso: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
Prostrato da atroci sofferenze, Giobbe riceve la visita di tre amici (Elifaz, Bildad e Sofar), venuti a recargli conforto. Nessuno, per sette giorni e sette notti, gli rivolge la parola, finché il malato non prorompe in un lamento in cui maledice il giorno della sua nascita. Intervengono quindi, a turno, gli amici: a loro parere, secondo il criterio della giustizia retributiva, se Giobbe soffre significa che ha peccato. Dio, infatti, non punisce i giusti. «Quale innocente – avverte Elifaz – è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti?».
Giobbe, tuttavia, protesta ostinato la propria innocenza: si sente un uomo giusto, non merita sofferenze così atroci. Ai tormenti preferirebbe la morte. E siccome l'esperienza contraddice palesemente la teoria della giusta retribuzione («Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi?»), da perseguitato egli vorrebbe confrontarsi con il Signore, per comprenderne le intenzioni e capire il perché della sua collera. Nonostante la sua protesta sfiori più volte il confine della blasfemia, Giobbe non ha infatti perso la fiducia nell'imperscrutabile Sapienza divina.
Fallito il tentativo di Elifaz, Bildad e Sofar – di fronte ai quali Giobbe rivendica la propria probità – entra in scena il giovane Eliu, il quale rimprovera tanto gli amici, che non hanno saputo trovare argomenti convincenti, quanto lo stesso Giobbe, poiché nessuno può dirsi giusto dinanzi a Dio. Eliu di fatto anticipa l'intervento di Dio, che si rivolge a Giobbe con parole perentorie: «Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri?». È il preludio alla capitolazione. All'uomo, che non può competere con l'Onnipotente, non resta che chiedere perdono e accettare la propria ignoranza: «Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo. [...] Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere».
Nell'epilogo il Signore, dopo aver rimproverato Elifaz, Bildad e Sofar per la loro stoltezza, restituisce a Giobbe i figli e i beni in quantità raddoppiata.
Per comprendere il Libro di Giobbe può essere utile partire dalla fine, dalla risposta – che, a ben vedere, risposta non è – di Dio. Giobbe vorrebbe conoscere il perché della sua sofferenza. Il criterio della giustizia retributiva, più volte affermato ma anche smentito nei dialoghi con gli amici, gli impedisce di trovare la pace. Siccome egli è un uomo giusto, per quale motivo è condannato al dolore? Dal Signore Giobbe attende la soluzione dell'interrogativo; ma a questa precisa domanda l'Onnipotente non solo non risponde, ma replica stizzito che essa è priva di senso. Le sue parole sono di una durezza sconcertante: «Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? [...] Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri?». Il che, volendo parafrasare, equivale a dire: «Come puoi anche solo pensare di conoscere i miei piani? Tu che non eri niente prima che io creassi tutto il mondo intorno a te». Dio, in sostanza, come ha giustamente notato Umberto Galimberti, «sopprime la domanda» sul senso del dolore. All'intelligenza creata non è consentito interrogare l'intelligenza creatrice.
Giobbe, con la sua ribellione, vorrebbe far ragionare Dio. Sente la necessità di esporre il proprio pensiero direttamente al Signore, poiché – afferma – «davanti a lui [...] avrei piene le labbra di ragioni». Ma Dio non sente ragioni, poiché abita in una dimensione sacrale che è il regno dell'indifferenziato, il luogo, cioè, dove le differenze (giusto-ingiusto, bene-male) stabilite dall'uomo per orientarsi nel vivere comune cessano di esistere. Non a caso, volendo invadere il campo dell'etimologia, la parola sacro, di origine indoeuropea, letteralmente significa separato, ossia fuori dalla portata della ragione. E siccome l'uomo allo stesso tempo teme ed è attratto da ciò che non può dominare, la religione (da re-legere) assolve l'essenziale funzione di recingere l'area del sacro, rendendola, con la dovuta cautela, accessibile.
Ad essere messo sotto accusa, quindi, è, più di tutti, il concetto di giustizia retributiva. Se esso davvero influenzasse il volere divino, per l'uomo sarebbe più semplice accettare la sofferenza. Il dolore acquisterebbe senso, e Giobbe dovrebbe capitolare di fronte alle obiezioni degli amici, dal momento che non potrebbe evitare o di riconoscere la propria colpa, o di tacciare Dio di ingiustizia, il che costituirebbe una colpa ancora più grave. Ma la giustizia retributiva è un concetto razionale, e come tale è frutto del pensiero umano, non di quello divino.
Il Libro di Giobbe impone pertanto una riflessione dagli effetti potenzialmente devastanti. Se non è possibile evitare il dolore, se le punizioni divine non seguono alcuna logica, cambia radicalmente il rapporto stesso con Dio. Gli amici mostrano di temere l'Onnipotente, hanno paura del suo giudizio. La loro paura è però un sentimento razionale, che presuppone la conoscenza del rischio cui si va incontro vivendo in modo ingiusto. Siccome credono che la sofferenza abbia una spiegazione, sono convinti di riuscire a evitarla. Ma nel momento in cui viene meno questa certezza, essi si trovano di colpo non più nelle condizioni di avere paura, bensì in uno stato di angoscia, conseguenza della loro ignoranza. Per questo difendono la giustizia retributiva, senza la quale si sentono perduti.
Al contrario degli amici, Giobbe accetta il cadere della giustizia retributiva. Le sue sofferenze – alla fine si rassegna – non hanno alcun senso logico, poiché l'uomo non può comprendere il volere di Dio. Tutto ruota, di fatto, intorno alla dicotomia fede-conoscenza. Le ultime parole che Giobbe rivolge al Signore sono al riguardo eloquenti: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere». Giobbe in sostanza sta dicendo che finalmente ha compreso Dio solo perché ha capito che è impossibile conoscerlo. Si ponga attenzione alle parole: «io ti conoscevo solo per sentito dire», ma ora «mi ricredo». È qui che entra in gioco la fede: si crede solo in ciò che non si conosce, dal momento che se si conoscesse si saprebbe, e non ci sarebbe bisogno di credere. Solo per chi ha fede Dio può essere fonte di speranza; per chi non crede e pretende di sapere non resta che l'inganno, l'amara constatazione che niente ha senso. Senza Dio, l'uomo non può che subire inerme il dolore, anticamera dell'angoscia.
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