martedì 21 gennaio 2014

«La luna e i falò»: il romanzo dell’impossibile ritorno alle origini

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 gennaio 2014)

Pubblicato nell'aprile del 1950 – pochi mesi prima del suicidio del suo autore –, La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese, che riprende, rivisitato in chiave antropologica, il classico motivo letterario del ritorno. Non si tratta però, da parte del protagonista, di una riscoperta sentimentale delle proprie origini: il ricordo del passato è uno sforzo di memoria compiuto per riordinare le idee, per fare chiarezza sugli aspetti più controversi dell'esistenza; è infine un gesto estremo che sopprime, insieme con i suoi fantasmi, anche le illusioni della giovinezza.
Il romanzo è narrato in prima persona dal protagonista, di cui viene detto solo il soprannome, Anguilla. Egli è un trovatello che, dopo aver fatto fortuna in America come emigrante, in seguito alla Liberazione fa ritorno al paese d'origine, nelle Langhe, nel tentativo di dare un senso alla propria travagliata esistenza attraverso la riscoperta dell'identità di quando era ragazzo.
Il racconto non segue un percorso lineare: impressioni e ricordi, passato e presente continuamente si intrecciano, a definire quella che è di fatto una lunga e dolorosa riflessione. Anguilla, dopo tanti anni trascorsi lontano dai luoghi dove è cresciuto, fatica ad ambientarsi. Tutto è, allo stesso tempo, uguale e diverso: niente pare cambiato nel modo di vivere della gente, ma profondamente mutati sono gli occhi del protagonista, che vede cose che da giovane non riusciva a cogliere. Con l'amara consapevolezza di non essere più lo stesso, di avere perso l'entusiasmo con cui affrontava un tempo la vita, Anguilla ripercorre gli anni dell'infanzia, che sembrano avere preservato il solo Nuto, l'amico e compagno con cui è ancora possibile confidarsi.
Anguilla era stato adottato da una famiglia di poveri contadini (Padrino e Virgilia), che lavoravano in un podere sulla collina di Gaminella. Morta la madre adottiva, il padre aveva dovuto vendere la proprietà in seguito a una tremenda grandinata, lasciando che il figlio si trasferisse alla fattoria della Mora, dove vivevano il ricco possidente sor Matteo e le tre figlie Irene, Silvia e Santa. È lì che Anguilla aveva conosciuto Nuto – che gli aveva insegnato a vivere – e aveva fatto le sue prime significative esperienze, fino alla partenza per Genova per il servizio di leva e al successivo trasferimento in America, motivato anche dalla necessità di evitare problemi per via dei suoi contatti con ambienti antifascisti.
Rientrato in paese, Anguilla visita subito la Gaminella, che ora è coltivata dal mezzadro Valino. Questi ha un figlio, Cinto – un ragazzo sciancato costretto a subire i ripetuti maltrattamenti del padre –, nel quale il protagonista rivede se stesso da giovane. Tra i due nasce un'amicizia, con Anguilla nei panni di una sorta di fratello maggiore (sul modello di Nuto). Quando il Valino, a causa della miseria, in preda a una crisi di follia uccide la famiglia, dà fuoco alla Gaminella e infine si impicca, Cinto – che è l'unico a salvarsi – va subito a farsi rincuorare da Anguilla, il solo con cui abbia stretto un legame autentico.
Nel frattempo Anguilla è alla continua ricerca di se stesso attraverso Nuto, incaricato – lui che non ha mai lasciato il paese – di colmare il vuoto che separa il protagonista dai fatti impressi nella sua memoria. Anguilla si scontra così con un passato che non esiste più, che è morto proprio come le figlie del sor Matteo, tutte travolte da un destino ingeneroso; a malincuore, apprende che la guerra ha lasciato strascichi (oltre che numerosi cadaveri sepolti nei boschi), e che, al di là dell'apparenza, gli odi ideologici e di classe sono sempre pronti a riaffiorare. Di essi, racconta infine Nuto, era stata vittima anche Santa (l'unica di cui il protagonista non conosca la sorte), la più giovane e bella delle figlie di sor Matteo, giustiziata dai partigiani dopo essere stata scoperta a fare il doppio gioco con i fascisti. È questa la vicenda che conclude il romanzo: Anguilla si rende conto che il proposito di fare ordine nella sua vita sistemandosi, dopo tanto tempo, nel paese d'origine è destinato miseramente a fallire. L'ingenuità e le illusioni della giovinezza sono perdute per sempre, niente sarà mai più come prima.
Il romanzo di Pavese è un lungo resoconto di una travagliata riflessione sul senso dell'esistenza. Anguilla è un trovatello: non conosce i propri genitori, non sa di preciso dove è venuto al mondo. La sua vita è una continua ricerca di un punto di riferimento, di un appiglio cui aggrapparsi per evitare di sprofondare nel vuoto che egli avverte dentro di sé. Il paese dell'infanzia, che significativamente non è mai esplicitamente nominato, non è altro che il più affidabile surrogato del grembo materno, un rifugio dentro il quale il protagonista crede di poter trovare finalmente la pace.
L'idea iniziale di Anguilla è che solo rientrando nelle Langhe egli potrà capire veramente chi è, dopo avere cercato invano una risposta in America. Il passato, con le illusioni, i sogni e il senso di irrequietezza tipici dell'adolescenza, sembra essere, in sostanza, l'unica parentesi di vita autentica all'interno di un'esistenza avvertita come inutile, interamente spesa alla ricerca di un valido motivo per accettare le continue avversità quotidiane. «Così questo paese – afferma Anguilla nel primo capitolo –, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto».
Un paese, infatti, «vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo». Anguilla crede cioè di aver capito, finalmente, che il solo autentico legame possibile sia quello con la sua terra, l'unica «che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». In questo senso, egli si convince che la prova che nulla è cambiato sia costituita da Nuto, il suo amico d'infanzia che non ha mai lasciato il paese e che – per questo – incarna il paese, gli dà un volto e la possibilità di esprimersi con chiarezza. Se infatti l'America, dopo l'inganno iniziale, si è mostrata per quello che è – un'immensa nazione dispersiva, dove l'identità del singolo è sopraffatta dall'impossibilità di creare un saldo legame con un luogo –, la cura per il senso di stordimento derivante dalla consapevolezza di non avere più una casa non può che essere quella di ripercorrere, a ritroso, i propri passi in cerca delle proprie origini.
A questo ritorno allude, del resto, l'enigmatico titolo del romanzo. La luna e i falò sono importanti elementi che regolano l'attività agricola (si accendono i fuochi per ingrassare la terra e si seguono le fasi lunari per impostare il lavoro nei campi), che si caricano di forti valenze simboliche. Secondo le credenze popolari, il falò «fa piovere»; quanto alla luna – sostiene Nuto –, «prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi». La luna e i falò sono pertanto due componenti basilari del legame con la terra, con un paese in cui il tempo non è lineare, ma si ripete ciclicamente secondo l'alternarsi delle stagioni. Ma se la luna è il simbolo di ciò che ritorna, il fuoco del falò allude anche alla cancellazione di un passato che – come comprende infine lo stesso Anguilla – non è possibile recuperare. Significativo è, al riguardo, l'incendio appiccato da Valino nel casotto della Gaminella, così come la decisione finale dei partigiani di bruciare le spoglie mortali di Santa: non si tratta di un fuoco palingenetico, bensì di una forza distruttrice da cui nulla si salva, né la casa – di cui non restano che «riflessi rossi [...] a piede del muro», avvolto da «una fumata nera» –, né tantomeno la ragazza, che «a mezzogiorno era tutta cenere».
Attraverso i racconti di Nuto, Anguilla comprende dunque che il paese non è più lo stesso di quando era giovane. C'è stata la guerra, gli odi non sono ancora sopiti; ma soprattutto è cambiato lui. Il suo percorso di vita, del resto, è tutto un cambiamento: prima Gaminella, poi la Mora, Genova, l'America e di nuovo Genova, prima del ritorno al paese. Ma ormai Anguilla non è più lo stesso di prima: la civiltà lo ha trasformato, non è più un garzone con la mentalità del contadino. A differenza di Nuto, che non ha mai avvertito la necessità di partire (perché, in fondo, ha sempre saputo quale fosse il suo mondo), Anguilla non fa più parte della vita del paese, e infatti – contrariamente all'amico – non crede più alle superstizioni legate alla luna e ai falò. «La luna – non esita a dire Nuto, quasi con tono di rimprovero – bisogna crederci per forza». Ma Anguilla questo non può farlo: «Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m'ero accorto, che non sapevo più di saperla». Svanite le illusioni, il paese è per lui, ormai, niente più di un luogo. Come l'America, in fin dei conti.

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giovedì 16 gennaio 2014

«La cultura, che barba»: l’ignoranza al potere nel piatto mondo dell’«homo videns»

(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 gennaio 2014)
 
Sono trascorsi più di quindici anni dalla sua prima edizione, ma Homo videns (Laterza 1997) – illuminante saggio del politologo Giovanni Sartori – conserva ancora intatta tutta la sua capacità di suggerire utili riflessioni. La domanda da cui è necessario partire è la seguente: in che senso la televisione, o meglio il tele-vedere, modifica il modo in cui gli individui si rapportano con la società?
Innanzitutto, rileva Sartori, è bene tenere presente che ciò che distingue l'uomo dalle altre specie è essenzialmente «la sua capacità simbolica», ovvero la capacità di comunicare attraverso segni e suoni dotati di significato. Anche se esistono molteplici forme di linguaggio, è la parola a rendere l'uomo un animal symbolicum perfettamente in grado di padroneggiare un linguaggio che è esso stesso pensiero, nel senso che la conoscenza e il sapere si costruiscono «in linguaggio e con il linguaggio».
Premesso dunque che il pensare e il comunicare sono in funzione del linguaggio, ne consegue, da un lato, che il vedere non ha nulla a che fare con il pensare, se è vero che il pensiero non è visibile; dall'altro, che è la scrittura il principale veicolo di pensiero, dal momento che la parola scritta non comunica alcun significato se non è elaborata, interpretata e capita dalla mente pensante del lettore. Pertanto, fino all'avvento della televisione, «l'homo sapiens che moltiplica il proprio sapere è [...] il cosiddetto uomo di Gutenberg»; e non può essere altrimenti nemmeno oggi, nonostante la televisione abbia ridotto all'osso le capacità cognitive del cittadino medio.
La televisione (ossia «vedere da lontano» – tele) ha stravolto il mondo della comunicazione. Oggi il vedere prevale nettamente sul parlare, col risultato che, davanti allo schermo, l'uomo perde la propria capacità simbolica, si accontenta pigramente dell'immagine (che domina anche nei confronti delle voci parlanti) e si trasforma in homo videns. Fino alla metà del Novecento il mondo veniva raccontato a parole: e la parola, per essere veicolo di comunicazione, deve essere capita. Oggi invece il mondo è presente in ogni casa sotto forma di immagini, il cui commento è sempre in funzione di ciò che viene fatto vedere.
Ma c'è dell'altro: ai nostri giorni la televisione costituisce la prima scuola per il bambino, il quale, ben prima di cominciare la scuola vera e propria, «riceve il suo imprint, il suo stampo formativo, da immagini in un mondo tutto incentrato sul vedere». Completamente assorbito dalla televisione, il bambino non solo si abitua a non leggere, ma – il che è ancora peggio – finisce per associare alla lettura un senso di noia. Leggere richiede uno sforzo per capire: perché mai un bambino dovrebbe scegliere di proposito di fare fatica, quando ha a disposizione, con nessuno sforzo, il mondo del tele-vedere?
Il punto è che il video-bambino non diventa mai veramente adulto, e a trent'anni si ritrova ancora in uno stato di atrofia mentale che lo spinge inesorabilmente a far proprio lo slogan «la cultura, che barba» (coniato – questo è il bello – nientepopodimeno che da Ambra Angiolini, una che quando parla di cultura ha sempre ben chiaro cosa dire). Di fronte a una questione così delicata, fanno semplicemente ridere le argomentazioni dei difensori a oltranza del tele-vedere, i quali sostengono che la televisione abbia reso alla portata di tutti ciò che in precedenza, attraverso i libri, raggiungeva una ristretta élite. La cultura, infatti, non si concilia con l'insipienza: essa è prerogativa di chi sa, appartiene, tautologicamente, ai colti, non agli ignoranti. Pertanto la «cultura dell'incultura» prodotta dalla televisione non è affatto una cultura alternativa a quella dei libri: è, e rimarrà sempre, una non-cultura, a meno che non ci si rassegni a sostenere che, pur di rimpiazzare un mondo in cui il sapere è appannaggio di pochi, è preferibile che nessuno sappia niente.
La televisione non è un male di per sé. Molti sostengono, per esempio, che il capire per concetti e il capire per immagini si possano perfettamente integrare. E avrebbero anche ragione, se non fosse che la televisione riduce tutto a spettacolo, emargina – per non dire sopprime – la cultura e, dati alla mano, sottrae tempo alla lettura. Oggi poi abbiamo anche Internet, che in teoria potrebbe promuovere crescita culturale, ma in pratica favorisce l'intorpidimento cognitivo, dal momento che «l'homo videns è già tale quando si imbatte nella rete» e, navigando, è facilmente attratto da contenuti frivoli. Se quindi alle ventiquattro ore di una giornata se ne sottraggono, mediamente, sette per dormire, dieci di lavoro (spostamenti compresi) e due per mangiare e lavarsi, restano solo cinque ore libere, per lo più impiegate per rimbambirsi davanti a uno schermo. Risultato: i libri nessuno più li compra, né tantomeno li legge.
Il problema principale della televisione è dunque che essa o intrattiene (coltivando l'homo ludens) o informa (male) senza diffondere alcuna conoscenza. E siccome è evidente che «il popolo sovrano "opina" soprattutto in funzione di come la televisione lo induce a opinare», ne consegue che la stessa politica non può assolutamente prescindere dalla comunicazione di tipo televisivo. Ma se la democrazia si basa sull'opinione dei governati, allora – puntualizza Sartori – il punto è stabilire come si forma l'opinione pubblica. Ed è fin troppo chiaro che la televisione sta imponendo una rigida videocrazia, nella quale essa compromette la capacità del pubblico di maturare opinioni che non siano etero-dirette facendosi di fatto «portavoce di una pubblica opinione che è in realtà l'eco di ritorno della propria voce».
Lo spettatore poco accorto difficilmente può opporsi all'ondata di banalità che, dallo schermo, si riversa impetuosa nella sua mente apatica di homo videns. La televisione manipola l'opinione pubblica diffondendo l'illusione che essa sia rappresentata dai sondaggi, che in realtà – oltre a essere chiaramente influenzati dal modo in cui viene posta la domanda agli intervistati – non sono altro che spazzatura, dal momento che mai viene accertata la competenza della persona interpellata, nemmeno per quanto attiene all'oggetto della domanda. Far passare come vox populi l'opinione strampalata di un «chiunque sia» contribuisce solo ad estendere il piattume culturale. Invece di inculcare nelle persone l'idea che sarebbe opportuno documentarsi prima di esprimersi su un qualunque argomento, la televisione sondaggio-dipendente lancia il messaggio che non solo è un diritto, ma è un bene che chiunque dica senza remore ciò che vuole su tutto ciò che vuole. Anche se è poco più di un analfabeta.
Il primato indiscusso dell'immagine sulla parola provoca inoltre alcuni effetti collaterali che interessano il processo di informazione dei cittadini. Un'informazione non «video-degna» viene inesorabilmente scartata: senza immagini non c'è notizia. I telegiornali privilegiano le notizie che consentano di inviare una troupe televisiva, favorendo un assurdo localismo e discriminando tutto ciò che non può essere reso con immagini. Possibile che i TG di oggi in tutto il mondo non trovino notizie più importanti delle tresche amorose di una valletta o di una casalinga che cucina una torta? L'immagine è diventata cioè un tiranno, che impone ad ogni costo di far vedere qualcosa. Il caso limite, al riguardo, è costituito dalle notizie di cronaca nera: che senso ha inviare una troupe televisiva a riprendere, a seconda dei casi, un parco, una casa, una scuola dove è avvenuto un delitto? Non sarebbe più semplice – ammesso che sia utile bombardare i telespettatori con servizi-show di questo tipo – leggere la notizia in studio?
Ma la sotto-informazione non è che uno dei problemi. La cultura televisiva è responsabile del disinteresse che spinge milioni di persone a ignorare i fatti veramente importanti che riguardano la collettività. Non è, infatti, una mera questione di gusti, nel senso che se la televisione è quasi tutta scadente è inevitabile che il pubblico si appassioni a programmi scadenti. Spesso poi la televisione non solo informa poco o nulla, ma informa male, cioè disinforma. Per un politico dire una balla colossale davanti a una telecamera, e magari ripeterla all'infinito per convincere i più polli che si tratti di cosa vera, è ormai diventato estremamente più conveniente che parlare di cose serie in un libro. L'importante è apparire, anche a costo di fare la figura dello scemo. Tanto il telespettatore è pigro, non ha la voglia e nemmeno la capacità di indagare per discernere il falso dal vero; e finisce, il più delle volte, per sostenere un volto rassicurante o premiare una persona simpatica, che «buca lo schermo». Quasi sempre, infine, il successo è garantito dall'eccentricità, dall'aggressività, poiché tutto in televisione è spettacolarizzato e deve risultare eccitante.
La conclusione di Sartori è allarmante: a suo parere il «proletariato del pensiero [...] ha penetrato man mano la scuola, ha rotto gli argini con la "rivoluzione culturale" del 1968 [...] e ha trovato il suo terreno di cultura ideale nella rivoluzione mass-mediale». Quello che ci resta, oggi, dopo decenni di stordimento mediatico non è altro che un «pensiero brodaglia», conseguenza inevitabile di «un clima culturale di melassa mentale» strenuamente difeso da «crescenti armate di azzerati mentali». Com'è possibile che un paese come l'Italia, che dovrebbe vivere di cultura, accetti supinamente una vergogna simile?

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venerdì 10 gennaio 2014

Il «colpo di genio del cristianesimo»: la visione ottimistica del futuro alla prova del nichilismo

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 gennaio 2014)
 
I Greci avevano un'idea precisa di quale fosse l'essenza della natura: una realtà immutabile – è quanto sostiene Eraclito – che «nessun uomo e nessun dio fece, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa secondo misure e si spegne secondo misure».
Una visione del mondo di questo genere è ovviamente incompatibile con qualsiasi progetto che preveda forme di dominio dell'uomo sulla natura. Il cosmo, per i Greci, è perfettamente ordinato in sé, non una creazione di un dio preesistente. E l'uomo non vi trova posto che come parte, costretta ad adeguarsi all'ordine di un Tutto che ha necessariamente la precedenza sui suoi singoli componenti. Platone, al riguardo, è chiarissimo: «Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell'universa armonia. Non per te, infatti, questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica».
In quanto parte di un Tutto che impone le proprie leggi, l'uomo segue il ciclo naturale che, dalla nascita, conduce inevitabilmente alla morte. Per i Greci l'uomo è, essenzialmente, colui che è destinato a perire. La stessa lingua ne è una prova: più che ánthropos, per nominare l'uomo i Greci preferivano, al tempo di Omero, il termine brotós (colui, appunto, che è destinato a morire) e, al tempo di Platone, il termine thnetós (mortale).
Se quindi la natura non è il prodotto della provvidenza divina, bensì – precisa Umberto Galimberti nel libro Cristianesimo (Feltrinelli 2012) – «ciclo che governa il generarsi e il dissolversi di tutte le vite», ne consegue che la morte dei singoli diviene una componente necessaria della vita del Tutto, che continuamente si rigenera. Il dolore, in altre parole, non ha – contrariamente a quanto avviene nella tradizione giudaico-cristiana – alcun senso, ma è una componente intrinseca alla vita stessa, condizione imprescindibile del suo divenire. Nietzsche ritiene che questa sia l'essenza del tragico, che i Greci – essi soli – hanno saputo cogliere alla perfezione: la loro grandezza, scrive, consiste proprio nell'aver avuto il coraggio di «guardare in faccia il dolore e di conoscere e sentire i terrori e le atrocità dell'esistenza».
La caducità dell'esistenza individuale rispetto all'eterna circolarità di vita e morte spinse ad ogni modo i Greci a rifugiarsi nell'illusione eternizzante delle divinità dell'Olimpo. Ma, per poter meglio sopportare la consapevolezza di una fine inevitabile, ci voleva qualcosa di più solido rispetto a quello che Nietzsche definisce «specchio trasfiguratore». E i Greci l'individuarono nella ragione, intesa non come rivendicazione di un assurdo diritto di preminenza del singolo sul Tutto, bensì come atto volto a rendere più sopportabile la consapevolezza della morte attraverso l'acquisizione di conoscenze che diano modo di procrastinarla o – per dirla con Ippocrate – di «evitarla quando è evitabile». La virtù, per i Greci, è la capacità di vivere accettando le avversità e tentando di contrastarle con la conoscenza. Il tutto senza mai oltrepassare la giusta misura, poiché l'uomo che oltrepassa i propri limiti va incontro alla fine. A questo, del resto, servivano gli dei, ad indicare un limite. È quanto intende anche Dante nei celebri versi del XXVI canto dell'Inferno: «Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Si tratta, scrive Galimberti, dell'«essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità perché sarebbe tracotanza [...], ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte».
Nella riflessione nietzschana, l'avvento del cristianesimo va collocato nel vuoto lasciato dalla morte della visione tragica dell'esistenza. Il cristianesimo ha rotto, cioè, il nesso bontà-crudeltà insito nella natura di matrice greca, poiché, secondo la sua visione del mondo, se da un lato la natura è buona in quanto creatura divina, dall'altro l'uomo eredita la crudeltà come conseguenza della colpa del peccato originale. Attribuendo al dolore il preciso significato dell'espiazione, il cristianesimo ha di fatto decretato la morte della tragedia, creando un nuovo, rivoluzionario nesso tra sofferenza e speranza (che si traduce nella certezza della salvezza). Il concetto è chiaramente spiegato da Karl Jaspers: «La redenzione cristiana si oppone alla coscienza tragica. La possibilità che ha il singolo di salvarsi distrugge il senso tragico di una rovina senza scampo. Ecco perché non esiste una vera e propria tragedia cristiana, perché nel dramma cristiano il mistero della redenzione costituisce la base e l'atmosfera dell'azione, e la coscienza tragica è risolta a priori nella certezza di poter raggiungere la perfezione e la salvezza attraverso la grazia».
Se quindi la sofferenza deriva dalla colpa, ne consegue che, di per sé, essa non permea l'essenza della vita, dal momento che della vera vita non fa parte il dolore. Il cristianesimo considera l'esperienza terrena come una fase transeunte, un transito da cui accedere alla futura liberazione, tant'è che Agostino afferma che «chi ama il mondo non conosce Dio». Il dolore, in altre parole, perde la sua intrinseca componente tragica e diviene una caparra per l'aldilà, una garanzia di salvezza. L'etica stoica del substine et abstine (cioè sopportazione delle avversità e astensione da ciò che non si può controllare) cede il passo all'amore del dolore, anticamera dell'espiazione. Il Greco regge il dolore, il cristiano lo ama poiché gli conferisce un senso come pegno di redenzione.
Per il cristiano la vera vita non è quella terrena, ma quella eterna, che ignora la sofferenza. Con il sacrificio e la risurrezione di Gesù, il cristianesimo sconfigge la morte, con la conseguenza che la storia passa dalle mani dell'uomo a quelle di Dio, verso il quale l'uomo contrae un debito infinito. È questo che Nietzsche considera il «colpo di genio del cristianesimo»: «Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell'uomo, Dio stesso che si ripaga su se stesso, Dio come l'unico che può riscattare l'uomo da ciò che per l'uomo stesso è divenuto irriscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore per amore (dobbiamo poi crederci?) per amore verso il suo debitore».
Se dunque dolore e morte sono innaturali, e quindi riscattabili con la redenzione, la promessa della salvezza diviene l'arma con la quale l'uomo ha prevalso sulla paura della propria fine, decretando la sconfitta della grecità. Di fronte alla promessa di un'esistenza ultraterrena, l'uomo Greco avrebbe reagito con divertito stupore. Del resto, quando Paolo parla di risurrezione all'Areopago, gli Ateniesi replicano: «Questa storia ce la vieni a raccontare un'altra volta».
L'uomo cristiano, invece, non crede che il dolore e la morte siano semplici leggi di natura: la prospettiva della salvezza gli consente infatti di riporre speranza e ottimismo nel futuro. La stessa concezione del tempo, da ciclica, diviene protesa verso l'avvenire di salvezza. Contrariamente ai Greci, per i quali il passato era l'età dell'oro, il cristianesimo introduce una visione tripartita del tempo che si ripercuote su ogni aspetto dell'esistenza. Al passato corrisponde il male del peccato originale; al presente la redenzione, che passa attraverso la comprensione della natura salvifica del dolore; al futuro, infine, la salvezza. Si tratta di una triade che interessa, per esempio, anche la scienza (passato-ignoranza, presente-ricerca, futuro-progresso) o la sociologia (passato-ingiustizia, presente-riforma o rivoluzione, futuro-giustizia sulla terra). Secondo questa prospettiva, tutto, in Occidente, è cristiano, poiché figlio di una concezione rigorosamente ottimistica del futuro. E quando la Chiesa chiede che siano riconosciute le radici cristiane dell'Europa, «questo riconoscimento – scrive Galimberti – andrebbe esteso all'intero Occidente, che di cristiano non ha solo le radici, ma il tronco, i rami, le foglie, i frutti».
Oggi, tuttavia, il mondo sta cambiando. Nietzsche, infatti, ci dice anche che «Dio è morto», non perché non esiste (altrimenti non sarebbe morto), ma nel senso che il mondo ha ormai deciso che può fare a meno di lui. Dire che Dio è morto significa altresì che prima era vivo. Nel Medioevo, per esempio, tutto accadeva in funzione di Dio, dalla politica all'arte; ma, domanda Galimberti, «se dal mondo contemporaneo togliessimo la parola "Dio" riusciremmo ancora a comprenderlo?». La risposta, evidentemente, è sì, mentre se togliessimo la parola «tecnica» o la parola «denaro», del mondo di oggi non capiremmo nulla.
Heidegger ha così commentato l'intuizione di Nietzsche: «La morte di Dio esprime il tramonto della dimensione metafisica che, a partire da Platone, pensa Dio, l'Iperuranio, il Sovrasensibile come "causa suprema", come "spiegazione" e "fondamento" delle cose sensibili, verso cui è protesa la volontà di potenza dell'uomo». Non solo, quindi, il Dio cristiano è morto: anche quello rappresentato dal Sole nel mito della caverna di Platone ha abbandonato l'uomo, che ha perso con esso ogni suo punto di riferimento. Il risultato, per Nietzsche, è «il nulla infinito». In una parola, quel nichilismo che egli definisce con poche incisive parole: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al "perché?". Che significa nichilismo? – che i valori supremi perdono valore». E non vengono rimpiazzati.

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«La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni»: le radici dell’individualismo occidentale

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 dicembre 2013)
 
Pronunciato all'Athénée Royal di Parigi nel 1819, il Discorso sulla libertà degli antichi, paragonata alla libertà dei moderni costituisce oramai, oltre che il testo più noto di Benjamin Constant, un grande classico del pensiero politico di età contemporanea.
Oggi siamo portati a considerare la libertà un diritto – chiaramente – inalienabile; chiunque, a parole, non tollererebbe alcuna limitazione di quello che è comunemente considerato in assoluto il bene più prezioso. Tuttavia alla domanda «Che cos'è la libertà?» non è per niente facile rispondere. Di solito si ripete, a mo' di filastrocca, che la libertà di ogni membro di una comunità si estende fino al limite superato il quale si compromette la libertà di un altro individuo. Ma è sufficiente una spiegazione di questo genere? In concreto, quand'è che un cittadino può considerarsi libero? La riflessione di Constant consente al riguardo di fare un po' di chiarezza: capire cosa è logico aspettarsi dalla libertà (intesa ovviamente secondo l'accezione politica del termine, essendo di per sé il concetto di libertà intrinsecamente polivalente) rappresenta del resto il presupposto indispensabile di quell'opera di vigilanza sui pubblici poteri che spetta di diritto alla comunità dei cittadini, rispetto alla quale lo Stato deve (o meglio dovrebbe, visti i tempi che corrono) comportarsi da servo e non da padrone.
Nel suo discorso, Constant distingue due forme diametralmente opposte di libertà, che non vanno assolutamente confuse tra loro: quella degli antichi e quella dei moderni. Quest'ultima è basata essenzialmente sul governo rappresentativo, «il solo al cui riparo ci sia oggi possibile trovare un po' di libertà». Contrariamente a quanto più volte sostenuto da osservatori superficiali, il governo rappresentativo è una peculiarità delle società contemporanee. Esso era infatti sconosciuto agli antichi, e chi ritenesse di trovarne significative anticipazioni nell'eforato di Sparta – la magistratura che limitava il potere dei re –, nel guerriero «regime dei galli» o nel tribunato romano si scontrerebbe inevitabilmente con l'obiezione che, nei primi due casi, il popolo era oppresso da un'oligarchia, mentre nel terzo era tutt'al più gratificato da «deboli vestigia del sistema rappresentativo».
Gli antichi, infatti, non avrebbero nemmeno saputo apprezzare i vantaggi di un sistema rappresentativo. La loro libertà era il frutto di un esercizio collettivo e diretto della sovranità, consistente nella gestione dello Stato attraverso deliberazioni inerenti alla pace o alla guerra, ai trattati di alleanza, alle leggi e ai giudizi. Le società antiche valorizzavano il singolo solo come componente di una comunità: nulla – precisa Constant – era «concesso all'indipendenza individuale rispetto alle opinioni, né rispetto all'occupazione, né soprattutto rispetto alla religione». La dimensione collettiva, in altre parole, pervadeva quella del singolo, con la conseguenza che un individuo poteva ritenersi libero solo se coinvolto nella vita pubblica dello Stato e riconosciuto come parte di un insieme.
Con tutta evidenza, nessun uomo moderno descriverebbe la libertà in questi termini. Già all'epoca di Constant – e ancor più ai giorni nostri – la libertà era associata non al coinvolgimento individuale nella vita dello Stato, bensì, al contrario, alla tutela dell'indipendenza privata potenzialmente minacciata dall'invadenza dello Stato. Il moderno cittadino pretende quindi di essere subordinato esclusivamente alle leggi, di esprimere la propria opinione, di disporre dei beni di sua proprietà, di muoversi senza vincoli, di potersi riunire in associazioni, di professare la propria religione e, infine, di esercitare influenza sul governo sia eleggendone i membri, sia condizionandone l'operato, eventualmente, con richieste o rimostranze. Come è facile intuire, la libertà dei moderni ha una prevalente connotazione negativa (che proibisce, cioè, di violare i diritti del singolo e frena l'invadenza dello Stato), nettamente dominante rispetto a quella positiva (che consente di intervenire nella vita pubblica). La conseguenza, rileva Constant, è che nelle società moderne «l'individuo, indipendente nella vita privata, [...] non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è ristretta, quasi sempre sospesa; e se, ad epoche fisse, ma rare, [...] esercita tale sovranità, è sempre per abdicarvi».
In questa considerazione, ovviamente, va tenuto conto delle mutate dimensioni degli Stati, i quali in età antica erano così frammentati da richiedere il costante impegno militare dei cittadini. La guerra – che va intesa, rispetto al commercio, come un diverso mezzo per raggiungere il medesimo scopo, ovvero accaparrarsi ciò di cui si ha bisogno – comportava infatti la necessità di servirsi di cittadini in armi, i quali ottenevano appunto lo status di cittadino in cambio del servizio militare. La libertà politica loro concessa era dunque un diritto accordato solo previo adempimento del dovere di soldato, il che a sua volta rendeva necessario che «le professioni meccaniche» non potessero prescindere dall'apporto di manodopera schiavile. Ebbene oggi, in un mondo che ha compreso i vantaggi economici del commercio rispetto alla guerra, la libertà è prima di tutto un diritto, che va garantito anche a chi non ha nulla da offrire in cambio e che, invece, nell'antichità non poteva dirsi completamente tutelato nemmeno ad Atene – la più "moderna" delle poleis greche –, dove vigeva la severa pratica dell'ostracismo.
A parere di Constant è proprio la mentalità commerciale ad ispirare «agli uomini un vivo amore per l'indipendenza individuale». Grazie agli scambi, infatti, il singolo è perfettamente in grado di soddisfare i propri bisogni senza dover ricorrere all'autorità; anzi, non solo provvede autonomamente a se stesso, ma si mostra insofferente rispetto alle intromissioni nella sua sfera privata del potere collettivo. Persino l'esercizio dei diritti politici, che per gli uomini liberi dell'antichità costituiva un prolungato «riempitivo obbligato», rappresenta il più delle volte un fastidio per l'uomo moderno, il quale, «occupato dalle sue speculazioni, dalle sue iniziative, dai godimenti che ottiene o che spera, non vuole esserne distolto che per un momento e il meno possibile».
La partecipazione quotidiana alla gestione della cosa pubblica, per ottenere la quale gli antichi erano disposti a sacrificare porzioni significative di libertà individuale, non è più la massima aspirazione del singolo. Per questo i moderni hanno introdotto il sistema rappresentativo: poiché, al pari degli uomini ricchi che si dotano di intendenti per la cura dei propri affari, essi delegano a governanti eletti la cura degli affari di Stato, dal momento che il popolo «vuole che i suoi interessi siano difesi e tuttavia non ha il tempo di difenderli sempre in prima persona». Il che, sia chiaro, non implica affatto che i cittadini debbano completamente trascurare la vita pubblica. La libertà politica, infatti, richiede un'attenta opera di sorveglianza sui rappresentanti – chiamati a rendere conto del loro operato – ed è la suprema garanzia della libertà individuale, universalmente considerata la più preziosa.
L'errore più grave che la società moderna possa commettere è pertanto quello di ritenere adatta a sé la libertà degli antichi, estendendo a dismisura – sulla scia di quanto ingenuamente affermato da autori come Rousseau e l'abate di Mably – il raggio d'azione del potere pubblico a scapito dell'indipendenza dei singoli. Pretendere, come accadde durante la Rivoluzione francese, che la legge vincoli l'agire dell'uomo «senza tregua e senza lasciargli un asilo dove [possa] sfuggire al suo potere», conduce inevitabilmente una società al dispotismo. Il modello della Roma repubblicana (con i censori preposti al controllo dei costumi), o di Sparta, massimo esempio di asservimento dell'individuo al volere della collettività, non è più applicabile nel mondo moderno. Sacrificare la libertà individuale in cambio del diritto a partecipare alla vita pubblica equivarrebbe infatti a rinunciare al «più per ottenere il meno». Nella società contemporanea, conclude Constant, «sarebbe [...] più facile fare un popolo di spartani da un popolo di schiavi, che formare degli spartani attraverso la libertà».

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