(articolo apparso su Prima Pagina del 15 marzo 2015)
Fernando Losavio è certamente un autore non troppo noto
al grande pubblico. Di padre pugliese e di madre lombarda, nasce il 22 maggio
1896 a Milano e si laurea a Pavia nel 1919 con una tesi sul movimento
artistico-letterario della Scapigliatura. Divenuto insegnante, nel 1924 ottiene
una cattedra di Lettere presso il Liceo Scientifico Alessandro Tassoni di Modena,
capoluogo nel quale si stabilisce definitivamente (e dove sposa nel 1930 Elvira
Sabbatini) sino alla morte, sopraggiunta il 2 febbraio 1979.
Losavio è essenzialmente un poeta con la passione per la
critica: ama cioè la composizione in versi (in tutto, tra il 1932 e il 1965
pubblica ben sette raccolte di poesie), ma firma anche numerosi articoli e
recensioni – nei quali dà prova di acume e originalità –, oltre a tenere una
fitta corrispondenza con esponenti di spicco del mondo della cultura. Egli è
quindi, a tutti gli effetti, un intellettuale poliedrico, dai mille interessi,
capace di suggerire diversi spunti di riflessione.
Al riguardo, è senz’altro meritorio un recente volume
intitolato Le voci della poesia. Versi e
pagine critiche (a cura di Jean Robaey, Edizioni Artestampa 2014), che – si
legge sulla quarta di copertina – «ospita una larga scelta, in parte inedita,
di poesie, interventi critici, prose e lettere di Fernando Losavio». Si tratta
di una raccolta che intende sostanzialmente presentare il curriculum letterario di un autore di cui – è facile presumere – i
più conoscono a malapena il nome. Non siamo quindi di fronte ad un percorso
lineare: dalle pagine curate da Robaey emerge infatti un Losavio dai mille
volti, che alterna componimenti in versi, riflessioni su Dante, Foscolo e
Pascoli, ricordi e brevi prose contenenti dichiarazioni di poetica.
Conviene ora passare alla lettura di qualche pagina. Ed
essendo Losavio principalmente un poeta, pare logico partire da una poesia. A
modesto parere di chi scrive, uno dei componimenti più riusciti è Morte in vita: «Due volte io dovrò
morire. / La prima volta, quando / si spegneranno i canti entro di me; / la
seconda col rantolo e coi moti / delle mani a respingere la coltre. / Tra due
morti sarà la morte in vita».
La poesia è chiaramente divisibile in due parti. Alla
premessa (nella quale l’autore precisa cosa intenda per doppia morte: in un
caso la fine dell’ispirazione poetica, nell’altro la fine della vita) segue una
conclusione di non immediata lettura. Cosa vuole dire, infatti, Losavio, quando
scrive che «Tra due morti sarà la morte in vita»? Le interpretazioni possibili
sono molteplici. La più ovvia suggerisce che un’esistenza priva di poesia sarebbe
del tutto mortificante, al pari di una vita che non merita di essere vissuta.
Ma c’è dell’altro. Losavio si dice infatti certo della fine – non si sa quanto
prossima – della propria ispirazione poetica: «dovrò morire», non ci sono cioè
speranze di evitare questo destino. Il che equivale, in sostanza, a dire che si
vive poeti (anche perché, verrebbe da aggiungere, la poesia aiuta a vivere
meglio) e si muore uomini, senza possibilità di scorgere nel momento estremo
altro che non sia un senso di vuoto (il nulla?).
Losavio, a ben vedere, sta parlando
anche della sua solitudine, giacché la morte è l’esperienza più individuale che
si possa contemplare. Dinanzi al baratro della fine, l’uomo è solo con se
stesso (al riguardo, si legga questo brevissimo componimento, intitolato Or m’è caduto: «Sul ciglio d’un burrone
son vissuto; / le lusinghe del cielo e della terra / accogliendo nell’anima
sognante. / Or m’è caduto l’occhio sul burrone»). Nulla di strano, perciò, se
la poesia – che è prima di tutto sentimento – coincide con un impietoso sguardo
interiore che va alla ricerca di ciò che è fonte di turbamento e mette a nudo
ogni umana fragilità.
Si consideri un’altra poesia (Vicino): «Ho conosciuto un uomo, / che
usciva – falce in pugno – nella notte, / nel più bel lume di luna sul mondo / e
raggiungeva il campo tutto solo. / Poi, chinato sul folto delle spighe, /
aggrediva muraglia delle spighe / e falciava falciava tutto solo / nel più bel
lume di luna sul mondo. / Per risparmiare sulla mano d’opera / si dannava al
lavoro. / E rientrava in casa a notte fonda, / prostrato – e nell’anima e nel
corpo. / Chi risolleva quel fantasma in me? / Stanchezza va a la cerca di
stanchezza. / Dolore chiama dolore. / Solitudine invoca solitudine. / Io mi
sento vicino / al mio massaro / che falcia nella notte».
C’è un forte senso di spossatezza in
questi versi. Il poeta si paragona al massaro che di notte «si dannava al
lavoro», e avverte su di sé il peso di un’esistenza che tende a farsi sempre
più ingombrante, faticosa. Stanchezza, solitudine e dolore: tre parole per
esprimere la frustrazione che scaturisce dalla ripetizione meccanica di gesti
ordinari, perché la vita spesso si riduce a questo, alla costante e snervante
riproposizione di gesti rituali, di per sé insignificanti. Come un massaro che
nella notte, solo, aggredisce ripetutamente «la muraglia delle spighe» e prima
o poi sarà sopraffatto dal proprio lavoro, così il poeta è consapevole che
anche il mestiere di scrivere potrà diventare, un giorno, alienante. Forse
egli, in questi versi, realizza di aver scritto troppo, di avere ceduto incondizionatamente
al desiderio di riempire pagine su pagine, di non essere stato in grado di
porsi un limite. E si sente inevitabilmente oppresso dal suo mondo interiore,
che sta fagocitando quello esteriore.
La poesia appena letta consente di
porre l’accento su una peculiarità piuttosto evidente dell’opera di Losavio: i
suoi componimenti tendono cioè a concludersi con uno o più versi che rompono
l’armonia e la linearità di quelli precedenti. La poesia segue un percorso
perfettamente razionale, ma poi termina in modo brusco, come se volesse colpire
il lettore con una sferzata. «Io mi sento vicino / al mio massaro / che falcia
nella notte»: sono i tre versi decisivi, che danno il senso dell’intero
componimento; ma sono anche quelli più ostici, difficili da decifrare. Sembra
quasi che Losavio non voglia dare sicuri punti di riferimento. E probabilmente
è proprio così, come risulta dalla lettura di un passo critico (riguardante i Sepolcri del Foscolo), nel quale egli
sostiene che «una poesia che è compresa da molti, che è compresa da tutti, alla
fin fine poesia non può essere».
La poesia, in altre parole, non deve
fare troppe concessioni all’oratoria (che abbonda, invece, nei Sepolcri, giudicati per questo da
Losavio «un’opera [non] di alta poesia»), e – paradossalmente – se vuole essere
poesia di qualcosa, se vuole comunicare, deve confondere, porre interrogativi,
lasciare dei dubbi. Il che, si badi, non significa abbandonarsi all’irrazionale
– giacché la poesia, al contrario, è profonda riflessione –, bensì accettare la
sfida di provare a cogliere tutti i possibili significati che si celano dietro
un verso. Losavio, del resto, è convinto che la poesia sia «estatica contemplazione
estranea ai fanciulli, i quali sono dotati di immaginazione, che è facoltà
inventiva, e non di fantasia che è facoltà creativa». La poesia, dunque, è
destinata alle menti che accettano di mettersi in gioco, a coloro che non hanno
certezze e che sono consapevoli che «la fantasia non è dei fanciulli, è delle
persone adulte».
Solo in questo modo, a ben vedere, la
poesia acquista una sua indipendenza rispetto all’autore. Un verso ben scritto,
capace di stimolare, emozionare o provocare, resiste a tutto, alla morte dello
scrittore, ai cambiamenti sociali e alle mode. Losavio esprime questo concetto
in due brevi componimenti, intitolati rispettivamente Di non so dove («I canti degli uccelli / son voci scorporate, /
balenanti ne l’aria / di non so dove giunti. / Così vorrei che fossero / i miei
canti. La mia / persona dileguata; / solo insistente il canto / di non so dove
sorto») e Godo («Godo che l’arte mia
/ si faccia sempre più – / – squallida e sola»). Il senso di queste parole è
chiaro: come precisa in una prosa a proposito di Leopardi, per Losavio «il
poeta è tutto nel suo canto». Nulla ha valore al di fuori del verso, il quale –
al pari del canto di un uccello – deve provenire da un soggetto che non si
mostra, che si eclissa per lasciar posto alla sola sua voce.
Con tutta evidenza, siamo di fronte
ad una ben precisa e impegnativa dichiarazione di poetica. Dichiarazione che è
precisata da queste significative parole: «Io ho sempre considerato fortunatissimi
quei poeti della cui vita non si sa nulla, assolutamente nulla, e fortunato in
modo particolare Omero, di cui si può mettere in dubbio perfino l’esistenza, ma
non quella dei due poemi attribuitigli». Losavio è quindi sostanzialmente un
integralista della poesia, per il quale il mondo che sta alle spalle del verso è
destinato inesorabilmente a dissolversi. La poesia, e solo la poesia, è per lui
la più autentica forma d’arte che possa prendere consistenza su una pagina.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi