mercoledì 25 marzo 2015

Fernando Losavio: intellettuale poliedrico, integralista della poesia

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 marzo 2015)

Fernando Losavio è certamente un autore non troppo noto al grande pubblico. Di padre pugliese e di madre lombarda, nasce il 22 maggio 1896 a Milano e si laurea a Pavia nel 1919 con una tesi sul movimento artistico-letterario della Scapigliatura. Divenuto insegnante, nel 1924 ottiene una cattedra di Lettere presso il Liceo Scientifico Alessandro Tassoni di Modena, capoluogo nel quale si stabilisce definitivamente (e dove sposa nel 1930 Elvira Sabbatini) sino alla morte, sopraggiunta il 2 febbraio 1979.
Losavio è essenzialmente un poeta con la passione per la critica: ama cioè la composizione in versi (in tutto, tra il 1932 e il 1965 pubblica ben sette raccolte di poesie), ma firma anche numerosi articoli e recensioni – nei quali dà prova di acume e originalità –, oltre a tenere una fitta corrispondenza con esponenti di spicco del mondo della cultura. Egli è quindi, a tutti gli effetti, un intellettuale poliedrico, dai mille interessi, capace di suggerire diversi spunti di riflessione.
Al riguardo, è senz’altro meritorio un recente volume intitolato Le voci della poesia. Versi e pagine critiche (a cura di Jean Robaey, Edizioni Artestampa 2014), che – si legge sulla quarta di copertina – «ospita una larga scelta, in parte inedita, di poesie, interventi critici, prose e lettere di Fernando Losavio». Si tratta di una raccolta che intende sostanzialmente presentare il curriculum letterario di un autore di cui – è facile presumere – i più conoscono a malapena il nome. Non siamo quindi di fronte ad un percorso lineare: dalle pagine curate da Robaey emerge infatti un Losavio dai mille volti, che alterna componimenti in versi, riflessioni su Dante, Foscolo e Pascoli, ricordi e brevi prose contenenti dichiarazioni di poetica.
Conviene ora passare alla lettura di qualche pagina. Ed essendo Losavio principalmente un poeta, pare logico partire da una poesia. A modesto parere di chi scrive, uno dei componimenti più riusciti è Morte in vita: «Due volte io dovrò morire. / La prima volta, quando / si spegneranno i canti entro di me; / la seconda col rantolo e coi moti / delle mani a respingere la coltre. / Tra due morti sarà la morte in vita».
La poesia è chiaramente divisibile in due parti. Alla premessa (nella quale l’autore precisa cosa intenda per doppia morte: in un caso la fine dell’ispirazione poetica, nell’altro la fine della vita) segue una conclusione di non immediata lettura. Cosa vuole dire, infatti, Losavio, quando scrive che «Tra due morti sarà la morte in vita»? Le interpretazioni possibili sono molteplici. La più ovvia suggerisce che un’esistenza priva di poesia sarebbe del tutto mortificante, al pari di una vita che non merita di essere vissuta. Ma c’è dell’altro. Losavio si dice infatti certo della fine – non si sa quanto prossima – della propria ispirazione poetica: «dovrò morire», non ci sono cioè speranze di evitare questo destino. Il che equivale, in sostanza, a dire che si vive poeti (anche perché, verrebbe da aggiungere, la poesia aiuta a vivere meglio) e si muore uomini, senza possibilità di scorgere nel momento estremo altro che non sia un senso di vuoto (il nulla?).
Losavio, a ben vedere, sta parlando anche della sua solitudine, giacché la morte è l’esperienza più individuale che si possa contemplare. Dinanzi al baratro della fine, l’uomo è solo con se stesso (al riguardo, si legga questo brevissimo componimento, intitolato Or m’è caduto: «Sul ciglio d’un burrone son vissuto; / le lusinghe del cielo e della terra / accogliendo nell’anima sognante. / Or m’è caduto l’occhio sul burrone»). Nulla di strano, perciò, se la poesia – che è prima di tutto sentimento – coincide con un impietoso sguardo interiore che va alla ricerca di ciò che è fonte di turbamento e mette a nudo ogni umana fragilità.
Si consideri un’altra poesia (Vicino): «Ho conosciuto un uomo, / che usciva – falce in pugno – nella notte, / nel più bel lume di luna sul mondo / e raggiungeva il campo tutto solo. / Poi, chinato sul folto delle spighe, / aggrediva muraglia delle spighe / e falciava falciava tutto solo / nel più bel lume di luna sul mondo. / Per risparmiare sulla mano d’opera / si dannava al lavoro. / E rientrava in casa a notte fonda, / prostrato – e nell’anima e nel corpo. / Chi risolleva quel fantasma in me? / Stanchezza va a la cerca di stanchezza. / Dolore chiama dolore. / Solitudine invoca solitudine. / Io mi sento vicino / al mio massaro / che falcia nella notte».
C’è un forte senso di spossatezza in questi versi. Il poeta si paragona al massaro che di notte «si dannava al lavoro», e avverte su di sé il peso di un’esistenza che tende a farsi sempre più ingombrante, faticosa. Stanchezza, solitudine e dolore: tre parole per esprimere la frustrazione che scaturisce dalla ripetizione meccanica di gesti ordinari, perché la vita spesso si riduce a questo, alla costante e snervante riproposizione di gesti rituali, di per sé insignificanti. Come un massaro che nella notte, solo, aggredisce ripetutamente «la muraglia delle spighe» e prima o poi sarà sopraffatto dal proprio lavoro, così il poeta è consapevole che anche il mestiere di scrivere potrà diventare, un giorno, alienante. Forse egli, in questi versi, realizza di aver scritto troppo, di avere ceduto incondizionatamente al desiderio di riempire pagine su pagine, di non essere stato in grado di porsi un limite. E si sente inevitabilmente oppresso dal suo mondo interiore, che sta fagocitando quello esteriore.
La poesia appena letta consente di porre l’accento su una peculiarità piuttosto evidente dell’opera di Losavio: i suoi componimenti tendono cioè a concludersi con uno o più versi che rompono l’armonia e la linearità di quelli precedenti. La poesia segue un percorso perfettamente razionale, ma poi termina in modo brusco, come se volesse colpire il lettore con una sferzata. «Io mi sento vicino / al mio massaro / che falcia nella notte»: sono i tre versi decisivi, che danno il senso dell’intero componimento; ma sono anche quelli più ostici, difficili da decifrare. Sembra quasi che Losavio non voglia dare sicuri punti di riferimento. E probabilmente è proprio così, come risulta dalla lettura di un passo critico (riguardante i Sepolcri del Foscolo), nel quale egli sostiene che «una poesia che è compresa da molti, che è compresa da tutti, alla fin fine poesia non può essere».
La poesia, in altre parole, non deve fare troppe concessioni all’oratoria (che abbonda, invece, nei Sepolcri, giudicati per questo da Losavio «un’opera [non] di alta poesia»), e – paradossalmente – se vuole essere poesia di qualcosa, se vuole comunicare, deve confondere, porre interrogativi, lasciare dei dubbi. Il che, si badi, non significa abbandonarsi all’irrazionale – giacché la poesia, al contrario, è profonda riflessione –, bensì accettare la sfida di provare a cogliere tutti i possibili significati che si celano dietro un verso. Losavio, del resto, è convinto che la poesia sia «estatica contemplazione estranea ai fanciulli, i quali sono dotati di immaginazione, che è facoltà inventiva, e non di fantasia che è facoltà creativa». La poesia, dunque, è destinata alle menti che accettano di mettersi in gioco, a coloro che non hanno certezze e che sono consapevoli che «la fantasia non è dei fanciulli, è delle persone adulte».
Solo in questo modo, a ben vedere, la poesia acquista una sua indipendenza rispetto all’autore. Un verso ben scritto, capace di stimolare, emozionare o provocare, resiste a tutto, alla morte dello scrittore, ai cambiamenti sociali e alle mode. Losavio esprime questo concetto in due brevi componimenti, intitolati rispettivamente Di non so dove («I canti degli uccelli / son voci scorporate, / balenanti ne l’aria / di non so dove giunti. / Così vorrei che fossero / i miei canti. La mia / persona dileguata; / solo insistente il canto / di non so dove sorto») e Godo («Godo che l’arte mia / si faccia sempre più – / – squallida e sola»). Il senso di queste parole è chiaro: come precisa in una prosa a proposito di Leopardi, per Losavio «il poeta è tutto nel suo canto». Nulla ha valore al di fuori del verso, il quale – al pari del canto di un uccello – deve provenire da un soggetto che non si mostra, che si eclissa per lasciar posto alla sola sua voce.
Con tutta evidenza, siamo di fronte ad una ben precisa e impegnativa dichiarazione di poetica. Dichiarazione che è precisata da queste significative parole: «Io ho sempre considerato fortunatissimi quei poeti della cui vita non si sa nulla, assolutamente nulla, e fortunato in modo particolare Omero, di cui si può mettere in dubbio perfino l’esistenza, ma non quella dei due poemi attribuitigli». Losavio è quindi sostanzialmente un integralista della poesia, per il quale il mondo che sta alle spalle del verso è destinato inesorabilmente a dissolversi. La poesia, e solo la poesia, è per lui la più autentica forma d’arte che possa prendere consistenza su una pagina.

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lunedì 9 marzo 2015

«I morti»: l’effetto paralizzante delle convenzioni sociali e l’importanza di ragionare fuori dagli schemi

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 marzo 2015)

I morti è l’ultimo racconto di Gente di Dublino, celebre raccolta di novelle che James Joyce pubblicò nel 1914. Si tratta, in sostanza, della storia di un’epifania: ciò che dapprima appare reale, consolidato ed immutabile, viene stravolto da una sconcertante rivelazione, che schiude gli occhi – fino ad allora incapaci di vedere oltre le confortanti apparenze – dell’ignaro (e per certi versi colpevole) protagonista. Alla fine, nulla è come sembra, e l’irrompere improvviso della verità altro non è che il preludio a un implacabile destino di morte.
La vicenda si svolge nel corso delle feste natalizie: le sorelle Morkan (Julia e Kate), che vivono a Dublino in compagnia della nipote Mary Jane, hanno organizzato – come da tradizione – una sontuosa cena unita al consueto ballo annuale, invitando amici e parenti. Tra questi spicca Gabriel Conroy, altro nipote delle padrone di casa, accompagnato dalla moglie Gretta: egli è, di fatto, il protagonista della serata, cui spetta tra l’altro (oltre a quello di controllare che Freddie Malins, un invitato con il vizio del bere, non alzi troppo il gomito) il prestigioso compito di tagliare l’oca e di tenere il discorso conclusivo, di commiato e di ringraziamento.
Al suo arrivo, Gabriel è accolto da Lily, la figlia del custode: si tratta di una ragazza all’apparenza insignificante, eppure, nell’economia del racconto, svolge l’importante funzione di aprire simbolicamente le porte di un secondo mondo, diverso da quello di tutti i giorni e senza dubbio più minaccioso. Sin dalle prime pagine, infatti, è evidente il disagio di Gabriel, costretto ad avvertire se stesso come un estraneo, incapace di farsi coinvolgere dall’apparente spensieratezza della festa. A Lily, che gli dice di aver da poco terminato gli studi, egli domanda se si senta ormai prossima alle nozze; ma la ragazza lo spiazza («Gli uomini di adesso fanno tante promesse, ma mirano solo ad approfittarsene»), arrecandogli un profondo senso di tristezza, da cui non riuscirà più a liberarsi per tutto il resto della serata. Le parole della giovane – dure e inaspettate – fungono di fatto da anticipazione del drammatico epilogo, nel quale l’inadeguatezza di Gabriel (in primis come marito, ma in definitiva come persona) si manifesterà in modo altrettanto inatteso.
L’intero racconto, a ben vedere, si svolge secondo questo sottile gioco di rimandi e allusioni, al punto che quasi sempre la descrizione di alcuni vezzi del protagonista finisce per acquisire un preciso significato simbolico. In quest’ottica, Gabriel appare spesso come una sorta di pesce fuor d’acqua, il che è confermato anche dal suo bizzarro modo di vestire. «Non indovinereste mai cosa mi fa portare adesso!», protesta scherzosamente Gretta, parlando con le zie del marito: «Le galosce! […] Questa è la sua ultima trovata. Non appena c’è un po’ di bagnato per terra, mi obbliga a metterle. Anche stasera voleva che me le mettessi, ma io mi sono rifiutata. Scommetto che tra un po’ mi comprerà anche una tuta da palombaro».
Anche in quella che sembrerebbe una normale scaramuccia tra marito e moglie Joyce vuole seminare un indizio: tra i due, cioè, l’armonia è solo di facciata, giacché Gabriel e Gretta sono incapaci di comunicare tra loro, si comportano in tutto e per tutto come attori. La cena stessa, del resto, è una grande recita, nella quale ogni commensale deve attenersi alla sua parte, curandosi di non uscire dagli schemi dettati dalle rigide convenzioni sociali. Il ballo, il rito del taglio dell’oca, il discorso: tutto è studiato secondo un copione, all’interno del quale, però, riescono ad insinuarsi alcuni elementi di disturbo. Il più evidente è rappresentato senz’altro dall’ingombrante figura di Miss Ivors, una fervente nazionalista che prima critica aspramente Gabriel per il fatto che egli tenga una rubrica letteraria sul «Daily Express» (giornale filo-inglese), poi avventatamente propone a Gretta di unirsi a lei per un viaggio nelle isole Aran (luogo simbolo di “irlandesità”), creando un po’ di imbarazzo poiché, a fronte del favore che incontra presso la signora Conroy, la proposta non entusiasma affatto Gabriel, decisamente più attratto dall’Europa continentale.
Con tutta evidenza, in questa immagine dell’intellettuale che mal sopporta una certa mentalità – gretta, chiusa in se stessa, nazionalistica nel senso più banale e riduttivo del termine – largamente diffusa nel proprio paese c’è molto di Joyce, il quale intende appunto soffermarsi sul senso di fastidio che Gabriel avverte ogniqualvolta si trova costretto ad ammettere (prima di tutto a se stesso) la propria incompatibilità con il mondo che lo circonda. Il punto infatti è questo: in che misura una vita può dirsi autentica, se non è condivisa intimamente con nessuno? Gabriel ancora non si rende pienamente conto della profonda solitudine che lo attanaglia, e per questo – a dispetto dei continui segnali che riceve da più parti – ignora, o forse finge di non vedere, la drammatica insignificanza della sua esistenza.
Per il lettore, tuttavia, è tutto molto diverso, giacché nel corso del racconto i riferimenti al concetto della morte – preludio, s’intende, alla disgregazione dell’identità del protagonista – sono numerosi. Si pensi infatti al quadro raffigurante Romeo e Giulietta che adorna la parete sopra il pianoforte, oppure alla canzone Ornata per le nozze intonata dall’anziana zia Julia (immagine, questa, che alla fine della novella farà riflettere Gabriel, il quale, ripensando alla serata appena trascorsa, commenterà: «Povera zia Julia! Anche lei sarebbe presto diventata un’ombra»), o ancora alla rievocazione dei cantanti defunti: ogni singolo dettaglio sembra caricarsi di un significato che travalica il senso letterale della narrazione. Lo stesso discorso conclusivo di Gabriel (retorico ed incentrato sulla lode – scontata – dell’ospitalità delle padrone di casa) affronta, tra le altre cose, il tema della morte: «In riunioni come questa, ritornano sempre alla memoria anche i ricordi più tristi: ricordi del passato, della giovinezza, dei mutamenti e dei visi delle persone scomparse di cui sentiamo stasera la mancanza».
Giunto il momento dei saluti, Gabriel è come folgorato da una visione: Gretta si trova in cima alle scale, e pare rapita da una melodia che proviene dalla stanza del pianoforte, dove un ospite sta infatti intonando una vecchia canzone irlandese. «Vi era della grazia e del mistero in quel suo atteggiamento, come fosse un simbolo di qualcosa. E si domandò che simbolo poteva essere quello di una donna in piedi sulle scale in ombra, intenta ad ascoltare una musica lontana. Se fosse stato un pittore l’avrebbe ritratta in quella posizione».
Rientrati in albergo, però, i coniugi Conroy provano un forte senso di reciproco disagio. Gabriel desidererebbe la moglie, ma Gretta si tiene a distanza, e infine scoppia in lacrime. Non riesce a togliersi dalla mente la canzone che ha udito alla festa: una canzone (intitolata La fanciulla di Aughrim) che le ricorda un ragazzo conosciuto anni addietro, quando ancora era una ragazza e viveva con sua nonna a Galway. Alla rivelazione della moglie, Gabriel rimane impietrito, roso com’è dalla gelosia. Ma Gretta subito chiarisce: il ragazzo, di nome Michael Furey, è morto di malattia in giovane età, anche se la donna si sente responsabile della sua fine («Credo che sia morto per me»).
Gabriel, che si sente oramai sconfitto, vuole sapere di più. E la moglie lo accontenta, raccontando che la sera prima di partire per Dublino il ragazzo le aveva fatto visita pur essendo molto malato, sfidando la pioggia. «Lo implorai di tornare subito a casa e gli dissi che sarebbe morto con quella pioggia. Ma lui disse che non voleva più vivere. […] una settimana dopo il mio arrivo in collegio venni a sapere che era morto».
Terminato il drammatico sfogo, Gretta si addormenta, lasciando Gabriel solo con i suoi pensieri. Egli comprende che l’intera sua vita non è stata altro che un’illusione, una menzogna, una commedia nella quale nemmeno la moglie ha rinunciato a recitare la propria parte. Gabriel è cioè a tutti gli effetti un morto, un’identità che si è sgretolata per sempre. «E pian piano l’anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo e stancamente cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e tutti i morti».
Il paradosso, per Gabriel, è che agli occhi della moglie egli si scopre più morto di un defunto. Michael Furey, infatti, sopravvive poiché ha vissuto una vita autentica e ha saputo donare se stesso, condividendo i propri sentimenti con la persona che amava. Con tutta evidenza, quello di Joyce è un duro attacco alle convenzioni sociali, che rischiano di trascinare gli uomini in un mondo dominato dalle formalità, impalpabile come la neve che cade indistintamente sui vivi e sui morti. Quante volte, infatti, ci si sforza di assumere pose artefatte solo per assecondare un ben definito e preordinato modo di essere. Vale la pena vivere così? Chiudersi in se stessi e fingere di poter fare a meno della spontaneità, un po’ come accade quando si prende parte a una cena elegante? Gabriel, alla fine, è costretto ad ammettere che tutta la sua vita è stata un fallimento: egli si è sempre frenato (ed è significativo che tra i suoi compiti alla festa vi sia proprio quello di contenere l’esuberanza di Freddie Malins), non ha mai ragionato fuori dagli schemi. Ed è diventato una squallida marionetta.

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mercoledì 4 marzo 2015

«Il visconte dimezzato», l’illusione della completezza dell’animo umano

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° marzo 2015)

«Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra».
Con queste parole Italo Calvino presentava il suo romanzo a trent’anni di distanza dalla prima edizione: era infatti il 1983, e lo scrittore ligure rilasciava un’intervista nella quale intendeva fornire una chiave di lettura de Il visconte dimezzato, uscito presso Einaudi nel 1952 e nel frattempo divenuto celebre. In sostanza, Calvino è affascinato dal tema del doppio, dall’idea cioè – che si lega a una ben delineata tradizione letteraria, facente capo per lo più a Lo strano caso del dr. Jekyll e di Mr. Hyde di Stevenson – che in ogni uomo coesistano due nature, tra loro antitetiche ma imprescindibili l’una per l’altra. Il romanzo, però, non è una trattazione scientifica, e quindi occorre tenere ben presenti le legittime aspettative del lettore, che desidera “divertirsi” pagina dopo pagina, a prescindere dal significato più profondo che l’autore intende trasmettere. «Io penso che il divertimento sia una cosa seria», conclude Calvino, sottintendendo con ciò che compito della narrativa è far riflettere attraverso il racconto di una storia, fermo restando che i livelli di lettura sono di fatto soggettivi. 
Il romanzo si apre con una scena militare: accompagnato dal suo scudiero Curzio, il visconte Medardo di Terralba giunge all’accampamento cristiano in Boemia, nel corso di una guerra contro i turchi. L’indomani, allorché prende parte alla sua prima battaglia, viene colpito in pieno petto da una palla di cannone, restando in terra «orrendamente mutilato». Del visconte resta intatta una sola metà del corpo (la destra), prontamente medicata, fasciata e ricucita dai medici dell’ospedale da campo. «Adesso era vivo e dimezzato», conclude il narratore – ovvero un giovane nipote di Medardo, di cui non viene rivelato il nome –, sancendo di fatto il passaggio ad un racconto di tipo fiabesco, caratterizzato dalla libera fusione di elementi realistici e fatti inverosimili.
Il racconto riprende con il ritorno del visconte a Terralba. Ma il Medardo rientrato dalla guerra non è quello che la gente ricorda. In breve, i sudditi sono costretti a prendere atto del fatto che del loro signore è sopravvissuta solo la parte malvagia, che ama sbizzarrirsi perpetrando le più assurde nefandezze. Racconta infatti il nipote narratore: «Dove si sentiva il rumor di zoccoli del suo cavallo tutti scappavano […] e portavano via i bambini e gli animali, e temevano per le piante, perché la cattiveria del visconte non risparmiava nessuno e poteva scatenarsi da un momento all’altro nelle azioni più impreviste e incomprensibili». Medardo, in effetti, è irriconoscibile: dapprima taglia in due un’averla inviatagli dal padre – che l’aveva addestrata a volare nelle stanze del figlio –, causando la morte di crepacuore dell’anziano genitore; poi offre funghi velenosi al nipote, taglia a metà piante e animali, fa costruire una sofisticata forca multipla per l’impiccagione di semplici bracconieri e «per appender dieci gatti alternati ogni due rei», appicca il fuoco a fienili e abitazioni, opprime gli ugonotti residenti a Col Gerbido e condanna la vecchia balia Sebastiana – colpevole di averlo più volte rimproverato – all’esilio tra i lebbrosi, nella comunità di Pratofungo.
Nel frattempo il nipote del visconte – che ha pure trovato modo di fare visita a Sebastiana, scampata al contagio grazie alla perfetta conoscenza delle erbe curative – trascorre buona parte delle sue giornate in compagnia del dottor Trelawney, un medico inglese naufragato nei pressi di Terralba dopo essere stato a lungo membro dell’equipaggio dell’esploratore James Cook. I due conducono stravaganti ricerche sui fuochi fatui, appostandosi di notte nei cimiteri e girovagando tra i boschi: di fatto, si interessano di tutto meno che della medicina e dei metodi per curare gli esseri umani, e sono ben consapevoli di dover mantenere il più possibile le distanze dal visconte.
Questi è ormai per tutti una seria minaccia. E quando si invaghisce della pastorella Pamela, la giovane è ben consapevole del pericolo che corre, e lo respinge. Per tutta risposta, Medardo infierisce sui suoi genitori, convincendoli a concedere la mano della figlia: ma Pamela, determinata a tenere duro, abbandona la famiglia e fugge nei boschi.
Poco dopo avviene il colpo di scena: nei pressi di Pratofungo, il visconte fa visita al nipote, intento a pescare anguille, e lo salva dal morso di un ragno velenoso. In breve, i gesti magnanimi di Medardo si moltiplicano (aiuta bambini e povere vedove, elargisce doni, si prende cura degli animali, soccorre i lebbrosi…), finché gli abitanti di Terralba non realizzano che del visconte è ritornata anche la metà buona (la parte sinistra), anch’essa evidentemente salvatasi per miracolo in terra di Boemia. Il risultato è che ora esistono due versioni di Medardo: il Gramo, responsabile degli atti di malvagità, e il Buono, altruista fin all’eccesso.
Per ironia della sorte, anche quest’ultimo si innamora di Pamela, ma al pari del Gramo è respinto. Alla fine, tuttavia, l’insistenza ostinata delle due metà del visconte ha la meglio sulla resistenza della ragazza, la quale acconsente al matrimonio, pur prendendosi gioco dei maldestri tentativi dei due Medardo (il Gramo, infatti, aveva fatto pressioni sulla madre di Pamela perché convincesse la figlia a sposare il Buono, con l’intento poi di rivendicare come propria la futura moglie di Medardo di Terralba; il Buono aveva invece confessato al padre di lei di voler abbandonare le proprie terre, così che Pamela potesse sposare il Gramo. Risultato: quest’ultimo si convince di poter sposare direttamente Pamela, senza ricorrere al suo iniziale stratagemma, mentre il Buono – rincuorato dalla giovane, che gli assicura di volerlo come marito – ritorna sulla sua decisione per non farle un torto). L’equivoco si scioglie ovviamente il giorno delle nozze: indispettito, il Gramo sfida il Buono a duello, ma entrambi si feriscono nel punto in cui erano stati suturati dopo l’incidente della palla di cannone. Solo l’intervento provvidenziale del dottor Trelawney salva il visconte, le cui metà vengono ricucite e fasciate in modo da combaciare nuovamente l’una con l’altra. «Finalmente avrò uno sposo con tutti gli attributi», commenta infine soddisfatta Pamela.
Il romanzo si chiude con l’addio del dottor Trelawney, che riprende il suo posto nell’equipaggio di James Cook senza aver avuto modo di salutare il nipote di Medardo, distrattosi nei boschi. Queste le parole conclusive del giovane narratore: «Lo seppi troppo tardi e presi a correre verso la marina, gridando: “Dottore! Dottor Trelawney! Mi prenda con sé! Non può lasciarmi qui, dottore!”. Ma già le navi stavano scomparendo all’orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui».
L’aspetto più interessante del romanzo di Calvino è il giudizio, sostanzialmente negativo, che il narratore dà del Buono: «Con questo esile figuro ritto su una gamba sola, nerovestito, cerimonioso e sputasentenze, nessuno poteva fare il piacer suo senz’essere recriminato in piazza suscitando malignità e ripicche». Il senso di questa presa di posizione non è immediato: perché mai, infatti, gli abitanti di Terralba dovrebbero mal sopportare una persona che sa dire e fare esclusivamente del bene, tanto da convincersi – come si comincia a dire in paese – che «delle due metà è peggio la buona della grama»? A pensarci bene, il motivo è ovvio: siccome non esistono persone a lui simili, il Buono è una presenza ingombrante, in quanto funge da specchio che riflette in continuazione il male che è radicato in ogni essere umano. Ben diversa, infatti, è la condizione del Gramo, il quale è sì l’incarnazione di tutto ciò che spaventa, ma proprio per questo è tenuto a distanza, non penetra nelle coscienze. Delle due metà del visconte, una incute timore per il male che può portare dall’esterno, l’altra terrorizza per il male che disvela all’interno di ogni singolo individuo.
Calvino, in altre parole, ci sta dicendo che nell’animo umano convivono opposte nature, compresa una componente maligna che è bene esplorare a fondo, se vogliamo realmente capire chi siamo. Nessuno sarà mai un intero, non esistono Grami e Buoni, giacché in ogni persona il tendere al bene o al male sarà sempre imperfetto, incompleto, incompiuto. Anche la metà buona di Medardo ne è consapevole, come sottolinea in occasione di un colloquio con la futura moglie: «O Pamela, questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro».
Al riguardo, il finale del romanzo è significativo. Anche il narratore, osservatore distaccato delle disavventure dello zio, si ritrova dimezzato («Io invece, in mezzo a tanto fervore d’interezza, mi sentivo sempre più triste e manchevole. Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane»), abbandonato dall’amico dottor Trelawney, costretto a vivere in un mondo non più fiabesco – fatto di illusioni (si noti che le ultime due parole del romanzo sono «fuochi fatui») e di responsabilità –, dove tutto è incompleto e niente dà certezze.

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