mercoledì 25 marzo 2015

Fernando Losavio: intellettuale poliedrico, integralista della poesia

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 marzo 2015)

Fernando Losavio è certamente un autore non troppo noto al grande pubblico. Di padre pugliese e di madre lombarda, nasce il 22 maggio 1896 a Milano e si laurea a Pavia nel 1919 con una tesi sul movimento artistico-letterario della Scapigliatura. Divenuto insegnante, nel 1924 ottiene una cattedra di Lettere presso il Liceo Scientifico Alessandro Tassoni di Modena, capoluogo nel quale si stabilisce definitivamente (e dove sposa nel 1930 Elvira Sabbatini) sino alla morte, sopraggiunta il 2 febbraio 1979.
Losavio è essenzialmente un poeta con la passione per la critica: ama cioè la composizione in versi (in tutto, tra il 1932 e il 1965 pubblica ben sette raccolte di poesie), ma firma anche numerosi articoli e recensioni – nei quali dà prova di acume e originalità –, oltre a tenere una fitta corrispondenza con esponenti di spicco del mondo della cultura. Egli è quindi, a tutti gli effetti, un intellettuale poliedrico, dai mille interessi, capace di suggerire diversi spunti di riflessione.
Al riguardo, è senz’altro meritorio un recente volume intitolato Le voci della poesia. Versi e pagine critiche (a cura di Jean Robaey, Edizioni Artestampa 2014), che – si legge sulla quarta di copertina – «ospita una larga scelta, in parte inedita, di poesie, interventi critici, prose e lettere di Fernando Losavio». Si tratta di una raccolta che intende sostanzialmente presentare il curriculum letterario di un autore di cui – è facile presumere – i più conoscono a malapena il nome. Non siamo quindi di fronte ad un percorso lineare: dalle pagine curate da Robaey emerge infatti un Losavio dai mille volti, che alterna componimenti in versi, riflessioni su Dante, Foscolo e Pascoli, ricordi e brevi prose contenenti dichiarazioni di poetica.
Conviene ora passare alla lettura di qualche pagina. Ed essendo Losavio principalmente un poeta, pare logico partire da una poesia. A modesto parere di chi scrive, uno dei componimenti più riusciti è Morte in vita: «Due volte io dovrò morire. / La prima volta, quando / si spegneranno i canti entro di me; / la seconda col rantolo e coi moti / delle mani a respingere la coltre. / Tra due morti sarà la morte in vita».
La poesia è chiaramente divisibile in due parti. Alla premessa (nella quale l’autore precisa cosa intenda per doppia morte: in un caso la fine dell’ispirazione poetica, nell’altro la fine della vita) segue una conclusione di non immediata lettura. Cosa vuole dire, infatti, Losavio, quando scrive che «Tra due morti sarà la morte in vita»? Le interpretazioni possibili sono molteplici. La più ovvia suggerisce che un’esistenza priva di poesia sarebbe del tutto mortificante, al pari di una vita che non merita di essere vissuta. Ma c’è dell’altro. Losavio si dice infatti certo della fine – non si sa quanto prossima – della propria ispirazione poetica: «dovrò morire», non ci sono cioè speranze di evitare questo destino. Il che equivale, in sostanza, a dire che si vive poeti (anche perché, verrebbe da aggiungere, la poesia aiuta a vivere meglio) e si muore uomini, senza possibilità di scorgere nel momento estremo altro che non sia un senso di vuoto (il nulla?).
Losavio, a ben vedere, sta parlando anche della sua solitudine, giacché la morte è l’esperienza più individuale che si possa contemplare. Dinanzi al baratro della fine, l’uomo è solo con se stesso (al riguardo, si legga questo brevissimo componimento, intitolato Or m’è caduto: «Sul ciglio d’un burrone son vissuto; / le lusinghe del cielo e della terra / accogliendo nell’anima sognante. / Or m’è caduto l’occhio sul burrone»). Nulla di strano, perciò, se la poesia – che è prima di tutto sentimento – coincide con un impietoso sguardo interiore che va alla ricerca di ciò che è fonte di turbamento e mette a nudo ogni umana fragilità.
Si consideri un’altra poesia (Vicino): «Ho conosciuto un uomo, / che usciva – falce in pugno – nella notte, / nel più bel lume di luna sul mondo / e raggiungeva il campo tutto solo. / Poi, chinato sul folto delle spighe, / aggrediva muraglia delle spighe / e falciava falciava tutto solo / nel più bel lume di luna sul mondo. / Per risparmiare sulla mano d’opera / si dannava al lavoro. / E rientrava in casa a notte fonda, / prostrato – e nell’anima e nel corpo. / Chi risolleva quel fantasma in me? / Stanchezza va a la cerca di stanchezza. / Dolore chiama dolore. / Solitudine invoca solitudine. / Io mi sento vicino / al mio massaro / che falcia nella notte».
C’è un forte senso di spossatezza in questi versi. Il poeta si paragona al massaro che di notte «si dannava al lavoro», e avverte su di sé il peso di un’esistenza che tende a farsi sempre più ingombrante, faticosa. Stanchezza, solitudine e dolore: tre parole per esprimere la frustrazione che scaturisce dalla ripetizione meccanica di gesti ordinari, perché la vita spesso si riduce a questo, alla costante e snervante riproposizione di gesti rituali, di per sé insignificanti. Come un massaro che nella notte, solo, aggredisce ripetutamente «la muraglia delle spighe» e prima o poi sarà sopraffatto dal proprio lavoro, così il poeta è consapevole che anche il mestiere di scrivere potrà diventare, un giorno, alienante. Forse egli, in questi versi, realizza di aver scritto troppo, di avere ceduto incondizionatamente al desiderio di riempire pagine su pagine, di non essere stato in grado di porsi un limite. E si sente inevitabilmente oppresso dal suo mondo interiore, che sta fagocitando quello esteriore.
La poesia appena letta consente di porre l’accento su una peculiarità piuttosto evidente dell’opera di Losavio: i suoi componimenti tendono cioè a concludersi con uno o più versi che rompono l’armonia e la linearità di quelli precedenti. La poesia segue un percorso perfettamente razionale, ma poi termina in modo brusco, come se volesse colpire il lettore con una sferzata. «Io mi sento vicino / al mio massaro / che falcia nella notte»: sono i tre versi decisivi, che danno il senso dell’intero componimento; ma sono anche quelli più ostici, difficili da decifrare. Sembra quasi che Losavio non voglia dare sicuri punti di riferimento. E probabilmente è proprio così, come risulta dalla lettura di un passo critico (riguardante i Sepolcri del Foscolo), nel quale egli sostiene che «una poesia che è compresa da molti, che è compresa da tutti, alla fin fine poesia non può essere».
La poesia, in altre parole, non deve fare troppe concessioni all’oratoria (che abbonda, invece, nei Sepolcri, giudicati per questo da Losavio «un’opera [non] di alta poesia»), e – paradossalmente – se vuole essere poesia di qualcosa, se vuole comunicare, deve confondere, porre interrogativi, lasciare dei dubbi. Il che, si badi, non significa abbandonarsi all’irrazionale – giacché la poesia, al contrario, è profonda riflessione –, bensì accettare la sfida di provare a cogliere tutti i possibili significati che si celano dietro un verso. Losavio, del resto, è convinto che la poesia sia «estatica contemplazione estranea ai fanciulli, i quali sono dotati di immaginazione, che è facoltà inventiva, e non di fantasia che è facoltà creativa». La poesia, dunque, è destinata alle menti che accettano di mettersi in gioco, a coloro che non hanno certezze e che sono consapevoli che «la fantasia non è dei fanciulli, è delle persone adulte».
Solo in questo modo, a ben vedere, la poesia acquista una sua indipendenza rispetto all’autore. Un verso ben scritto, capace di stimolare, emozionare o provocare, resiste a tutto, alla morte dello scrittore, ai cambiamenti sociali e alle mode. Losavio esprime questo concetto in due brevi componimenti, intitolati rispettivamente Di non so dove («I canti degli uccelli / son voci scorporate, / balenanti ne l’aria / di non so dove giunti. / Così vorrei che fossero / i miei canti. La mia / persona dileguata; / solo insistente il canto / di non so dove sorto») e Godo («Godo che l’arte mia / si faccia sempre più – / – squallida e sola»). Il senso di queste parole è chiaro: come precisa in una prosa a proposito di Leopardi, per Losavio «il poeta è tutto nel suo canto». Nulla ha valore al di fuori del verso, il quale – al pari del canto di un uccello – deve provenire da un soggetto che non si mostra, che si eclissa per lasciar posto alla sola sua voce.
Con tutta evidenza, siamo di fronte ad una ben precisa e impegnativa dichiarazione di poetica. Dichiarazione che è precisata da queste significative parole: «Io ho sempre considerato fortunatissimi quei poeti della cui vita non si sa nulla, assolutamente nulla, e fortunato in modo particolare Omero, di cui si può mettere in dubbio perfino l’esistenza, ma non quella dei due poemi attribuitigli». Losavio è quindi sostanzialmente un integralista della poesia, per il quale il mondo che sta alle spalle del verso è destinato inesorabilmente a dissolversi. La poesia, e solo la poesia, è per lui la più autentica forma d’arte che possa prendere consistenza su una pagina.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi

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