(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 marzo 2015)
I morti è
l’ultimo racconto di Gente di Dublino,
celebre raccolta di novelle che James Joyce pubblicò nel 1914. Si tratta, in
sostanza, della storia di un’epifania: ciò che dapprima appare reale,
consolidato ed immutabile, viene stravolto da una sconcertante rivelazione, che
schiude gli occhi – fino ad allora incapaci di vedere oltre le confortanti
apparenze – dell’ignaro (e per certi versi colpevole) protagonista. Alla fine,
nulla è come sembra, e l’irrompere improvviso della verità altro non è che il
preludio a un implacabile destino di morte.
La vicenda si svolge nel corso delle feste natalizie: le
sorelle Morkan (Julia e Kate), che vivono a Dublino in compagnia della nipote
Mary Jane, hanno organizzato – come da tradizione – una sontuosa cena unita al
consueto ballo annuale, invitando amici e parenti. Tra questi spicca Gabriel Conroy,
altro nipote delle padrone di casa, accompagnato dalla moglie Gretta: egli è,
di fatto, il protagonista della serata, cui spetta tra l’altro (oltre a quello
di controllare che Freddie Malins, un invitato con il vizio del bere, non alzi
troppo il gomito) il prestigioso compito di tagliare l’oca e di tenere il
discorso conclusivo, di commiato e di ringraziamento.
Al suo arrivo, Gabriel è accolto da
Lily, la figlia del custode: si tratta di una ragazza all’apparenza
insignificante, eppure, nell’economia del racconto, svolge l’importante
funzione di aprire simbolicamente le porte di un secondo mondo, diverso da
quello di tutti i giorni e senza dubbio più minaccioso. Sin dalle prime pagine,
infatti, è evidente il disagio di Gabriel, costretto ad avvertire se stesso
come un estraneo, incapace di farsi coinvolgere dall’apparente spensieratezza
della festa. A Lily, che gli dice di aver da poco terminato gli studi, egli
domanda se si senta ormai prossima alle nozze; ma la ragazza lo spiazza («Gli
uomini di adesso fanno tante promesse, ma mirano solo ad approfittarsene»),
arrecandogli un profondo senso di tristezza, da cui non riuscirà più a
liberarsi per tutto il resto della serata. Le parole della giovane – dure e
inaspettate – fungono di fatto da anticipazione del drammatico epilogo, nel
quale l’inadeguatezza di Gabriel (in
primis come marito, ma in definitiva come persona) si manifesterà in modo
altrettanto inatteso.
L’intero racconto, a ben vedere, si
svolge secondo questo sottile gioco di rimandi e allusioni, al punto che quasi
sempre la descrizione di alcuni vezzi del protagonista finisce per acquisire un
preciso significato simbolico. In quest’ottica, Gabriel appare spesso come una
sorta di pesce fuor d’acqua, il che è confermato anche dal suo bizzarro modo di
vestire. «Non indovinereste mai cosa mi fa portare adesso!», protesta
scherzosamente Gretta, parlando con le zie del marito: «Le galosce! […] Questa
è la sua ultima trovata. Non appena c’è un po’ di bagnato per terra, mi obbliga
a metterle. Anche stasera voleva che me le mettessi, ma io mi sono rifiutata.
Scommetto che tra un po’ mi comprerà anche una tuta da palombaro».
Anche in quella che sembrerebbe una
normale scaramuccia tra marito e moglie Joyce vuole seminare un indizio: tra i
due, cioè, l’armonia è solo di facciata, giacché Gabriel e Gretta sono incapaci
di comunicare tra loro, si comportano in tutto e per tutto come attori. La cena
stessa, del resto, è una grande recita, nella quale ogni commensale deve
attenersi alla sua parte, curandosi di non uscire dagli schemi dettati dalle
rigide convenzioni sociali. Il ballo, il rito del taglio dell’oca, il discorso:
tutto è studiato secondo un copione, all’interno del quale, però, riescono ad
insinuarsi alcuni elementi di disturbo. Il più evidente è rappresentato senz’altro
dall’ingombrante figura di Miss Ivors, una fervente nazionalista che prima
critica aspramente Gabriel per il fatto che egli tenga una rubrica letteraria
sul «Daily Express» (giornale filo-inglese), poi avventatamente propone a
Gretta di unirsi a lei per un viaggio nelle isole Aran (luogo simbolo di
“irlandesità”), creando un po’ di imbarazzo poiché, a fronte del favore che
incontra presso la signora Conroy, la proposta non entusiasma affatto Gabriel,
decisamente più attratto dall’Europa continentale.
Con tutta evidenza, in questa
immagine dell’intellettuale che mal sopporta una certa mentalità – gretta,
chiusa in se stessa, nazionalistica nel senso più banale e riduttivo del
termine – largamente diffusa nel proprio paese c’è molto di Joyce, il quale
intende appunto soffermarsi sul senso di fastidio che Gabriel avverte
ogniqualvolta si trova costretto ad ammettere (prima di tutto a se stesso) la
propria incompatibilità con il mondo che lo circonda. Il punto infatti è
questo: in che misura una vita può dirsi autentica, se non è condivisa
intimamente con nessuno? Gabriel ancora non si rende pienamente conto della
profonda solitudine che lo attanaglia, e per questo – a dispetto dei continui
segnali che riceve da più parti – ignora, o forse finge di non vedere, la drammatica
insignificanza della sua esistenza.
Per il lettore, tuttavia, è tutto
molto diverso, giacché nel corso del racconto i riferimenti al concetto della
morte – preludio, s’intende, alla disgregazione dell’identità del protagonista
– sono numerosi. Si pensi infatti al quadro raffigurante Romeo e Giulietta che
adorna la parete sopra il pianoforte, oppure alla canzone Ornata per le nozze intonata dall’anziana zia Julia (immagine, questa,
che alla fine della novella farà riflettere Gabriel, il quale, ripensando alla
serata appena trascorsa, commenterà: «Povera zia Julia! Anche lei sarebbe
presto diventata un’ombra»), o ancora alla rievocazione dei cantanti defunti:
ogni singolo dettaglio sembra caricarsi di un significato che travalica il
senso letterale della narrazione. Lo stesso discorso conclusivo di Gabriel
(retorico ed incentrato sulla lode – scontata – dell’ospitalità delle padrone
di casa) affronta, tra le altre cose, il tema della morte: «In riunioni come
questa, ritornano sempre alla memoria anche i ricordi più tristi: ricordi del
passato, della giovinezza, dei mutamenti e dei visi delle persone scomparse di
cui sentiamo stasera la mancanza».
Giunto il momento dei saluti, Gabriel
è come folgorato da una visione: Gretta si trova in cima alle scale, e pare
rapita da una melodia che proviene dalla stanza del pianoforte, dove un ospite
sta infatti intonando una vecchia canzone irlandese. «Vi era della grazia e del
mistero in quel suo atteggiamento, come fosse un simbolo di qualcosa. E si
domandò che simbolo poteva essere quello di una donna in piedi sulle scale in
ombra, intenta ad ascoltare una musica lontana. Se fosse stato un pittore
l’avrebbe ritratta in quella posizione».
Rientrati in albergo, però, i coniugi
Conroy provano un forte senso di reciproco disagio. Gabriel desidererebbe la
moglie, ma Gretta si tiene a distanza, e infine scoppia in lacrime. Non riesce
a togliersi dalla mente la canzone che ha udito alla festa: una canzone
(intitolata La fanciulla di Aughrim)
che le ricorda un ragazzo conosciuto anni addietro, quando ancora era una
ragazza e viveva con sua nonna a Galway. Alla rivelazione della moglie, Gabriel
rimane impietrito, roso com’è dalla gelosia. Ma Gretta subito chiarisce: il
ragazzo, di nome Michael Furey, è morto di malattia in giovane età, anche se la
donna si sente responsabile della sua fine («Credo che sia morto per me»).
Gabriel, che si sente oramai
sconfitto, vuole sapere di più. E la moglie lo accontenta, raccontando che la
sera prima di partire per Dublino il ragazzo le aveva fatto visita pur essendo
molto malato, sfidando la pioggia. «Lo implorai di tornare subito a casa e gli
dissi che sarebbe morto con quella pioggia. Ma lui disse che non voleva più
vivere. […] una settimana dopo il mio arrivo in collegio venni a sapere che era
morto».
Terminato il drammatico sfogo, Gretta
si addormenta, lasciando Gabriel solo con i suoi pensieri. Egli comprende che
l’intera sua vita non è stata altro che un’illusione, una menzogna, una commedia
nella quale nemmeno la moglie ha rinunciato a recitare la propria parte.
Gabriel è cioè a tutti gli effetti un morto, un’identità che si è sgretolata
per sempre. «E pian piano l’anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere
stancamente su tutto l’universo e stancamente cadere, come la discesa della
loro fine ultima, su tutti i vivi e tutti i morti».
Il paradosso, per Gabriel, è che agli
occhi della moglie egli si scopre più morto di un defunto. Michael Furey,
infatti, sopravvive poiché ha vissuto una vita autentica e ha saputo donare se
stesso, condividendo i propri sentimenti con la persona che amava. Con tutta
evidenza, quello di Joyce è un duro attacco alle convenzioni sociali, che
rischiano di trascinare gli uomini in un mondo dominato dalle formalità,
impalpabile come la neve che cade indistintamente sui vivi e sui morti. Quante
volte, infatti, ci si sforza di assumere pose artefatte solo per assecondare un
ben definito e preordinato modo di essere. Vale la pena vivere così? Chiudersi
in se stessi e fingere di poter fare a meno della spontaneità, un po’ come
accade quando si prende parte a una cena elegante? Gabriel, alla fine, è
costretto ad ammettere che tutta la sua vita è stata un fallimento: egli si è
sempre frenato (ed è significativo che tra i suoi compiti alla festa vi sia
proprio quello di contenere l’esuberanza di Freddie Malins), non ha mai
ragionato fuori dagli schemi. Ed è diventato una squallida marionetta.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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