lunedì 9 marzo 2015

«I morti»: l’effetto paralizzante delle convenzioni sociali e l’importanza di ragionare fuori dagli schemi

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 marzo 2015)

I morti è l’ultimo racconto di Gente di Dublino, celebre raccolta di novelle che James Joyce pubblicò nel 1914. Si tratta, in sostanza, della storia di un’epifania: ciò che dapprima appare reale, consolidato ed immutabile, viene stravolto da una sconcertante rivelazione, che schiude gli occhi – fino ad allora incapaci di vedere oltre le confortanti apparenze – dell’ignaro (e per certi versi colpevole) protagonista. Alla fine, nulla è come sembra, e l’irrompere improvviso della verità altro non è che il preludio a un implacabile destino di morte.
La vicenda si svolge nel corso delle feste natalizie: le sorelle Morkan (Julia e Kate), che vivono a Dublino in compagnia della nipote Mary Jane, hanno organizzato – come da tradizione – una sontuosa cena unita al consueto ballo annuale, invitando amici e parenti. Tra questi spicca Gabriel Conroy, altro nipote delle padrone di casa, accompagnato dalla moglie Gretta: egli è, di fatto, il protagonista della serata, cui spetta tra l’altro (oltre a quello di controllare che Freddie Malins, un invitato con il vizio del bere, non alzi troppo il gomito) il prestigioso compito di tagliare l’oca e di tenere il discorso conclusivo, di commiato e di ringraziamento.
Al suo arrivo, Gabriel è accolto da Lily, la figlia del custode: si tratta di una ragazza all’apparenza insignificante, eppure, nell’economia del racconto, svolge l’importante funzione di aprire simbolicamente le porte di un secondo mondo, diverso da quello di tutti i giorni e senza dubbio più minaccioso. Sin dalle prime pagine, infatti, è evidente il disagio di Gabriel, costretto ad avvertire se stesso come un estraneo, incapace di farsi coinvolgere dall’apparente spensieratezza della festa. A Lily, che gli dice di aver da poco terminato gli studi, egli domanda se si senta ormai prossima alle nozze; ma la ragazza lo spiazza («Gli uomini di adesso fanno tante promesse, ma mirano solo ad approfittarsene»), arrecandogli un profondo senso di tristezza, da cui non riuscirà più a liberarsi per tutto il resto della serata. Le parole della giovane – dure e inaspettate – fungono di fatto da anticipazione del drammatico epilogo, nel quale l’inadeguatezza di Gabriel (in primis come marito, ma in definitiva come persona) si manifesterà in modo altrettanto inatteso.
L’intero racconto, a ben vedere, si svolge secondo questo sottile gioco di rimandi e allusioni, al punto che quasi sempre la descrizione di alcuni vezzi del protagonista finisce per acquisire un preciso significato simbolico. In quest’ottica, Gabriel appare spesso come una sorta di pesce fuor d’acqua, il che è confermato anche dal suo bizzarro modo di vestire. «Non indovinereste mai cosa mi fa portare adesso!», protesta scherzosamente Gretta, parlando con le zie del marito: «Le galosce! […] Questa è la sua ultima trovata. Non appena c’è un po’ di bagnato per terra, mi obbliga a metterle. Anche stasera voleva che me le mettessi, ma io mi sono rifiutata. Scommetto che tra un po’ mi comprerà anche una tuta da palombaro».
Anche in quella che sembrerebbe una normale scaramuccia tra marito e moglie Joyce vuole seminare un indizio: tra i due, cioè, l’armonia è solo di facciata, giacché Gabriel e Gretta sono incapaci di comunicare tra loro, si comportano in tutto e per tutto come attori. La cena stessa, del resto, è una grande recita, nella quale ogni commensale deve attenersi alla sua parte, curandosi di non uscire dagli schemi dettati dalle rigide convenzioni sociali. Il ballo, il rito del taglio dell’oca, il discorso: tutto è studiato secondo un copione, all’interno del quale, però, riescono ad insinuarsi alcuni elementi di disturbo. Il più evidente è rappresentato senz’altro dall’ingombrante figura di Miss Ivors, una fervente nazionalista che prima critica aspramente Gabriel per il fatto che egli tenga una rubrica letteraria sul «Daily Express» (giornale filo-inglese), poi avventatamente propone a Gretta di unirsi a lei per un viaggio nelle isole Aran (luogo simbolo di “irlandesità”), creando un po’ di imbarazzo poiché, a fronte del favore che incontra presso la signora Conroy, la proposta non entusiasma affatto Gabriel, decisamente più attratto dall’Europa continentale.
Con tutta evidenza, in questa immagine dell’intellettuale che mal sopporta una certa mentalità – gretta, chiusa in se stessa, nazionalistica nel senso più banale e riduttivo del termine – largamente diffusa nel proprio paese c’è molto di Joyce, il quale intende appunto soffermarsi sul senso di fastidio che Gabriel avverte ogniqualvolta si trova costretto ad ammettere (prima di tutto a se stesso) la propria incompatibilità con il mondo che lo circonda. Il punto infatti è questo: in che misura una vita può dirsi autentica, se non è condivisa intimamente con nessuno? Gabriel ancora non si rende pienamente conto della profonda solitudine che lo attanaglia, e per questo – a dispetto dei continui segnali che riceve da più parti – ignora, o forse finge di non vedere, la drammatica insignificanza della sua esistenza.
Per il lettore, tuttavia, è tutto molto diverso, giacché nel corso del racconto i riferimenti al concetto della morte – preludio, s’intende, alla disgregazione dell’identità del protagonista – sono numerosi. Si pensi infatti al quadro raffigurante Romeo e Giulietta che adorna la parete sopra il pianoforte, oppure alla canzone Ornata per le nozze intonata dall’anziana zia Julia (immagine, questa, che alla fine della novella farà riflettere Gabriel, il quale, ripensando alla serata appena trascorsa, commenterà: «Povera zia Julia! Anche lei sarebbe presto diventata un’ombra»), o ancora alla rievocazione dei cantanti defunti: ogni singolo dettaglio sembra caricarsi di un significato che travalica il senso letterale della narrazione. Lo stesso discorso conclusivo di Gabriel (retorico ed incentrato sulla lode – scontata – dell’ospitalità delle padrone di casa) affronta, tra le altre cose, il tema della morte: «In riunioni come questa, ritornano sempre alla memoria anche i ricordi più tristi: ricordi del passato, della giovinezza, dei mutamenti e dei visi delle persone scomparse di cui sentiamo stasera la mancanza».
Giunto il momento dei saluti, Gabriel è come folgorato da una visione: Gretta si trova in cima alle scale, e pare rapita da una melodia che proviene dalla stanza del pianoforte, dove un ospite sta infatti intonando una vecchia canzone irlandese. «Vi era della grazia e del mistero in quel suo atteggiamento, come fosse un simbolo di qualcosa. E si domandò che simbolo poteva essere quello di una donna in piedi sulle scale in ombra, intenta ad ascoltare una musica lontana. Se fosse stato un pittore l’avrebbe ritratta in quella posizione».
Rientrati in albergo, però, i coniugi Conroy provano un forte senso di reciproco disagio. Gabriel desidererebbe la moglie, ma Gretta si tiene a distanza, e infine scoppia in lacrime. Non riesce a togliersi dalla mente la canzone che ha udito alla festa: una canzone (intitolata La fanciulla di Aughrim) che le ricorda un ragazzo conosciuto anni addietro, quando ancora era una ragazza e viveva con sua nonna a Galway. Alla rivelazione della moglie, Gabriel rimane impietrito, roso com’è dalla gelosia. Ma Gretta subito chiarisce: il ragazzo, di nome Michael Furey, è morto di malattia in giovane età, anche se la donna si sente responsabile della sua fine («Credo che sia morto per me»).
Gabriel, che si sente oramai sconfitto, vuole sapere di più. E la moglie lo accontenta, raccontando che la sera prima di partire per Dublino il ragazzo le aveva fatto visita pur essendo molto malato, sfidando la pioggia. «Lo implorai di tornare subito a casa e gli dissi che sarebbe morto con quella pioggia. Ma lui disse che non voleva più vivere. […] una settimana dopo il mio arrivo in collegio venni a sapere che era morto».
Terminato il drammatico sfogo, Gretta si addormenta, lasciando Gabriel solo con i suoi pensieri. Egli comprende che l’intera sua vita non è stata altro che un’illusione, una menzogna, una commedia nella quale nemmeno la moglie ha rinunciato a recitare la propria parte. Gabriel è cioè a tutti gli effetti un morto, un’identità che si è sgretolata per sempre. «E pian piano l’anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo e stancamente cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e tutti i morti».
Il paradosso, per Gabriel, è che agli occhi della moglie egli si scopre più morto di un defunto. Michael Furey, infatti, sopravvive poiché ha vissuto una vita autentica e ha saputo donare se stesso, condividendo i propri sentimenti con la persona che amava. Con tutta evidenza, quello di Joyce è un duro attacco alle convenzioni sociali, che rischiano di trascinare gli uomini in un mondo dominato dalle formalità, impalpabile come la neve che cade indistintamente sui vivi e sui morti. Quante volte, infatti, ci si sforza di assumere pose artefatte solo per assecondare un ben definito e preordinato modo di essere. Vale la pena vivere così? Chiudersi in se stessi e fingere di poter fare a meno della spontaneità, un po’ come accade quando si prende parte a una cena elegante? Gabriel, alla fine, è costretto ad ammettere che tutta la sua vita è stata un fallimento: egli si è sempre frenato (ed è significativo che tra i suoi compiti alla festa vi sia proprio quello di contenere l’esuberanza di Freddie Malins), non ha mai ragionato fuori dagli schemi. Ed è diventato una squallida marionetta.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi

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