mercoledì 22 ottobre 2014

«L’arte di essere felici»: la riflessione di Schopenhauer su come «vivere passabilmente»

(articolo apparso su Prima Pagina del 18 ottobre 2014)

Arthur Schopenhauer non era certo un tipo allegro. Austero, misantropo e campione di pessimismo, molti studenti lo considerano – in parte non a torto – il Leopardi della filosofia, un autore, cioè, che è obbligatorio leggere sui banchi del liceo, ma che – volendo utilizzare il gergo giovanile – porta un po’ sfiga. Se poi si aggiunge che il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, è un mattone onestamente piuttosto complesso, ecco che la frittata è fatta: nell’opinione della gente comune, chi legge Schopenhauer deve avere senz’altro qualche serio problema.
Eppure, anche se pochi lo sanno, spulciando tra le carte postume del filosofo tedesco, è emerso che Schopenhauer aveva a cuore anche un certo tipo di riflessione che, sicuramente, ai nostri occhi risulta parecchio accattivante: si tratta della cosiddetta eudemonologia (o eudemonica), ovvero – come egli precisa – di quella dottrina che «dovrebbe insegnare a vivere il più felicemente possibile». Il che ci porta ad una constatazione quantomeno bizzarra: lo stesso autore pessimista per antonomasia si occupò (tra le varie cose) dello studio dell’arte di essere felici. Il risultato della sua indagine sono cinquanta massime di vita (di varia lunghezza: alcune sono riflessioni complesse, altre semplici aforismi), che in italiano sono state raccolte in un volumetto dal titolo L’arte di essere felici, pubblicato da Adelphi nel 1997.
Schopenhauer parte da una considerazione fondamentale. Per poter apprendere un modo saggio di vivere, occorre rispettare due condizioni: rifuggire tanto da un atteggiamento stoico, quanto da un agire machiavellico. Argomenta, infatti, il filosofo: «Non la prima via, quella della rinuncia e della privazione, [è praticabile] poiché la scienza deve regolarsi sull’uomo comune, che è troppo colmo di volontà […] per cercare la sua felicità in questo modo. Non la seconda, il machiavellismo, cioè la massima di raggiungere la propria felicità a spese della felicità altrui, poiché proprio nel caso dell’uomo comune non si può dare per scontata la presenza della ragione necessaria a questo scopo».
Fatta questa premessa, Schopenhauer precisa che, di per sé, «una felicità compiuta e positiva è impossibile» (si tratta di un concetto più volte ribadito, come per esempio nella massima 22: «Il principio primo dell’eudemonologia è che questa espressione è un eufemismo e che “vivere felici” può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente»): ma ciò non impedisce all’uomo di darsi da fare per ridurre al minimo le sofferenze e vivere in pace. Le massime del trattatello costituiscono, pertanto, un agile strumento per avvicinarsi a quello che il filosofo considera il bene supremo: la serenità dell’animo. La quale, è bene sottolinearlo, è comunque vincolata alla salute fisica, senza la quale ogni discorso sulla felicità risulta inutile.
Procediamo dunque con l’analisi – che effettueremo in maniera “libera”, senza citare di volta in volta la numerazione corrispondente – di alcune tra le massime più significative. La prima di esse somiglia molto ad un avvertimento: dal momento che la felicità, concretamente, è un’illusione, mentre la sofferenza ed il dolore sono assolutamente reali, nella ricerca della serenità è bene preoccuparsi, più che altro, di sfuggire a questi ultimi. Al riguardo, prosegue Schopenhauer, un utile consiglio è evitare l’invidia e pensare sempre a chi sta peggio, senza farsi ossessionare da chi sembra esageratamente felice. Fondamentale, poi, è conoscere se stessi. Ognuno, infatti, ha esigenze personali e specifiche, ed è inutile, oltreché dannoso, fingere di volere ciò che in realtà non si desidera. «Un uomo – scrive il filosofo – deve [...] sapere ciò che vuole e sapere ciò che può. [...] Conosciamo del pari la natura e la misura delle nostre forze e delle nostre debolezze, e ci risparmieremo perciò molti dolori».
Inutile però farsi delle illusioni: il dolore fa parte della vita (di cui è una componente essenziale), ed è indispensabile accettarlo. Quanto alla felicità, essa può essere avvertita concretamente solo nel momento in cui sopraggiunge un mutamento gradito; ma poi, inesorabilmente, svanisce, allo stesso modo di come una grande sofferenza fa passare totalmente in secondo piano ogni piccola sgradevole difficoltà. Il punto è che lo stato d’animo di una persona è subordinato alle sue aspettative per il futuro, giacché è l’avvenire che condiziona il presente (e non il contrario). Ne consegue, quindi, che la felicità si basa sulla previsione (ingannevole) che il futuro sia lieto e che «ogni giubilo smodato […] riposa sempre sull’illusione di aver trovato nella vita qualcosa che non vi si può affatto incontrare, cioè una durevole soddisfazione dei tormentosi e sempre rinascenti desideri o cure». È pienamente condivisibile, pertanto, la conclusione cui giunge Orazio in un passo delle Odi: «Nei momenti difficili ricordati di conservare l’imperturbabilità, e in quelli favorevoli un cuore assennato che domini la gioia eccessiva».
La dipendenza dell’oggi dal domani non deve, tuttavia, trasformarsi in un’ossessione. Infatti, se è vero che non bisogna concentrarsi, come fanno gli sconsiderati, solo sul presente, è altresì evidente che «coloro che, animati da una continua tensione, vivono solo nel futuro, guardano sempre avanti e corrono incontro con impazienza alle cose che sopraggiungono come alle sole che porteranno la vera felicità, lasciando intanto passare inosservato il presente senza goderne, assomigliano all’asino italiano di Tischbein, con il suo fascio di fieno appeso davanti al muso che ne accelera il passo». Occorre pertanto moderazione nel guardare avanti nel tempo, anche perché l’assillo delle conquiste future rischia di confondere le idee su un aspetto cruciale del vivere: ovvero che, siccome «ogni felicità e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo, la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata».
Schopenhauer ritiene, in sostanza, che per vivere serenamente sia necessario sgombrare il campo da equivoci: è estremamente pernicioso, a suo parere, farsi fuorviare dall’ipocrisia di un mondo che diffonde continuamente il più sfrenato ottimismo, giacché è evidente, per esperienza, che i piaceri sfuggono, sono transeunti, mentre la sofferenza ha radici profonde, e permane. Chi guarda al futuro prospettando per se stesso un avvenire forzatamente sereno è destinato necessariamente a patire, non essendosi adeguatamente preparato a sopportare il dolore (che è inevitabile sopraggiunga, prima o poi); chi invece accetta la sofferenza come parte dell’esistenza va incontro a minori sorprese, e riduce sensibilmente lo stordimento provocato da una sventura improvvisa. Al riguardo, Schopenhauer riprende una frase di Goethe: «Chi vuol liberarsi di un male sa sempre quello che vuole; chi vuole invece qualcosa di meglio di quel che ha, è assolutamente cieco». E, da par suo, aggiunge che chi si affanna alla ricerca di un’inconsistente felicità positiva è paragonabile a un cacciatore che insegue «una selvaggina inesistente». Evitare i mali, pertanto, è il solo modo per vivere con serenità.
Da vecchi, prosegue il filosofo, tutto è più semplice, giacché mentre in giovinezza si va ostinatamente alla ricerca della felicità, «nella seconda metà della vita al posto dell’aspirazione alla felicità sempre insoddisfatta subentra la preoccupazione per la sventura, ma trovarvi rimedio è possibile: infatti a questo punto siamo finalmente guariti dal presupposto ora ricordato e cerchiamo solo la quiete e la maggiore assenza di dolori possibile». La vecchiaia, pertanto, è per Schopenhauer l’età più favorevole alla conquista della serenità dell’animo, dal momento che essa placa, in generale, i desideri, sostituendoli col bisogno di comodità, sicurezza e riflessione. Lo studio, per esempio, è un ottimo e gratificante passatempo in grado di allietare le giornate della persona anziana, se non altro perché pone degli obiettivi a chi, per questioni di età, corre costantemente il rischio di farsi sopraffare dall’ozio. Tutti, del resto, devono tenersi impegnati, dal momento che «svolgere un’attività, dedicarsi a qualcosa, o anche solo studiare sono cose necessarie alla felicità dell’uomo».
In definitiva, è essenziale che un uomo assecondi la propria indole, che sappia ascoltarsi e che usi moderazione nell’aspirare alla felicità. Scrive, verso la fine del trattatello, Schopenhauer: «Proprio perché nella vita il dolore è prevalente e positivo, mentre i piaceri sono negativi, chi fa della ragione il filo conduttore del suo agire, e quindi in tutto ciò che si prefigge riflette sulle conseguenze e sul futuro, dovrà spesso applicare il sustine et abstine e sacrificare piaceri e gioie per assicurare la massima assenza possibile di dolore in tutta la vita». E, nell’ultima massima, conclude che la felicità dipende «da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre per lo più si tiene conto solo del nostro destino e di ciò che abbiamo».

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

giovedì 16 ottobre 2014

Si salvi chi può! L’Italia impazzisce dopo Juventus-Roma

(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 ottobre 2014)

Alt! Fermi tutti. Che il Paese smetta di fare qualunque cosa stesse facendo e si prenda un minuto per riflettere. Hanno dato un rigore inesistente alla Juve! Così non si può proprio andare avanti, per il bene dell’Italia, dell’Europa e del mondo!
Sembra una barzelletta, ma è la verità. Siamo arrivati a un punto di non ritorno: tutti i giornali, sportivi e non, parlano da giorni di moviole e di presunti complotti, tanto che persino il Parlamento si è scomodato. Cito da «Libero» di martedì 7 ottobre (articolo firmato da Tommaso Montesano): «Interrogazioni parlamentari, esposti alla Consob, richieste di intervento all’Unione europea, a Palazzo Chigi, all’Uefa e al sindaco della Capitale, Ignazio Marino. Juventus-Roma finisce tra i banchi della politica. Con schieramenti trasversali: romanisti di Pd e Fratelli d’Italia contro gli juventini degli stessi partiti».
Riepiloghiamo brevemente i fatti. Domenica scorsa, l’arbitro Rocchi designato per la supersfida Juventus-Roma ne ha combinate un po’ di tutti i colori. E i capitolini, alla fine usciti sconfitti da Torino per 3-2, hanno subito gridato allo scandalo, evocando – in maniera esplicita – combine e ladrocini. In realtà, la moviola della “Bibbia in rosa” (la milanesissima «Gazzetta dello Sport», di certo non un foglio che si tira indietro quando si tratta di puntare il dito contro la società bianconera) ridimensiona – e non poco – gli errori del direttore di gara. D’accordo: il primo rigore assegnato alla Juventus è inventato (al massimo si poteva «dare punizione dal limite»). Poi però, giusto il tempo di fare arrivare la palla nell’area juventina, Rocchi fischia un rigore altrettanto discutibile: per la «Gazzetta» si tratta di «un rigore molto dubbio», giacché in contemporanea alla trattenuta di Lichtsteiner «c’è pure quella del capitano giallorosso». In parole povere, detto con il linguaggio genuino da bar, Rocchi si è reso conto di avere fischiato un primo rigore generoso e ha subito applicato la regola non scritta della compensazione: un torto per uno, a distanza di pochi minuti, e tutti (s)contenti.
Ma andiamo oltre. Allo scadere del primo tempo, sul parziale di 2-1 per la Roma, il direttore di gara assegna un secondo rigore alla Juve. Qui il fallo di Pjanic su Pogba è «evidente»: resta solo da capire se è dentro o fuori area. Cito nuovamente la «Gazzetta»: «Siamo ai millimetri, ma sembra che il tocco arrivi pizzicando la linea dell’area. Quindi rigore, anche se persino la tecnologia qui non dà certezze». Una decisione al limite, perciò, quella di Rocchi, ma non certo un’invenzione dal nulla come vorrebbero i sostenitori giallorossi.
Resta infine il contestato gol finale di Bonucci, che assegna i tre punti alla Juventus. Tiro dal limite dell’area e posizione sospetta di Vidal che si trova tra il portiere e l’ultimo difensore romanista. Fuorigioco? Per Totti e compagni non ci sono dubbi, ma ancora una volta la «Gazzetta» li smentisce: «A stretta interpretazione il gol di Bonucci può diventare regolare perché non conta più il cono di visione di Skorupski [il portiere] […], ma è stato introdotto [dalle nuove regole] un concetto molto rigido: il giocatore deve ostruire la linea di visione». Risultato: l’estremo difensore giallorosso ha la linea di visione non ostruita da Vidal, e la rete è convalidabile.
Urge a questo punto una spiegazione, anche perché è comprensibile che il lettore si chieda – legittimamente infastidito – per quale motivo si siano sprecate così tante parole per una banale moviola da Processo del lunedì. La ragione è ovvia: se una partita di calcio diviene oggetto di dibattito tra parlamentari, un minimo di chiarezza sugli episodi contestati andava fatta. E il bello è che, a dispetto del clamore mediatico suscitato dalle sue decisioni, l’arbitro Rocchi – regolamento alla mano – sembra uscire dalla sfida di Torino con molte meno responsabilità di quelle che i media gli attribuiscono.
Ma passiamo oltre, anche perché delle moviole non se ne può proprio più. E concentriamoci sulle reazioni – sconcertanti – provenienti dal mondo della politica. Cito le parole del deputato PD Marco Miccoli, tratte dall’edizione online de «Il Fatto Quotidiano»: «Ricordo che Roma e Juventus sono società quotate in borsa, e quindi gli incredibili errori arbitrali (oltre a falsare il campionato e minare la credibilità del Paese) incidono anche sugli andamenti delle quotazioni borsistiche. Per questo, con i miei atti parlamentari ispettivi, sollecito il Ministro Padoan e la Consob a chiarire se ci possono essere stati atti che ledono le normative vigenti, svantaggiando e penalizzando gli incolpevoli azionisti». Ma Miccoli non si è fermato qui. Non pago di cotanto delirio, il deputato ha successivamente rincarato la dose: «Più che dell’articolo 18, sono sicuro che gli imprenditori stranieri siano messi in fuga soprattutto da questa arbitrarietà e mancanza di certezza nell’applicazione delle regole». Capito? La pressione fiscale alle stelle, l’esorbitante costo del lavoro, le infrastrutture scadenti non sono nulla in confronto al danno d’immagine arrecato all’Italia dall’arbitro Rocchi. Cari juventini, ammettetelo: se i capitali stranieri ci scansano come si faceva un tempo con gli appestati, la colpa è in parte anche vostra!
Con tutta evidenza, si tratta di parole che si commentano da sé. A parte l’inquietante retroscena di una classe dirigente nazionale che non ha nulla di meglio da fare che occuparsi di rigori e gol in fuorigioco, sarebbe il caso di tranquillizzare il deputato democratico: non è certo il pallone il responsabile dello scarso prestigio internazionale del nostro Paese. Casomai, a causa di certe dichiarazioni strampalate, sono proprio i parlamentari come lui uno dei motivi per i quali l’Italia (come complesso di istituzioni) sta alla credibilità come il sale sta nel caffè.
Ma Miccoli non è stato certo il solo ad aver sprecato una ghiotta occasione per tacere. A fargli eco, infatti, è prontamente intervenuto il collega Fabio Rampelli, capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia. Cito sempre da «Il Fatto Quotidiano»: «Stamane presento un’interrogazione parlamentare su Juventus-Roma e sul comportamento dell’arbitro Rocchi che avrebbe potuto e potrebbe far scaturire incidenti dalle conseguenze incalcolabili. A tutto c’è un limite. Gli italiani pagano fior di quattrini per il campionato di calcio e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Delrio, che detiene la delega allo sport, ha il dovere di spiegarci come intenda garantire risultati ottenuti per esclusivi meriti sportivi».
Che dire? Anche qui stendiamo un velo pietoso, rimarcando come simili gravi accuse richiederebbero quantomeno una base documentaria affidabile, che certo non può essere la semplice sensazione di un tifoso frustrato per la sconfitta della propria squadra del cuore. Quanto poi alla banalità populistica delle affermazioni di Rampelli, viene spontaneo rispondere al deputato che gli italiani pagano fior di quattrini anche per versare nelle sue tasche un lauto stipendio mensile, e di sicuro lo fanno (controvoglia) non perché egli perda tempo con le moviole.   
Dulcis in fundo – siamo alle comiche –, ha voluto esternare il suo illuminante pensiero anche il deputato leghista al Parlamento Europeo Gianluca Buonanno: «Dopo lo scandaloso arbitraggio – si legge sempre sul “Fatto Quotidiano” – urge un rapido e urgente ripensamento delle designazioni arbitrali per le partite di cartello con squadre quotate in borsa. Certe “strane” decisioni non incidono solo sul risultato della partita, ma anche sul portafoglio dei risparmiatori e degli scommettitori. Pertanto chiedo alla Commissione europea [...] di attivarsi per garantire l’imparzialità degli arbitraggi nei campionati nazionali attraverso la strutturazione di un meccanismo di nomina di arbitri internazionali di riconosciuta fama, onestà e integrità morale».
In pratica, parafrasando, Rocchi non è né onesto né integro moralmente. È semplicemente un incapace in malafede designato appositamente per far vincere la Juventus. Buonanno evidentemente sa cose che altri ignorano, e si erge a supremo giudice. Inutile replicare che anche gli arbitri più quotati possono sbagliare clamorosamente (si potrebbe ricordare, per esempio, che Pierluigi Collina – uno dei migliori fischietti italiani di sempre – nel 2000 prese la contestatissima decisione di far giocare in un campo reso impraticabile da un tremendo acquazzone un Perugia-Juventus che costò lo scudetto ai bianconeri): pur di infangare la Juventus (con conseguente, inevitabile, plauso dei media), il deputato leghista è persino disposto a rinunciare al grido di battaglia di «Roma ladrona». Cosa aspetta dunque la Commissione europea (ma ci rendiamo conto? Questo tira in ballo persino la Commissione europea!) a prendere provvedimenti? Possibile che trascuri una vicenda così grave?
In definitiva, mancano davvero le parole per commentare le allucinanti (e allucinate) dichiarazioni sopra riportate. Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio alla Camera, ha replicato nell’unico modo possibile: «Miccoli, Rampelli e altri colleghi – cito questa volta nuovamente il pezzo di Montesano –, evidentemente relativamente impegnati nell’attività legislativa [...], non trovano di meglio da fare, in giornate complesse e difficili per il Paese, di occuparsi ossessivamente delle cronache sportive e delle partite di calcio, scomodando addirittura la Consob». E come dare torto al deputato PD? Possibile che quando la Juve vince con episodi da moviola debbano intervenire i parlamentari?
Rassegniamoci: l’Italia è fatta così. Chi vince, chi ha successo, chi eccelle nel proprio lavoro diventa spesso l’alibi di chi perde ed è abituato ai fallimenti. La Juventus rappresenta l’eccellenza del calcio italiano, e per questo è odiata, vilipesa, derisa da chiunque non tifi bianconero. La partita dell’altra sera ci dice che milioni di italiani non sopportano che si possa sbagliare in favore di Buffon e compagni. È bene che in futuro gli arbitri lo sappiano: nel caso prendano anche solo in considerazione l’idea di fischiare un rigore alla Juve, sono pregati di consultare prima il Ministro!

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

giovedì 9 ottobre 2014

«Asfalto»: viaggio alla scoperta di un (più autentico?) mondo sotterraneo

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 ottobre 2014)

Valerio Mello è un promettente scrittore siciliano che, a dispetto della giovane età (è nato ad Agrigento il 10 novembre del 1985), ha già all’attivo diversi riconoscimenti letterari. Asfalto è la sua terza raccolta poetica, edita da La Vita Felice (2014) con la prestigiosa prefazione di Alessandro Quasimodo, il figlio del celebre Salvatore, premio Nobel per la letteratura nell’ormai lontano 1959.
Ed è proprio da qui, dalla prefazione, che conviene partire per inquadrare i versi di Mello. Alessandro Quasimodo, infatti, ci informa subito che, al pari di suo padre, Mello è un siciliano trapiantato a Milano, in una metropoli, pertanto, di cui si fa osservatore al contempo curioso e distaccato. Scrive l’autore della prefazione: «Vedo in lui una sorta di discepolo ideale di mio padre, proprio per il fatto che nei versi di questo giovane la tradizione classica insulare si fonde con i nuovi stimoli offerti dal contemporaneo. Si sente che è cresciuto con l’aria di mare, immerso nella luce e nei colori mediterranei... tuttavia la scelta di trasferirsi a Milano ha determinato una evidente conversione alla modalità della megalopoli, non solo nelle abitudini di vita quotidiana ma anche – e soprattutto – nel modo con cui egli guarda ciò che gli sta intorno: come se avesse indossato un paio di lenti fumé».
Il titolo della raccolta – Asfalto – allude evidentemente all’aspetto esteriore della grande città, a quella che potrebbe definirsi una crosta omologante (del resto l’asfalto serve proprio a ricoprire la strada per renderla levigata e agevolmente percorribile) sotto la quale si celano infinite imperfezioni ed asperità. Milano diventa perciò un tramite che consente alla poesia di Mello di esprimersi attraverso immagini: ogni cosa, nei suoi versi, è come se avesse un doppio significato, un volto superficiale e un’anima profonda (e più autentica). Al riguardo, un esempio chiarificatore potrebbe essere il brevissimo componimento intitolato «Lampione» (Tutto è sospeso fra la creazione / del primo e del secondo verso; / precipitare e non riconoscere voragini, / ipotizzare che la luna sul cielo cobalto / sia il tenue riflesso del lampione d’arredo): un testo, come si vede, incentrato sul tema – delicato e fondamentale per ogni autore – della produzione poetica, che scaturisce da un’immagine trasfigurata, la quale acquista significati imprevisti. Proprio questi ultimi, del resto, costituiscono l’essenza della poesia: solo attraverso di essi è possibile procedere alla creazione del primo e del secondo verso; e, volendo entrare nello specifico della lirica appena letta, solo confondendo (o meglio: fondendo insieme) la luna con un lampione diventa pensabile avanzare nella costruzione testuale, parola dopo parola.
La raccolta di Valerio Mello consta di 41 componimenti, suddivisi in due sezioni intitolate rispettivamente Milano interna, città esterna e Mosche. Naturalmente, per ovvie ragioni di spazio, in questa sede non sarà certo possibile analizzarli tutti. Il che ci consentirebbe di proseguire in due modi differenti: optare per uno sguardo d’insieme, oppure concentrarci su alcune singole poesie. Personalmente, non ho dubbi nel preferire la seconda opzione, essenzialmente per due motivi: per prima cosa essa ci consente di scoprire e di apprezzare lo stile dell’autore, oltre a permetterci di soffermarci brevemente sui contenuti; inoltre sono convinto che uno sguardo d’insieme risulterebbe dispersivo, soprattutto in considerazione del fatto che il lettore presumibilmente non conosce i versi di Mello. Sceglierò pertanto tre componimenti, accompagnandoli di volta in volta con un breve commento. Prima di iniziare la lettura, però, sarà utile tenere presente – a mo’ di avvertenza – il giudizio conclusivo di Alessandro Quasimodo: Mello «coglie con metodo attento e spietato ogni aspetto del mondo circostante per scannerizzarlo». La sua poesia, pertanto, è un costante, ostinato percorso di ricerca interiore.
Procediamo dunque con l’analisi dei tre componimenti selezionati. Il primo si intitola «Cantieri»:
A volte lasciarmi trascinare dai palazzi in restauro, / dalle facciate sotto la pioggia sfocate, / dagli scavi e dai cumuli di terra rimossa; / a volte lasciarmi sovrastare dal grembo di nuvola / che parla nel valico estremo. / Credevo l’ispirazione nascesse dal silenzio, / nella pace di una collina con sole di vento, / ma debbo ricredermi con meraviglia. / Comincio ad amare il sapore del fuori, / all’incrocio in tua attesa, sostando come semaforo / e senza mai resa, corpo a corpo con l’andirivieni / dello sconvolgimento, comincio a leggermi / saliva d’asfalto e cantiere d’incendio.
A chi si riferisce Mello quando afferma di essere in tua attesa? Con tutta evidenza, il poeta sta parlando della propria ispirazione, che non nasce necessariamente in un luogo calmo e silenzioso. Il punto è che tutto, potenzialmente, è poesia. Persino un cantiere o i grigi palazzi di una città possono racchiudere (e, se adeguatamente “sollecitati”, schiudere) significati profondi, all’apparenza imperscrutabili. Tutto sta nel nostro sguardo, che può essere superficiale (il che accade quando ci si limita a guardare, senza vedere realmente nulla) o penetrante. Un po’ come uno storico, per il quale una fonte “parla” solo a patto che le vengano poste le domande giuste, Mello va alla ricerca di tutto ciò che è in grado di comunicargli qualcosa: e lo trova gustando il sapore del fuori.
Per il secondo componimento, la scelta è ricaduta su «Dubbio»:
La voce dice sereno il cielo, / quieto il peso della polvere sulle strade. / La voce limpida sull’odore della vernice / nel secchio fresco di ore, mattine / intere di torbida insignificanza. / Cade da ogni immagine questa domanda: / esterna vita, interna foschia. / Dove ritrovarti, certezza, se mai sei stata mia? / E sentirmi ferito, e sentirmi libero / a tratti nel chiarore del dubbio.
L’aspetto più sorprendente di questa poesia è l’accostamento di due concetti, apparentemente inconciliabili, quali la libertà e il dubbio. Mello afferma di non avere certezze, inaccessibili a causa  dell’interna foschia: ma è proprio dall’assenza di certezze (la quale, per certi versi, è pur sempre una condizione che fa sì che il poeta si senta inevitabilmente ferito) che nasce l’esigenza della ricerca, di un’indagine esistenziale, cioè, che rappresenta la più elevata espressione della libertà umana. Cos’altro è, del resto, la vita, se non un incessante inseguire certezze che continuamente ci sfuggono? E come concepire un’esistenza senza l’affanno della ricerca? Forse, quando tutto risulterà chiaro ai nostri occhi, quando i dubbi svaniranno e non ci sarà più nulla (e nessuno) da interrogare, vorrà dire che saremo giunti al capolinea. Solo a quel punto avremo certezze, e compiremo il passo che separa la libertà dalla quiete.
L’ultimo componimento, infine, si intitola «Non ho più rivestimenti»:
Non ho più rivestimenti / come lo scheletro dell’albero / che umido di pioggia / mostra al cielo segni di sconfitta, / rami penduli. / Dimentico / la conoscenza degli indumenti, / il calore dell’essere coperti, / riscaldati, protetti, / orfano sotto getti piovani / approvo un profilo di lenta morte / che mai muore / e non vedo ancora domani.
L’immagine suggerita da Mello in questo componimento è particolarmente efficace: il poeta – che intende mettersi a nudo nel tentativo di avvicinarsi all’essenza delle cose – si rappresenta come lo scheletro dell’albero, simbolo della sua anima che rifiuta ogni genere di rivestimento. Egli vorrebbe dimenticare la conoscenza degli indumenti, mettere da parte tutte le componenti superficiali (e superflue) dell’esistenza, per concentrarsi esclusivamente su di sé e sulla propria affannosa ricerca. Ma il problema è che il percorso è accidentato, quasi impossibile da percorrere: Mello instaura un contatto diretto con la morte (il che è un passo obbligato per avvicinarsi alla comprensione del senso della vita), ma ciò che infine gli resta tra le mani non è altro che un profilo di lenta morte che mai muore. L’essenza delle cose, in altre parole, gli sfugge, poiché in fondo non è alla portata di nessun essere umano. Con il risultato che il domani – ovvero un futuro rassicurante in cui poter accettare con serenità la caducità dell’esistenza terrena – resta cupo, inaccessibile e, per questo, minaccioso.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero