domenica 22 febbraio 2015

«Tre croci»: l’alto valore simbolico di un gesto di pietà

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 febbraio 2015)

Federigo Tozzi scrisse Tre croci di getto, in poco più di due settimane, nell’autunno del 1918. Il romanzo uscì tuttavia due anni dopo – proprio nei giorni della morte dell’autore (che nel 1920 aveva appena trentasette anni), occorsa a causa di una forte polmonite – e riscosse subito un notevole successo, tagliando in breve il traguardo delle diecimila copie vendute. Oggi di quella favorevole accoglienza da parte del pubblico dei lettori resta assai poco, ed è sufficiente sfogliare una qualsiasi storia della letteratura per constatare che a Tozzi sono dedicate poche pagine (davvero troppo poche, verrebbe da aggiungere). A cosa è dovuta questa sostanziale caduta nell’oblio?
Carlo Cassola – che a Tozzi ha dedicato pagine bellissime – pone l’accento in particolare sul presunto regionalismo dello scrittore senese, amante in effetti dei toscanismi e spesso legato a un mondo (quello della sua città natale) da più parti considerato angusto, chiuso in se stesso. Ma la verità è che «Tozzi vede la condizione umana al di fuori di ogni schema» e «ha la vista troppo più acuta di quella degli uomini di cultura». Nelle sue pagine ogni aspetto dell’esistenza diviene problematico, in una perenne tensione – si potrebbe dire – tra l’essere, il dover essere e il voler essere che fa dei personaggi uno strumento perfetto per indagare «la verità sulla vita».
Tre croci è la storia dei tre fratelli Gambi – Giulio, Niccolò ed Enrico –, proprietari di una libreria a Siena che, aperta in origine dal padre, ormai da tempo non frutta più alcun guadagno. Rosi dall’abulia, malati di gotta e incapaci di risollevarsi economicamente, per scongiurare il fallimento essi hanno architettato una truffa ai danni del cavalier Nicchioli (loro amico e cliente), falsificando la sua firma su diverse cambiali. A orchestrare il tutto è Giulio, il più intelligente dei tre fratelli, per il quale, col tempo, l’odioso stratagemma finisce per diventare un’abitudine, tanto che – scrive Tozzi – «lo preoccupava piuttosto per la puntualità che ci voleva». Seppur profondamente turbato dalla propria condotta, egli pareva «perfino lusingato che ormai da tre anni la cosa andasse bene: avevano preso più di cinquantamila lire senza destare alcun sospetto, e il cavaliere Orazio Nicchioli, che aveva fatto da vero il favore di firmare qualche cambiale, non indovinava ancora niente. Seguitava sempre ad essere il loro amico, e ad andare alla libreria tutte le sere; a fare la chiacchierata».
Pur non avendo il denaro per estinguere il debito, i tre fratelli si sforzano di vivere come se il problema non esistesse, e non confessano nulla alla moglie di Niccolò (Modesta) e alle loro due nipoti (Lola e Chiarina). Di fatto, però, essi conducono un’esistenza passiva, nella lunga, snervante attesa che accada l’inevitabile e il male trascini tutti nel baratro. Più che vivere, i Gambi sopravvivono, tirano avanti nauseati da tutto ciò che li circonda, incuranti del rischio di venire travolti dallo scandalo che si diffonderebbe se venisse scoperta la loro truffa. Il risultato è che le giornate trascorrono nella più totale indifferenza, con Giulio che conversa educatamente con gli studiosi che frequentano la libreria e dà a tutti l’impressione di avere la testa sulle spalle; con Niccolò che, stravagante e imprevedibile, soggetto a frequenti scatti d’ira eppure incline alle burle, si distrae godendosi pasti raffinati; ed Enrico che, inetto, burbero e abituale frequentatore dell’osteria, trascorre in bottega (una legatoria posta accanto alla libreria di famiglia) il minor tempo possibile poiché, anche se non lo ammette apertamente, detesta il suo lavoro.
Il dramma dell’intera famiglia Gambi consiste nell’impossibilità di vivere in libertà, giacché tutti e tre i fratelli sono inesorabilmente prigionieri della menzogna di cui sono gli unici responsabili. Giulio, preso dallo sconforto per una situazione fattasi insostenibile, si rende conto di tutto ciò quando, nella seconda parte del romanzo, inizia a pensare alla morte come al solo rimedio: «La paura che io ho di sbagliare a prendere qualche decisione, l’impossibilità anzi di prenderla, è la causa della mia indifferenza». L’abbandono della speranza e la consapevolezza di doversi fare carico di una sofferenza non più evitabile sono all’origine di un’apatia che è sinonimo di rassegnazione. È solo questione di tempo, in altre parole, perché la catastrofe arrivi. Non c’è scampo. E infatti è sufficiente che un impiegato della banca, insospettitosi di fronte all’ennesima cambiale, avvisi il Nicchioli, per far sì che ai Gambi crolli il mondo sotto i piedi.
Giulio, incapace di portare il peso della pubblica umiliazione, si impicca, sacrificando se stesso e facendo ricadere su di sé ogni responsabilità («Se io accettassi di vivere, giacché non mi sento per ora nessun male, sarebbe lo stesso io trovassi gusto a farmi martoriare»). Niccolò ed Enrico – che pure vengono assolti al processo, scaricando la colpa sul fratello defunto – sono anch’essi impossibilitati a scrollarsi di dosso il peso della tragedia: il primo, dopo avere trovato impiego come agente d’assicurazione, muore in breve tempo per un colpo di apoplessia; il secondo, ridotto in miseria e costretto all’accattonaggio, finisce miseramente i suoi giorni nell’Ospizio di Mendicità, in completa solitudine. Alla morte del terzo fratello (stroncato da «una nuova crisi di gotta»), Lola e Chiarina, mosse a compassione, rompono il salvadanaio per comprare tre croci uguali, da collocare nel cimitero in corrispondenza delle tombe degli zii.
A proposito del finale del romanzo, vale la pena citare il commento di Cassola: «Enrico, Niccolò, Giulio, sono finiti male; ma non sono vissuti invano, ce lo dice l’estremo atto di pietà delle nipoti […]. Anche questa etichetta appiccicata a Tozzi, d’essere un pessimista, […] si rivela una formula di comodo». Il gesto di Lola e Chiarina, infatti, riabilita la memoria degli zii e offre al lettore una possibile via d’uscita dalla cupa atmosfera di morte che domina l’intera vicenda. Ha ragione infatti Cassola: i tre fratelli non sono vissuti invano, se non altro perché ci sono persone (Modesta e le nipoti) cui sta a cuore il loro destino.
Il finale stravolge il senso di tutto il romanzo, che di colpo (e inaspettatamente) viene ricalibrato secondo una prospettiva chiaramente cristiana. La morte, in altre parole, non è il solo esito possibile di fronte al fallimento: ciò che può sembrare ineluttabile – ovvero il suicidio di Giulio, innesco di una reazione a catena che pare inarrestabile – è in realtà la conseguenza di una libera volontà. Non c’è nulla di prestabilito o di preordinato: ogni uomo, per quanto afflitto e devastato dal dolore, è arbitro del proprio destino, e può sempre trovare il modo per riscattarsi, anche quando tutto sembra perduto. A uccidere i tre fratelli non è, in definitiva, il dissesto finanziario, ma l’assenza di fede, che si palesa nel momento in cui avviene la dissoluzione dell’unico mondo – superficiale, fatto di convenzioni sociali e di rapporti del tutto impersonali – che i Gambi conoscono. Giulio, Niccolò ed Enrico vivono, in sostanza, con gli occhi chiusi (si ricordi che Con gli occhi chiusi è il titolo del più celebre romanzo di Tozzi), non sono cioè in grado di scorgere nulla al di là delle loro piatte esistenze ossessionate dai beni materiali. Dal loro punto di vista, la perdita della rispettabilità sociale è un ostacolo troppo grande da superare, col risultato che essi in pratica decidono di autoannientarsi, essendo venuta a mancare una qualsiasi valida ragione di vita.
L’unico che parzialmente riesce a riscattarsi prima di morire è Enrico, il quale, durante la sua permanenza all’Ospizio di Mendicità, trova la forza di andare avanti pensando costantemente alle nipoti: «Una mattina, mentre raccattava le potature, disse a quelli come lui: “Se io muoio presto, vi prego di dire alle mie due nipoti, che verranno a vedermi, che io mi ero messo a lavorare”. Gli altri alzarono gli occhi da terra; e lo guardarono, senza rispondergli. Allora, egli si spiegò: “Anch’io ho un briciolo di coscienza. E soltanto quelle bambine capiscono che è vero”».
In queste parole è racchiusa tutta la profonda umanità dello scrittore, per il quale basta davvero poco per vincere il desiderio di lasciarsi andare. Enrico, cioè, a rigor di logica – la logica, s’intende, sottesa a tutto il resto del racconto – dovrebbe auspicare la propria morte, dal momento che ha perso tutto, beni materiali, rispettabilità e credibilità. Eppure, proprio prima di abbandonare questa vita, ha un sussulto e si impegna per far sì che le nipoti possano conservare di lui un ultimo, positivo ricordo (in quest’ottica, le tre croci sono la prova che egli alla fine riesce nel suo intento). Dopo tanta desolazione, lo scritto di Tozzi si conclude con un piccolo, grande gesto d’amore: e il romanzo acquista tutto un altro sapore.

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«Il sentiero dei nidi di ragno»: la guerra civile vista attraverso gli occhi di un bambino

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 febbraio 2015)

Uscito nel 1947, Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino è senza dubbio uno dei romanzi più riusciti nel vasto panorama della cosiddetta letteratura resistenziale. I suoi pregi fondamentali sono essenzialmente due: da un lato la totale assenza di pagine celebrative o caratterizzate da un tono didascalico; dall’altro la scelta di raccontare la vicenda attraverso il punto di vista straniante e deformante del protagonista Pin, un bambino trascinato a forza nel mondo dei grandi e costretto a vivere una guerra che ai suoi occhi pare un gioco al contempo minaccioso ed entusiasmante.
Pin è un bambino orfano di madre, abbandonato dal padre marinaio e affidato alle cure della sorella prostituta, che lo cresce con la più totale trascuratezza. I due vivono a San Remo, sulla riviera ligure, abbandonati a se stessi e costretti ad arrangiarsi come possono nel tragico contesto della guerra civile, dopo l’8 settembre 1943.
A dispetto della sua giovane età, Pin fa già parte del mondo degli adulti. Frequenta l’osteria, dove intrattiene gli avventori con canzonacce e battute volgari, e più in generale conduce un’esistenza sbandata scorrazzando per i vicoli degli ambienti malfamati della città. Dal suo punto di vista, gli uomini sono esseri privi di logica, inspiegabilmente attratti dall’altro sesso e incapaci di comportarsi con un minimo di coerenza. Per Pin, infatti, l’esigenza primaria è quella di farsi pienamente accettare da un mondo dal quale si sente respinto, emarginato in quanto bambino: ma ogni tentativo che fa in questa direzione è frustrato dall’inaffidabilità degli adulti, che prima lo illudono, poi si prendono gioco di lui.
Per questo Pin ama farsi beffe dei grandi, anche se farebbe di tutto pur di compiacerli. Così, quando all’osteria gli chiedono di rubare la pistola P38 in dotazione al marinaio tedesco che abitualmente fa visita a sua sorella, egli non si tira indietro e porta a termine con successo la “missione”. Si aspetterebbe un premio per il suo atto di lealtà e coraggio, ma al suo ritorno è accolto con freddezza, quasi con indifferenza. Nessuno, infatti, fa caso alla pistola che nasconde sotto la giacchetta; il che significa che nessuno – realizza prontamente il ragazzo – lo aveva realmente creduto all’altezza del compito assegnatogli.   
Pin si sente tradito e umiliato. Decide pertanto di tenere per sé la pistola, e per evitare di essere scoperto va a seppellirla nei campi in un posto segreto – che solo lui conosce –, «dove fanno il nido i ragni». Scoperto dai tedeschi – che lo trovano con il cinturone, ma senza la fondina della pistola –, il ragazzo è condotto in prigione, ma riesce ad evadere con l’aiuto di Lupo Rosso, un giovane ed audace partigiano. Una volta fuori, però, i due si separano, e Pin si ritrova a girovagare solitario per i boschi, finché non si imbatte in Cugino, un omone dall’aria mite che lo conduce al suo distaccamento di partigiani. La formazione è sotto il comando di un certo Dritto ed è composta da uomini ritenuti poco affidabili. «Nel distaccamento del Dritto ci mandano le carogne, i più scalcinati della brigata», dirà in seguito Lupo Rosso, in occasione di un fortuito incontro con il piccolo vecchio compagno di prigionia.
A Pin viene assegnato il ruolo di aiuto-cuciniere, in quello che a lui sembra un grande fantastico gioco fatto di armi, di spedizioni, di prigionieri e di tedeschi dalla parlata incomprensibile. La formazione è però realmente sgangherata: in pratica vi succede di tutto, con il Dritto che inavvertitamente dà fuoco all’accampamento, litiga con Pelle causandone indirettamente il tradimento e intrattiene una relazione clandestina con Giglia, moglie di Mancino (il cuoco). Di fatto, sarà proprio l’atto di denuncia dei due amanti la causa dell’allontanamento di Pin (il quale, naturalmente, crede di scherzare quando racconta ciò che ha visto e apostrofa Mancino dandogli del cornuto). Disgustato dal mondo degli adulti, il ragazzo abbandona il distaccamento e si rifugia nel suo luogo segreto: ma quando vi giunge, scopre che il terreno è stato smosso e la P38 è sparita. Pin non ha dubbi: è stato Pelle – che gli aveva detto di sapere dove vanno a fare il nido i ragni – a sottrargli la pistola, un oggetto cui lui, bambino sognatore, si era affezionato in quanto sinonimo di indipendenza e di potere sugli uomini.
Sconsolato, Pin fa ritorno a casa. Vi ritrova la sorella, nel frattempo divenuta spia dei tedeschi, e per coincidenza recupera la pistola, donata alla donna proprio da Pelle, che era stato suo cliente. Lasciata l’abitazione, il ragazzo si ritira nei boschi, dove per caso incontra Cugino, «col mitra e il berrettino di lana». Il partigiano è un tipo scontroso e solitario, ma è l’unico che tratta Pin con umanità («Ha trovato Cugino, e Cugino è il grande amico tanto cercato, quello che s’interessa dei nidi di ragno»). D’un tratto, però, rivolge al ragazzo una domanda inattesa: «Vedi: son già mesi e mesi che non vado con una donna… Tu capisci queste cose». Pin è lusingato poiché si sente di nuovo importante, anche se avrebbe preferito che Cugino non fosse come tutti gli altri adulti, con quella loro incomprensibile attrazione per l’altro sesso. Ad ogni modo, dà istruzioni su come trovare la sorella, e i due si separano. Poco dopo, dalla città giunge il rumore di alcuni spari. Pin teme per la vita di Cugino, ma questi sbuca nuovamente dall’ombra: «Sai, m’è venuto schifo e me ne sono andato senza far niente».
A questo punto è evidente che il vero, grande amico di Pin altri non può essere che il partigiano che si interessa dei nidi di ragno. Il romanzo si conclude con la descrizione dei due che si allontanano: «E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano».
Calvino, giacché adotta il punto di vista del ragazzo, non dice apertamente ciò che tuttavia è quantomeno lecito arguire: Cugino ha dovuto eseguire la condanna della sorella di Pin, spia dei tedeschi. C’è un forte senso di pietà nel suo comportamento, una umanità – come notò Cesare Pavese – acuita dal marcato tono fiabesco con cui è narrata l’intera vicenda. La guerra impone infatti delle scelte drastiche – e ci sono cose che vanno fatte, senza esitare –, ma ciò deve spingere i sopravvissuti a trovare un punto d’incontro nella solidarietà, un comune senso di appartenenza nella volontaria sottomissione a un ideale di giustizia.
Calvino non ha dubbi su chi siano i giusti, e nella Presentazione scritta appositamente per l’edizione del 1964 si rivolge provocatoriamente ai detrattori della Resistenza con queste parole: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere».
Eppure c’è qualcosa di ben più complesso nel romanzo, qualcosa di sottinteso, forse anche per una questione di pudore. È sempre la Presentazione a fare un po’ di chiarezza. Calvino afferma di sentire il peso della responsabilità di doversi fare testimone di un’epoca e di un’esperienza vissuta tra mille incertezze; ma percepisce se stesso come inadeguato, in quanto partigiano borghese, certo un po’ atipico, che inizialmente «aveva preso la guerra come un alibi». Ecco allora che lo sguardo di Pin diventa quello dello scrittore, che si accosta ad un mondo da cui si sente al contempo attratto e respinto, un mondo affascinante ma distante per ideologia e cultura. Calvino avverte cioè l’esigenza di fare qualcosa nel drammatico contesto della guerra civile, ma nel momento in cui si risolve a fare una scelta di campo non è sostenuto da granitiche certezze, bensì solo da un indefinito (e indefinibile) senso del dovere: «La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” […]. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione».
Con tutta evidenza, siamo ben distanti da qualunque intento celebrativo della Resistenza, che per Calvino il più delle volte non è altro che il frutto di un’istintiva ribellione a un mondo minaccioso, mai rassicurante, ma sostanzialmente indecifrabile. Cosa spinge dunque poveracci, sbandati e intellettuali delusi a imbracciare il fucile? Cosa possono avere in comune categorie sociali tra loro così distanti? Probabilmente – si legge nel capitolo IX, dedicato alle riflessioni più propriamente politiche – il coraggio, il furore che impone di desiderare un cambiamento, anche se non si sa bene di che genere. A fare la differenza è «l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impedimento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso».
Detto altrimenti, la guerra obnubila le menti, ed è troppo facile, dopo, fare retorica, come se tutto fosse stato chiaro sin dal primo giorno. Poi, certo: c’è la storia. E «noi [i partigiani], nella storia, siamo dalla parte del riscatto», dalla parte del cambiamento che trionfa sul tentativo di fossilizzare la realtà in un eterno presente. Calvino sa di aver fatto la scelta giusta, anche se non sa spiegare fino in fondo perché l’ha fatta. Come un bambino che vaga solitario per i boschi, respinto dall’ostile mondo dei grandi, anch’egli avrebbe bisogno di essere preso per mano.

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I torti del fratello maggiore: la parabola del figliol prodigo nelle pagine de «La più bella avventura» di don Mazzolari

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° febbraio 2015)

Pubblicata nel 1934 dopo avere ricevuto l’imprimatur della curia bresciana, La più bella avventura di don Primo Mazzolari – originale rilettura della parabola del figliol prodigo – venne condannata l’anno seguente dal Sant’Uffizio, in quanto ritenuta opera dal contenuto «erroneo». Immediatamente, lo scritto venne ritirato dal commercio, con grande imbarazzo e sconcerto del suo autore, che tutto si aspettava fuorché di andare incontro a una così esemplare e categorica punizione.
Oggi il motivo della condanna pare più facilmente comprensibile: focalizzando l’attenzione sulla figura del fratello maggiore – giudicato severamente «un infingardo: uno che non ha fatto per paura di far male» –, Mazzolari aveva inteso «gettare un ponte ai lontani», convinto che la Chiesa (ovvero, metaforicamente, la casa del padre nella parabola del Vangelo di Luca) non potesse chiudersi in se stessa, escludere i reprobi e trasformarsi in una sorta di «club della gente onesta». Egli però fu frainteso: troppo rischioso – gli risposero da Roma – spendere così tante energie per recuperare chi deliberatamente non vuole avere più nulla a che fare con la Chiesa. Meglio concentrarsi su chi sta dentro, su chi merita cioè (al pari del fratello maggiore) più alta considerazione e riconoscenza.
Per Mazzolari, tuttavia, questo non è il modo corretto di leggere la parabola. Gesù – afferma – è venuto per tutti, non solo per i giusti. Anzi: per assurdo, questi ultimi hanno meno bisogno di lui rispetto ai peccatori, i quali sono i veri destinatari del messaggio evangelico. Anche perché tutti sono peccatori, e Gesù diviene fonte di conforto proprio quando sopraggiunge l’errore, la debolezza, il dolore. Qui non si tratta di avere torto o ragione. Non c’è dubbio, infatti, che il prodigo pecchi nei confronti del padre: «Il maggiore – scrive Mazzolari – ha ragione: fin troppo ragione; vede chiaro, fin troppo chiaro. Non è la verità che manca. Egli conosce la Legge, tanto che non ha mai trasgredito nessun comandamento. Sa che fuori di casa ci sono le meretrici che divorano giovinezza e ricchezza». Ciò che invece non coglie è la presenza dell’amore, di quell’amore che fa sì che il padre veda sempre suo figlio nello scapestrato che si è ridotto a contendere le carrube ai porci, dopo aver scialacquato le sue sostanze. «Il cuore di Cristo non ha scompartimenti», prosegue Mazzolari: non divide i giusti dai peccatori.
Il fratello maggiore non conosce il perdono. Dipendesse da lui, il prodigo non sarebbe riaccolto nella casa del padre: troppo grave la sua colpa, troppo comodo pentirsi dopo che si è perso tutto. Dal suo punto di vista, il peccato è come un marchio a fuoco: indelebile! Le sue parole sono inequivocabili: «Dacché è tornato questo tuo figlio…». Per il maggiore, il prodigo non è più nemmeno un fratello, non è più suo, ma del padre. È divenuto a tutti gli effetti un estraneo. Tutto sta però nel chiedersi cosa significa perdonare. E, con l’aiuto dell’etimologia, è facile darsi una risposta: perdonare significa offrire in dono la remissione di una colpa. Non c’è nulla di razionale in questo: il perdono va al di là della ragione, non può essere imposto da nessuna legge, dal momento che non ha alcun senso, non è né giusto né sbagliato. In quanto dono, esso è un gesto d’amore che non risponde ad una precisa necessità, non presuppone alcun fine terreno. In altre parole, è assurdo domandare perché si perdona, giacché, se si tentasse di rispondere, non si troverebbero che buone ragioni per non giustificare il perdono stesso.
Mazzolari insiste a lungo su quella che egli definisce «la pretesa del privilegio». La rettitudine deve cioè avere valore in se stessa: non può diventare uno scudo per proteggersi dal rischio di contaminazione con chi si è smarrito. A chi può giovare, infatti, una tale visione manichea dell’esistenza, se non a coloro che non hanno alcun bisogno di aiuto? Il Vangelo, sottolinea il prete cremonese, è pieno di figure che pretendono di erigere barriere per tenere separati i giusti dagli improbi: «Le parabole del Signore si completano l’un l’altra. Certi personaggi ritornano con nomi diversi. […] Il maggiore lo si può facilmente riconoscere sotto le spoglie non mentite dell’infingardo nella parabola dei talenti, nella preghiera del fariseo al tempio, nel servo spietato che, perdonato, non perdona, nel sacerdote e nel levita che tirano dritto, nel figliuolo che dice di sì e poi non va, nel lavoratore della vigna che contratta la giornata e poi si lamenta della generosità del padrone verso quelli dell’ultima ora».
È interessante questo confronto, soprattutto perché mette in evidenza la complessità del messaggio evangelico. Gesù, in sostanza, non è stato capito se non da pochi. Le sue azioni e la sua parola, infatti, tendono a scandalizzare, proprio perché privilegiano gli ultimi, gli emarginati, gli esclusi. Il senso del suo agire è tanto semplice quanto difficile da accettare: ed è che nessuno può mai dirsi del tutto perduto, che esiste sempre la possibilità della conversione. Spesso anzi la pace interiore si conquista proprio attraverso l’inquietudine, la quale, di per sé, non è necessariamente un male. Scrive al riguardo Mazzolari: «L’insoddisfazione non è una colpa. Qualora non si riduca a compiacenza, l’inquietudine è una distinzione spirituale, un preannuncio di grazia. Essa è l’intuito doloroso del limite e dell’insufficienza che vi è nelle creature e in noi, per cui subito intelligenza e cuore se ne ritraggono delusi e contristati. […] L’anima insoddisfatta cerca, s’avvia, si ritrova. Le più belle pagine della chiesa furono scritte dalle anime inquiete».
Al contrario del prodigo – prosegue Mazzolari –, il fratello maggiore pecca di «quietudine». Entrambi sono egoisti, ma mentre per il primo il chiudersi in se stesso è «un punto di partenza», per il secondo è «un punto di approdo». La conversione, del resto, più che un ritorno è una rinascita, nel senso che per accogliere Dio dopo un periodo di perdizione è necessario risorgere a nuova vita. Le parole che il padre rivolge al figlio maggiore sono al riguardo molto eloquenti: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto e si è ritrovato». Chi può sfuggire a questo destino? Nessuno, a parere di Mazzolari: «Ogni uomo ha la sua conversione la quale, in un momento lunghissimo di essa, è una dispersione, che segna l’ordinario trapasso tra la presenza inconsapevole e l’accoglienza, consapevole e devota fino all’ultima divina esigenza. Il prodigo incomincia a convertirsi quando incomincia a staccarsi dalla casa. L’allontanamento può essere l’indizio di una lenta e pericolosa, ma provvidenziale elaborazione di un nuovo rapporto tra il Padre e il minore: il vero rapporto religioso».
Il principale torto del maggiore è pertanto quello di accontentarsi del quieto vivere, di non avvertire alcuna esigenza di confrontarsi con se stesso, con i propri dubbi e con le proprie paure. Egli crede di rispettare il genitore semplicemente perché non trasgredisce i suoi comandi, ma nel momento in cui viene messo alla prova dimostra di essere sostanzialmente un vile roso dall’invidia per il fratello. Non è certo un caso, infatti, che nel replicare alle rimostranze del figlio il padre evochi il concetto di giustizia: «Era giusto fare un banchetto e rallegrarsi…». Il maggiore, cioè, ragiona secondo il principio della giustizia distributiva, ovvero: mi sono comportato bene, quindi mi spetta un premio. Ma la giustizia di Dio tiene conto del cuore, non delle opere in quanto tali. A fare la differenza è l’animo – che deve essere mosso dall’amore –, non certo il risultato concreto di un’azione, ancorché buona. Ed è evidente che mentre il prodigo, recitando il suo confiteor, riesce finalmente a trovare Dio dentro di sé, il maggiore sprofonda in un cupo turbamento, che gli impedisce persino di rallegrarsi per il ritorno del fratello.
Siamo di fronte – è chiaro – a un messaggio non facile da accettare. Capita spesso, infatti, che il desiderio di veder punito chi sbaglia non sia accompagnato dalla volontà di correggerne gli errori. Reprimere al solo scopo di dividere il mondo tra buoni e cattivi può essere un modo rassicurante di gestire le difficoltà della vita, ma non è certo la via che dovrebbe imboccare il credente. «Non si vuol negare – conclude Mazzolari – la lotta tra il bene e il male. È un fatto. C’è di più: è un dovere. Si vuol negare la confusione troppo facile tra il male e coloro che al momento ne sono degli strumenti sia pure responsabili, costituendo in tal modo tra noi e loro una separazione in luogo di un’amorosa, sofferente fraternità».

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