domenica 22 febbraio 2015

«Il sentiero dei nidi di ragno»: la guerra civile vista attraverso gli occhi di un bambino

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 febbraio 2015)

Uscito nel 1947, Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino è senza dubbio uno dei romanzi più riusciti nel vasto panorama della cosiddetta letteratura resistenziale. I suoi pregi fondamentali sono essenzialmente due: da un lato la totale assenza di pagine celebrative o caratterizzate da un tono didascalico; dall’altro la scelta di raccontare la vicenda attraverso il punto di vista straniante e deformante del protagonista Pin, un bambino trascinato a forza nel mondo dei grandi e costretto a vivere una guerra che ai suoi occhi pare un gioco al contempo minaccioso ed entusiasmante.
Pin è un bambino orfano di madre, abbandonato dal padre marinaio e affidato alle cure della sorella prostituta, che lo cresce con la più totale trascuratezza. I due vivono a San Remo, sulla riviera ligure, abbandonati a se stessi e costretti ad arrangiarsi come possono nel tragico contesto della guerra civile, dopo l’8 settembre 1943.
A dispetto della sua giovane età, Pin fa già parte del mondo degli adulti. Frequenta l’osteria, dove intrattiene gli avventori con canzonacce e battute volgari, e più in generale conduce un’esistenza sbandata scorrazzando per i vicoli degli ambienti malfamati della città. Dal suo punto di vista, gli uomini sono esseri privi di logica, inspiegabilmente attratti dall’altro sesso e incapaci di comportarsi con un minimo di coerenza. Per Pin, infatti, l’esigenza primaria è quella di farsi pienamente accettare da un mondo dal quale si sente respinto, emarginato in quanto bambino: ma ogni tentativo che fa in questa direzione è frustrato dall’inaffidabilità degli adulti, che prima lo illudono, poi si prendono gioco di lui.
Per questo Pin ama farsi beffe dei grandi, anche se farebbe di tutto pur di compiacerli. Così, quando all’osteria gli chiedono di rubare la pistola P38 in dotazione al marinaio tedesco che abitualmente fa visita a sua sorella, egli non si tira indietro e porta a termine con successo la “missione”. Si aspetterebbe un premio per il suo atto di lealtà e coraggio, ma al suo ritorno è accolto con freddezza, quasi con indifferenza. Nessuno, infatti, fa caso alla pistola che nasconde sotto la giacchetta; il che significa che nessuno – realizza prontamente il ragazzo – lo aveva realmente creduto all’altezza del compito assegnatogli.   
Pin si sente tradito e umiliato. Decide pertanto di tenere per sé la pistola, e per evitare di essere scoperto va a seppellirla nei campi in un posto segreto – che solo lui conosce –, «dove fanno il nido i ragni». Scoperto dai tedeschi – che lo trovano con il cinturone, ma senza la fondina della pistola –, il ragazzo è condotto in prigione, ma riesce ad evadere con l’aiuto di Lupo Rosso, un giovane ed audace partigiano. Una volta fuori, però, i due si separano, e Pin si ritrova a girovagare solitario per i boschi, finché non si imbatte in Cugino, un omone dall’aria mite che lo conduce al suo distaccamento di partigiani. La formazione è sotto il comando di un certo Dritto ed è composta da uomini ritenuti poco affidabili. «Nel distaccamento del Dritto ci mandano le carogne, i più scalcinati della brigata», dirà in seguito Lupo Rosso, in occasione di un fortuito incontro con il piccolo vecchio compagno di prigionia.
A Pin viene assegnato il ruolo di aiuto-cuciniere, in quello che a lui sembra un grande fantastico gioco fatto di armi, di spedizioni, di prigionieri e di tedeschi dalla parlata incomprensibile. La formazione è però realmente sgangherata: in pratica vi succede di tutto, con il Dritto che inavvertitamente dà fuoco all’accampamento, litiga con Pelle causandone indirettamente il tradimento e intrattiene una relazione clandestina con Giglia, moglie di Mancino (il cuoco). Di fatto, sarà proprio l’atto di denuncia dei due amanti la causa dell’allontanamento di Pin (il quale, naturalmente, crede di scherzare quando racconta ciò che ha visto e apostrofa Mancino dandogli del cornuto). Disgustato dal mondo degli adulti, il ragazzo abbandona il distaccamento e si rifugia nel suo luogo segreto: ma quando vi giunge, scopre che il terreno è stato smosso e la P38 è sparita. Pin non ha dubbi: è stato Pelle – che gli aveva detto di sapere dove vanno a fare il nido i ragni – a sottrargli la pistola, un oggetto cui lui, bambino sognatore, si era affezionato in quanto sinonimo di indipendenza e di potere sugli uomini.
Sconsolato, Pin fa ritorno a casa. Vi ritrova la sorella, nel frattempo divenuta spia dei tedeschi, e per coincidenza recupera la pistola, donata alla donna proprio da Pelle, che era stato suo cliente. Lasciata l’abitazione, il ragazzo si ritira nei boschi, dove per caso incontra Cugino, «col mitra e il berrettino di lana». Il partigiano è un tipo scontroso e solitario, ma è l’unico che tratta Pin con umanità («Ha trovato Cugino, e Cugino è il grande amico tanto cercato, quello che s’interessa dei nidi di ragno»). D’un tratto, però, rivolge al ragazzo una domanda inattesa: «Vedi: son già mesi e mesi che non vado con una donna… Tu capisci queste cose». Pin è lusingato poiché si sente di nuovo importante, anche se avrebbe preferito che Cugino non fosse come tutti gli altri adulti, con quella loro incomprensibile attrazione per l’altro sesso. Ad ogni modo, dà istruzioni su come trovare la sorella, e i due si separano. Poco dopo, dalla città giunge il rumore di alcuni spari. Pin teme per la vita di Cugino, ma questi sbuca nuovamente dall’ombra: «Sai, m’è venuto schifo e me ne sono andato senza far niente».
A questo punto è evidente che il vero, grande amico di Pin altri non può essere che il partigiano che si interessa dei nidi di ragno. Il romanzo si conclude con la descrizione dei due che si allontanano: «E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano».
Calvino, giacché adotta il punto di vista del ragazzo, non dice apertamente ciò che tuttavia è quantomeno lecito arguire: Cugino ha dovuto eseguire la condanna della sorella di Pin, spia dei tedeschi. C’è un forte senso di pietà nel suo comportamento, una umanità – come notò Cesare Pavese – acuita dal marcato tono fiabesco con cui è narrata l’intera vicenda. La guerra impone infatti delle scelte drastiche – e ci sono cose che vanno fatte, senza esitare –, ma ciò deve spingere i sopravvissuti a trovare un punto d’incontro nella solidarietà, un comune senso di appartenenza nella volontaria sottomissione a un ideale di giustizia.
Calvino non ha dubbi su chi siano i giusti, e nella Presentazione scritta appositamente per l’edizione del 1964 si rivolge provocatoriamente ai detrattori della Resistenza con queste parole: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere».
Eppure c’è qualcosa di ben più complesso nel romanzo, qualcosa di sottinteso, forse anche per una questione di pudore. È sempre la Presentazione a fare un po’ di chiarezza. Calvino afferma di sentire il peso della responsabilità di doversi fare testimone di un’epoca e di un’esperienza vissuta tra mille incertezze; ma percepisce se stesso come inadeguato, in quanto partigiano borghese, certo un po’ atipico, che inizialmente «aveva preso la guerra come un alibi». Ecco allora che lo sguardo di Pin diventa quello dello scrittore, che si accosta ad un mondo da cui si sente al contempo attratto e respinto, un mondo affascinante ma distante per ideologia e cultura. Calvino avverte cioè l’esigenza di fare qualcosa nel drammatico contesto della guerra civile, ma nel momento in cui si risolve a fare una scelta di campo non è sostenuto da granitiche certezze, bensì solo da un indefinito (e indefinibile) senso del dovere: «La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” […]. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione».
Con tutta evidenza, siamo ben distanti da qualunque intento celebrativo della Resistenza, che per Calvino il più delle volte non è altro che il frutto di un’istintiva ribellione a un mondo minaccioso, mai rassicurante, ma sostanzialmente indecifrabile. Cosa spinge dunque poveracci, sbandati e intellettuali delusi a imbracciare il fucile? Cosa possono avere in comune categorie sociali tra loro così distanti? Probabilmente – si legge nel capitolo IX, dedicato alle riflessioni più propriamente politiche – il coraggio, il furore che impone di desiderare un cambiamento, anche se non si sa bene di che genere. A fare la differenza è «l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impedimento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso».
Detto altrimenti, la guerra obnubila le menti, ed è troppo facile, dopo, fare retorica, come se tutto fosse stato chiaro sin dal primo giorno. Poi, certo: c’è la storia. E «noi [i partigiani], nella storia, siamo dalla parte del riscatto», dalla parte del cambiamento che trionfa sul tentativo di fossilizzare la realtà in un eterno presente. Calvino sa di aver fatto la scelta giusta, anche se non sa spiegare fino in fondo perché l’ha fatta. Come un bambino che vaga solitario per i boschi, respinto dall’ostile mondo dei grandi, anch’egli avrebbe bisogno di essere preso per mano.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi

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