domenica 22 febbraio 2015

«Tre croci»: l’alto valore simbolico di un gesto di pietà

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 febbraio 2015)

Federigo Tozzi scrisse Tre croci di getto, in poco più di due settimane, nell’autunno del 1918. Il romanzo uscì tuttavia due anni dopo – proprio nei giorni della morte dell’autore (che nel 1920 aveva appena trentasette anni), occorsa a causa di una forte polmonite – e riscosse subito un notevole successo, tagliando in breve il traguardo delle diecimila copie vendute. Oggi di quella favorevole accoglienza da parte del pubblico dei lettori resta assai poco, ed è sufficiente sfogliare una qualsiasi storia della letteratura per constatare che a Tozzi sono dedicate poche pagine (davvero troppo poche, verrebbe da aggiungere). A cosa è dovuta questa sostanziale caduta nell’oblio?
Carlo Cassola – che a Tozzi ha dedicato pagine bellissime – pone l’accento in particolare sul presunto regionalismo dello scrittore senese, amante in effetti dei toscanismi e spesso legato a un mondo (quello della sua città natale) da più parti considerato angusto, chiuso in se stesso. Ma la verità è che «Tozzi vede la condizione umana al di fuori di ogni schema» e «ha la vista troppo più acuta di quella degli uomini di cultura». Nelle sue pagine ogni aspetto dell’esistenza diviene problematico, in una perenne tensione – si potrebbe dire – tra l’essere, il dover essere e il voler essere che fa dei personaggi uno strumento perfetto per indagare «la verità sulla vita».
Tre croci è la storia dei tre fratelli Gambi – Giulio, Niccolò ed Enrico –, proprietari di una libreria a Siena che, aperta in origine dal padre, ormai da tempo non frutta più alcun guadagno. Rosi dall’abulia, malati di gotta e incapaci di risollevarsi economicamente, per scongiurare il fallimento essi hanno architettato una truffa ai danni del cavalier Nicchioli (loro amico e cliente), falsificando la sua firma su diverse cambiali. A orchestrare il tutto è Giulio, il più intelligente dei tre fratelli, per il quale, col tempo, l’odioso stratagemma finisce per diventare un’abitudine, tanto che – scrive Tozzi – «lo preoccupava piuttosto per la puntualità che ci voleva». Seppur profondamente turbato dalla propria condotta, egli pareva «perfino lusingato che ormai da tre anni la cosa andasse bene: avevano preso più di cinquantamila lire senza destare alcun sospetto, e il cavaliere Orazio Nicchioli, che aveva fatto da vero il favore di firmare qualche cambiale, non indovinava ancora niente. Seguitava sempre ad essere il loro amico, e ad andare alla libreria tutte le sere; a fare la chiacchierata».
Pur non avendo il denaro per estinguere il debito, i tre fratelli si sforzano di vivere come se il problema non esistesse, e non confessano nulla alla moglie di Niccolò (Modesta) e alle loro due nipoti (Lola e Chiarina). Di fatto, però, essi conducono un’esistenza passiva, nella lunga, snervante attesa che accada l’inevitabile e il male trascini tutti nel baratro. Più che vivere, i Gambi sopravvivono, tirano avanti nauseati da tutto ciò che li circonda, incuranti del rischio di venire travolti dallo scandalo che si diffonderebbe se venisse scoperta la loro truffa. Il risultato è che le giornate trascorrono nella più totale indifferenza, con Giulio che conversa educatamente con gli studiosi che frequentano la libreria e dà a tutti l’impressione di avere la testa sulle spalle; con Niccolò che, stravagante e imprevedibile, soggetto a frequenti scatti d’ira eppure incline alle burle, si distrae godendosi pasti raffinati; ed Enrico che, inetto, burbero e abituale frequentatore dell’osteria, trascorre in bottega (una legatoria posta accanto alla libreria di famiglia) il minor tempo possibile poiché, anche se non lo ammette apertamente, detesta il suo lavoro.
Il dramma dell’intera famiglia Gambi consiste nell’impossibilità di vivere in libertà, giacché tutti e tre i fratelli sono inesorabilmente prigionieri della menzogna di cui sono gli unici responsabili. Giulio, preso dallo sconforto per una situazione fattasi insostenibile, si rende conto di tutto ciò quando, nella seconda parte del romanzo, inizia a pensare alla morte come al solo rimedio: «La paura che io ho di sbagliare a prendere qualche decisione, l’impossibilità anzi di prenderla, è la causa della mia indifferenza». L’abbandono della speranza e la consapevolezza di doversi fare carico di una sofferenza non più evitabile sono all’origine di un’apatia che è sinonimo di rassegnazione. È solo questione di tempo, in altre parole, perché la catastrofe arrivi. Non c’è scampo. E infatti è sufficiente che un impiegato della banca, insospettitosi di fronte all’ennesima cambiale, avvisi il Nicchioli, per far sì che ai Gambi crolli il mondo sotto i piedi.
Giulio, incapace di portare il peso della pubblica umiliazione, si impicca, sacrificando se stesso e facendo ricadere su di sé ogni responsabilità («Se io accettassi di vivere, giacché non mi sento per ora nessun male, sarebbe lo stesso io trovassi gusto a farmi martoriare»). Niccolò ed Enrico – che pure vengono assolti al processo, scaricando la colpa sul fratello defunto – sono anch’essi impossibilitati a scrollarsi di dosso il peso della tragedia: il primo, dopo avere trovato impiego come agente d’assicurazione, muore in breve tempo per un colpo di apoplessia; il secondo, ridotto in miseria e costretto all’accattonaggio, finisce miseramente i suoi giorni nell’Ospizio di Mendicità, in completa solitudine. Alla morte del terzo fratello (stroncato da «una nuova crisi di gotta»), Lola e Chiarina, mosse a compassione, rompono il salvadanaio per comprare tre croci uguali, da collocare nel cimitero in corrispondenza delle tombe degli zii.
A proposito del finale del romanzo, vale la pena citare il commento di Cassola: «Enrico, Niccolò, Giulio, sono finiti male; ma non sono vissuti invano, ce lo dice l’estremo atto di pietà delle nipoti […]. Anche questa etichetta appiccicata a Tozzi, d’essere un pessimista, […] si rivela una formula di comodo». Il gesto di Lola e Chiarina, infatti, riabilita la memoria degli zii e offre al lettore una possibile via d’uscita dalla cupa atmosfera di morte che domina l’intera vicenda. Ha ragione infatti Cassola: i tre fratelli non sono vissuti invano, se non altro perché ci sono persone (Modesta e le nipoti) cui sta a cuore il loro destino.
Il finale stravolge il senso di tutto il romanzo, che di colpo (e inaspettatamente) viene ricalibrato secondo una prospettiva chiaramente cristiana. La morte, in altre parole, non è il solo esito possibile di fronte al fallimento: ciò che può sembrare ineluttabile – ovvero il suicidio di Giulio, innesco di una reazione a catena che pare inarrestabile – è in realtà la conseguenza di una libera volontà. Non c’è nulla di prestabilito o di preordinato: ogni uomo, per quanto afflitto e devastato dal dolore, è arbitro del proprio destino, e può sempre trovare il modo per riscattarsi, anche quando tutto sembra perduto. A uccidere i tre fratelli non è, in definitiva, il dissesto finanziario, ma l’assenza di fede, che si palesa nel momento in cui avviene la dissoluzione dell’unico mondo – superficiale, fatto di convenzioni sociali e di rapporti del tutto impersonali – che i Gambi conoscono. Giulio, Niccolò ed Enrico vivono, in sostanza, con gli occhi chiusi (si ricordi che Con gli occhi chiusi è il titolo del più celebre romanzo di Tozzi), non sono cioè in grado di scorgere nulla al di là delle loro piatte esistenze ossessionate dai beni materiali. Dal loro punto di vista, la perdita della rispettabilità sociale è un ostacolo troppo grande da superare, col risultato che essi in pratica decidono di autoannientarsi, essendo venuta a mancare una qualsiasi valida ragione di vita.
L’unico che parzialmente riesce a riscattarsi prima di morire è Enrico, il quale, durante la sua permanenza all’Ospizio di Mendicità, trova la forza di andare avanti pensando costantemente alle nipoti: «Una mattina, mentre raccattava le potature, disse a quelli come lui: “Se io muoio presto, vi prego di dire alle mie due nipoti, che verranno a vedermi, che io mi ero messo a lavorare”. Gli altri alzarono gli occhi da terra; e lo guardarono, senza rispondergli. Allora, egli si spiegò: “Anch’io ho un briciolo di coscienza. E soltanto quelle bambine capiscono che è vero”».
In queste parole è racchiusa tutta la profonda umanità dello scrittore, per il quale basta davvero poco per vincere il desiderio di lasciarsi andare. Enrico, cioè, a rigor di logica – la logica, s’intende, sottesa a tutto il resto del racconto – dovrebbe auspicare la propria morte, dal momento che ha perso tutto, beni materiali, rispettabilità e credibilità. Eppure, proprio prima di abbandonare questa vita, ha un sussulto e si impegna per far sì che le nipoti possano conservare di lui un ultimo, positivo ricordo (in quest’ottica, le tre croci sono la prova che egli alla fine riesce nel suo intento). Dopo tanta desolazione, lo scritto di Tozzi si conclude con un piccolo, grande gesto d’amore: e il romanzo acquista tutto un altro sapore.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi

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