lunedì 25 agosto 2014

«Il Cinque Maggio»: la morte come occasione per avvicinarsi alla comprensione del senso della vita

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 agosto 2014)

Per il testo dell'ode consultare:
http://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/07_12_Manzoni_Alessandro.html

Il Cinque Maggio è la classica poesia che gli insegnanti fanno imparare a memoria. Tutti la conoscono e sono in grado di recitarne brevi passi, specialmente le due strofe iniziali. Ma è facile presumere che pochi, terminati gli studi, siano in grado di dimostrare di averla ben compresa, o apprezzata. E la ragione è piuttosto semplice: la nostra scuola, per lo più, istruisce ma non appassiona, trasmette nozioni ma non stimola la curiosità. La meta dei diciott'anni è vissuta come un traguardo da tagliare per affrancarsi dall'obbligo di tenere occupata la mente in cose inutili, che non hanno nessuna valenza pratica. In sostanza, ci si specializza in un determinato settore (universitario o professionale), e tutto il resto viene inesorabilmente accantonato. È sufficiente – provare per credere – domandare a un maturando cosa intenda fare dopo l'esame, per sentirsi rispondere, il più delle volte: «Appena finisco, faccio un falò con i libri!».
Inutile dire che, in questo squallido scenario, le materie umanistiche sono le più penalizzate. Le lettere, infatti, non "servono": sono noiose, intrise di pessimismo, adatte agli studiosi pedanti. Roba da vecchi, insomma, che poteva andar bene, tutt'al più, quando la gente aveva più tempo da perdere.  
Tornando all'ode del Manzoni, l'impressione è che per Il Cinque Maggio le considerazioni sopra esposte acquistino un valore, per così dire, emblematico. Tutti – si diceva – conoscono il componimento (nel senso che sanno cos'è, sono al corrente che esiste), ma pochi saprebbero illustrare, con un minimo di approfondimento, di cosa parla. Ebbene: l'auspicio di chi scrive è che il lettore, giunto a questo punto, senta il bisogno di andare oltre e provi un briciolo di curiosità dinanzi a un capolavoro assoluto della letteratura italiana. Tempo perso? Chissà...
Ad ogni modo, è bene fare subito una precisazione di carattere metodologico: per questioni di spazio, in questa sede non è stato possibile riprodurre l'intero testo dell'ode. Si consiglia pertanto di consultare i versi manzoniani e, solo a quel punto, di procedere con la lettura. Di fatto, qui di seguito verrà proposta una parafrasi unita ad un breve commento.
Come tutti sanno, Il Cinque Maggio fu scritto nel 1821 dopo che Manzoni ebbe ricevuto la notizia della morte di Napoleone Bonaparte. Non si tratta, però, di un'ode celebrativa: la scomparsa dell'imperatore è infatti un pretesto per affrontare il grande tema del rapporto dell'uomo con la morte, intesa quale unica occasione per avvicinarsi – attraverso Dio – ad una seppur parziale comprensione del senso dell'esistenza.
Procediamo dunque con la parafrasi, per la quale si terrà conto soprattutto dell'ampio capitolo dedicato al Manzoni dalla Storia della Letteratura Italiana di Giulio Ferroni (i numeri tra parentesi indicano la strofa):
(1) Egli [Napoleone] è morto. Così come, esalato l'ultimo respiro, il suo corpo esanime e senza più ricordi è rimasto immobile, privo di un così grande spirito, allo stesso modo la terra si ferma, colpita, stordita alla notizia di questa morte, (2) e resta in silenzio, pensando agli istanti conclusivi della vita dell'uomo reso grande dal destino; e non sa quando un'impronta di essere umano equiparabile a quella di Napoleone verrà a calpestare il suo suolo insanguinato [a causa delle ripetute guerre]. (3) La mia creatività poetica lo vide [Napoleone] trionfante sul trono imperiale, e rimase in silenzio; quando, nel turbinio degli eventi, egli fu sconfitto [a Lipsia], si risollevò [durante i Cento giorni, dopo la fuga dall'isola d'Elba] e fu infine definitivamente vinto, [la mia creatività] non si è unita al coro delle molteplici voci [levatesi per osannarlo o vituperarlo]: (4) conservatasi estranea a ogni servilismo e per nulla disposta ad associarsi alle vili ingiurie, [la mia creatività] si innalza ora, impietosita, dinanzi all'improvviso spegnimento di una luce tanto intensa [quella che promanava dalla figura di Napoleone], e dedica alla sua tomba un canto di cui forse si conserverà la memoria.
(5) Dall'Italia all'Egitto, dalla Spagna alla Germania, l'azione di quell'uomo intrepido era una conseguenza dei suoi pensieri, così come il tuono segue il lampo; essa [l'azione] scoppiò dalla punta estrema dell'Italia sino al fiume Don [in Russia], dal Mediterraneo all'Atlantico. (6) Fu vera gloria [quella di Napoleone]? Il difficile giudizio spetta ai posteri: noi non possiamo far altro che chinar la fronte al cospetto di Dio, che volle imprimere in lui [Napoleone] un'impronta più forte del suo spirito creatore. (7) La gioia tempestosa e trepidante che deriva da un grandioso progetto; l'insofferenza frutto di un temperamento poco incline a obbedire, che da subito pensa al potere e lo ottiene, conquistando un premio al quale era cosa folle aspirare; (8) tutto questo egli [Napoleone] provò; e provò anche la gloria resa esaltante dal pericolo, la fuga e la vittoria, il potere regale e l'umiliante esilio: due volte nella polvere della sconfitta, due volte sull'altare della gloria [il riferimento è alle sconfitte di Lipsia e Waterloo e ai fasti dell'Impero e dei Cento giorni]. (9) Egli pronunciò il suo nome: due secoli tra loro contrapposti [il XVIII e il XIX] si volsero a lui sottomessi, come se da lui stessero attendendo il proprio destino; egli fece silenzio e, come giudice supremo, si sedette in mezzo a loro. (10) E poi sparì, e terminò i suoi giorni in totale inattività su un'isola così piccola [come Sant'Elena], divenuto oggetto di enorme invidia e di profonda pietà, di odio inestinguibile e di indomabile amore. (11) Come l'onda vorticosa si riversa sul capo del naufrago, quell'onda sulla quale lo sguardo del misero poco prima scorreva alto e proteso nel vano tentativo di avvistare approdi lontani, (12) così, con pari violenza, l'insieme dei ricordi si riversò sulla sua anima [di Napoleone]! Oh, quante volte cominciò a raccontare le proprie imprese ai posteri, e la sua mano stanca cadde sulle pagine interminabili [a scriversi]! (13) Oh quante volte, immerso nel silenzioso tramontare di un giorno trascorso nell'inerzia, abbassati gli occhi lampeggianti, con le braccia incrociate al petto, restò immobile, e l'assalì il ricordo dei giorni passati! (14) E ripensò alle tende da campo, alle trincee battute dall'artiglieria, al fulmineo avanzamento dei plotoni, alle cariche della cavalleria, ai propri ordini concitati e alla loro rapida esecuzione [da parte delle truppe].
(15) Ahi! forse di fronte a ricordi tanto struggenti, il suo animo spossato si abbatté, privo di speranza; ma dal cielo venne in suo soccorso una mano forte [la mano di Dio], che, pietosa, lo sollevò in un'atmosfera più distaccata e serena; (16) e lo indirizzò, attraverso i fioriti sentieri della speranza, ai valori eterni, al premio che va oltre i desideri dell'uomo, dove della futile gloria terrena non restano che silenzio e tenebre. (17) O bella, immortale, benefica fede abituata ai trionfi! Aggiungi anche questo all'elenco dei tuoi successi, rallegrati, giacché nessun uomo più potente e superbo di Napoleone si è mai inchinato dinanzi alla croce infamante del monte Golgota [ovvero la croce Cristo, il quale subì la pena più infamante prevista dai romani]. (18) Tu [o fede] disperdi ogni parola di rancore dalle spoglie mortali di Napoleone: quel Dio che abbatte e soccorre, che procura affanni e poi consola, si sedette accanto a lui [a Napoleone] sul solitario letto di morte.
Con tutta evidenza, siamo ben lontani da ogni intento celebrativo. Come anticipato, Napoleone è più che altro un pretesto: non è, come taluni credono, il fulcro dell'ode. Quando Manzoni lesse della sua morte (e, elemento decisivo, della conversione pochi istanti prima di spirare) fu mosso a compassione per un uomo che aveva avuto tutto ma che si era spento in completa, misera solitudine.
I versi del poeta sono impietosi: le gesta terrene sono effimere, distolgono l'uomo dalla costante, imprescindibile, riflessione sul significato ultimo dell'esistenza. Solo umiliandosi Napoleone si riscatta, dopo avere seminato lutti e distruzioni per mera ambizione personale. Solo comprendendo che, di fronte a Dio, non esistono imperatori, che la morte appiana ogni differenza poiché pone tutti al cospetto delle proprie angosce e, infine, che la fede è l'unico appiglio che consenta di non sprofondare in un baratro dove nulla ha senso, l'uomo può ambire alla serenità dell'animo. Per una completa conversione, del resto, basta un brevissimo istante di sincero pentimento. «Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia», dice infatti, ne I promessi sposi, Lucia all'innominato, indicandogli indirettamente la via della redenzione. Vale lo stesso per Napoleone, il quale, nel momento in cui accetta il proprio destino di sconfitta e si umilia, come semplice uomo, invocando l'aiuto di Dio, compie un atto di misericordia verso se stesso. Così facendo ottiene il perdono e, con esso, una morte serena, finalmente in pace.

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sabato 23 agosto 2014

L’inguaribile attitudine all’autoanalisi: la coscienza (o l’incoscienza?) di Zeno

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 agosto 2014)

Scritto tra il 1919 e il 1922, il terzo romanzo di Italo Svevo – La coscienza di Zeno – fu pubblicato nel 1923 dall’editore Cappelli di Bologna. Appena uscita, l’opera fu pressoché completamente trascurata dalla critica italiana, con la significativa eccezione di Eugenio Montale, che nel 1925 scrisse un articolo intitolato Omaggio a Italo Svevo nel quale riconosceva lo straordinario talento narrativo dello scrittore triestino. Più ancora del poeta ligure fu però James Joyce a comprendere il valore del libro e a segnalarlo come capolavoro nel panorama letterario europeo. L’entusiastica recensione dell’autore dell’Ulisse fece infatti conoscere il romanzo sveviano anche fuori dall’Italia, favorendo la pubblicazione, in rapida successione, delle traduzioni in francese, tedesco ed inglese.
La coscienza di Zeno è la storia, autobiografica, di un personaggio che si presenta, inizialmente, come il classico inetto incapace di gestire le più comuni difficoltà. Sollecitato da un certo Dottor S. – psicanalista che l’ha in cura –, Zeno affida ad una sorta di diario le memorie della propria vita, raccontando in maniera frammentaria (senza seguire un lineare ordine cronologico) gli avvenimenti del passato che ritiene più significativi. La scrittura è alla base della terapia che deve seguire, dal momento che, per curare il suo malessere esistenziale, Zeno è indotto dal medico a fissare sulla pagina ricordi e riflessioni. L’impegno viene però mantenuto solo in parte: dopo aver scritto alcuni capitoli, infatti, il paziente sospende la cura, convinto che essa non sia più necessaria; e il Dottor S., per ripicca, decide di dare alle stampe il frutto del suo lavoro.
Ogni capitolo si sofferma su un preciso nucleo tematico. Dopo una Prefazione (firmata dal Dottor S.) e un Preambolo, Zeno dà inizio alla sua analisi soffermandosi sul vizio del fumo e sui vani ripetuti tentativi di abbandonare questa nociva abitudine. Egli ricorda allora che da ragazzo rubava dalle tasche del panciotto del padre «i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumava una dopo l’altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto»; oppure che si impossessava di nascosto dei sigari «fumati a mezzo» che il genitore lasciava in giro per casa, nella convinzione che questo «fosse il suo modo di gettarli via». Attraverso la scrittura, il protagonista scopre così che il fumo è associato a un senso di ribellione: fumare «l’ultima sigaretta» – come più volte si impone di fare, rimarcando quello che nelle sue intenzioni dovrebbe essere un solenne atto conclusivo – e poi decidere di riprendere il vizio equivale infatti a protestare la propria libertà rispetto ai divieti e alle convenzioni.
Il capitolo successivo affronta il tema del controverso rapporto di Zeno con il padre e, in particolare, dei sensi di colpa che affliggono il protagonista dopo la morte del genitore. Zeno è infatti ossessionato da un episodio per lui sconcertante: sul letto di morte, pochi istanti prima di spirare, il padre gli aveva rifilato un poderoso schiaffo, ed egli non sa se attribuire il gesto all’incoscienza dovuta all’agonia o piuttosto ad una espressa intenzione di rimproverare il figlio per via della sua indolenza.
Segue un lungo capitolo intitolato La storia del mio matrimonio, nel quale Zeno racconta come ha conosciuto la moglie. Tutto ha inizio quando il protagonista incontra Giovanni Malfenti, uomo d’affari di successo, incarnazione del tipico borghese sempre sicuro di sé. Questi ha quattro figlie (Ada, Augusta, Alberta e Anna), delle quali la più bella è la prima. Zeno la corteggia – piuttosto goffamente –, ma viene respinto poiché la ragazza è attratta da Guido Speier, giovane elegante e raffinato. Ripiega allora su Alberta, ma ancora una volta invano. Infine Zeno fa la sua proposta di matrimonio ad Augusta (la più brutta), e questa volta ha successo. La scelta si rivela involontariamente azzeccata. Augusta è infatti proprio la donna che fa al caso di Zeno: amorevole e guidata da un saldo sistema di certezze, incarna l’essenza di quella “sanità” che il protagonista – per sconfiggere la sua nevrosi – va ricercando nella psicanalisi.
Il quarto capitolo è dedicato alla rievocazione della relazione adulterina con Carla, una bella ragazza di umili origini dalla quale Zeno si sente fortemente attratto. A lungo andare, tuttavia, la doppia condizione di marito e amante – a causa del forte senso di colpa – risulta insostenibile, anche se è evidente che Carla per Zeno rappresenta – un po’ come le sigarette – un’occasione per placare provvisoriamente la sete di libertà nei confronti delle costrizioni imposte dalla società borghese. Ma un conto è il gesto ribelle, altra cosa è sottrarsi alle responsabilità che derivano dell’impegno matrimoniale: questo Zeno non può accettarlo (e nemmeno lo desidera, dal momento che è attratto dalla “normalità” tanto quanto lo è dalla trasgressione), col risultato che la scelta di interrompere la relazione con Carla risulta pressoché obbligata.
Il romanzo prosegue poi con la descrizione delle varie tappe dell’avventura commerciale che vede coinvolti Zeno e Guido Speier, nel frattempo divenuto marito di Ada. Inizialmente è quest’ultimo a seguire gli investimenti, apparentemente con grande perizia. Tuttavia, a dispetto della sicurezza che ostenta compiaciuto, Guido si dimostra un amministratore poco accorto e porta l’associazione a un passo dal fallimento. Oppresso dal rischio di perdere tutto, egli gioca così la carta del suicidio simulato; ma, avendo involontariamente ingerito una dose eccessiva di veleno, muore. A questo punto tocca a Zeno gestire l’associazione, e il suo intervento si rivela inaspettatamente decisivo. Il socio inetto, infatti, porta a termine alcune brillanti operazioni, evita il fallimento e si guadagna il rispetto dell’intera famiglia. Il suo è, a tutti gli effetti, un autentico riscatto, una rivincita nei confronti di colui che era stato il suo rivale in amore e negli affari (rivincita peraltro completata dall’inconsapevole abbaglio per il quale Zeno sbaglia funerale e non si presenta in tempo per l’estremo saluto al cognato).
Il romanzo si conclude a questo punto con alcune riflessioni in forma diaristica che, speculari alla Prefazione del Dottor S., sanciscono di fatto l’avvenuta guarigione del paziente Zeno. Questi afferma infatti di non aver più alcun bisogno della psicanalisi, e che anzi la cura cui si è sottoposto non ha fatto altro che aggravare il suo stato di malessere. «Da lungo tempo – scrive – io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e che era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere». Non è pertanto Zeno il vero malato, bensì tutti coloro che – guidati esclusivamente dalla brama del profitto e incuranti di tutto ciò che non contribuisce ad accrescere il successo e la gloria personale – si professano sani e sicuri di sé. Zeno, in sostanza, è sano perché ha imparato ad accettarsi e, soprattutto, a conoscersi a fondo. La sua nevrosi non è altro che la ferrea determinazione a comprendere gli oscuri moti della realtà interiore. Piuttosto è l’umanità ad essere in pericolo, essa sì gravemente malata e destinata a sprofondare in un baratro in cui dominano violenza e prevaricazione. Al riguardo, le parole conclusive di Zeno (Svevo?) lasciano poco spazio alla speranza: «Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».
In cosa consiste dunque la presunta malattia di Zeno? L’esasperata predisposizione all’introspezione e alla spietata analisi di sé è sinonimo di nevrosi o di sanità mentale? Per Svevo non ci sono dubbi: i veri malati sono coloro che si preoccupano solo degli aspetti superficiali dell’esistenza e vivono assecondando passivamente i valori della società borghese (ovvero essenzialmente l’esibizione della forza, di una competitività che, in ogni campo, costringe l’uomo moderno a sottostare ai dettami di una radicale – e tirannica – omologazione). Zeno, in altre parole, si riscatta nel momento in cui comprende che le sue paranoie sono in realtà un privilegio, giacché attraverso di esse egli può osservare l’autentica propria natura, studiare la vita per quello che realmente è, guardare oltre la maschera che – lui per primo – è consapevole di dover indossare in pubblico. Il risultato della sua analisi è un libro rivoluzionario: un romanzo che assegna alla scrittura il compito precipuo di facilitare la comprensione dell’animo umano e che eleva la letteratura a strumento privilegiato di conoscenza. È questa, del resto, la coscienza cui allude il titolo: l’esigenza di mettersi a nudo, di essere sinceri almeno nel rapporto con se stessi. Si tratta, a ben vedere, di una curiosità potenzialmente devastante, dal momento che mette in contatto l’uomo con la sua follia, con la sua parte più autentica, mostruosa e difficilmente controllabile. Zeno ne è consapevole, ma non ha alternative e non può esimersi dall’esplorare il lato oscuro della propria psiche. La sua è un’ossessione, forse salutare, di certo un poco affine all’incoscienza.

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venerdì 8 agosto 2014

Fenomenologia del telefono cellulare (odiosa palla al piede dell'uomo moderno)

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 agosto 2014)

Con l'invenzione del telefono cellulare l'uomo moderno ha di fatto rinunciato – di certo inconsciamente – a una fetta considerevole della propria libertà. Essere possessori di un moderno smartphone equivale, infatti, ad avere il mondo a portata di mano (o meglio: di dito). Si dirà: e allora? Che c'è di male? Anzi, vuoi mettere che soddisfazione poter contattare mezzo mondo con un clic!
Ma è proprio questo il punto. Essere raggiungibili da chiunque, in qualsiasi momento e ovunque ci si trovi è una forma – sui generis finché si vuole – di schiavitù. Basta avere un cellulare in tasca, e addio riservatezza, addio riposo, addio tutto. Si ode, come per magia, un drin, e subito ci si tasta un po' dappertutto (si vedono certe scene, alle volte...) in cerca del diabolico strumento di comunicazione. Non so voi, ma io – che pure sono schiavo come tutti, e come tutti ho un apparecchio che, in teoria, oltre a telefonare è in grado di fare centomila cose più o meno inutili – rimpiango i tempi in cui, se volevo andare a prendere un gelato con un compagno di classe, dovevo alzare la vecchia cornetta per metterlo al corrente delle mie intenzioni.
Lo so, lo so: starete pensando che tanto è inutile scrivere certe cose, che il progresso è fatto così, che prima o poi ci si abitua. Tutto vero. E vi dirò di più: sono persino disposto a riconoscere alcuni indiscutibili vantaggi del telefonino. Come negare, infatti, che avere continuamente a disposizione un piccolo computer portatile rappresenti, in certi casi, un modo per facilitarsi la vita? Ciò che però mi preme voi consideriate è l'insieme, assai cospicuo, delle altrettanto innegabili controindicazioni del cellulare. Per ovviare al vostro prevedibile scetticismo, illustrerò alcuni esempi tratti dalla normale vita quotidiana. Ma, prima di procedere, vi chiedo di fare un piccolo sforzo: immaginate di tornare bambini, e – riferendovi al cellulare, dando per scontato che ancora non ne conosciate le funzioni – di rivolgere ad un adulto la più classica delle domande: «Cos'è?». Ebbene, io sarò per voi quell'adulto.
Dunque, per prima cosa il cellulare è uno strumento che ti sottrae tempo, e quasi mai per un valido motivo. Tolte le comunicazioni utili (e con esse, s'intende, quelle indispensabili), è pressoché scientificamente provato che la maggior parte delle informazioni che due persone si scambiano per telefono sono idiozie. Messaggini, fotografie, file audio e video: tutta roba che si invia al solo scopo di fare due risate. Perché, al giorno d'oggi, tutti hanno una gran voglia di scherzare su tutto, col rischio – va da sé – che nulla venga più preso realmente sul serio.
Il vero problema dei moderni cellulari è che ormai fanno di tutto. Eh sì, perché le chiamate vocali – quelle tradizionali – non interessano più. Col risultato che arriviamo ad un primo, grande paradosso: il telefonino è quell'arnese che l'uomo del Duemila acquista senza preoccuparsi più di tanto che, effettivamente, telefoni. Il moderno acquirente di smartphone, allorché intenda comprare un nuovo apparecchio, mostra infatti i segni di un'improvvisa schizofrenia, e rivolge al commesso più o meno sempre le stesse domande: «Com'è la risoluzione delle foto?»; «Va veloce su internet?»; «E la memoria? E le applicazioni? E i giochi? E la musica?». Insomma, sintomi evidenti di una patologia grave. I quali, fortunatamente, si manifestano per lo più solo con il telefonino, dal momento che se acquisto una lavatrice mi interessa – almeno per ora – che lavi, che un'aspirapolvere aspiri, e così via.
Ma andiamo oltre. E soffermiamoci un momento sulle tragiche conseguenze di questo uso – come dire? – allargato del cellulare. Partirei dai messaggi di testo (mi riferisco, indistintamente, agli sms e a whatsapp), ovvero dalla forma più imbecille di comunicazione che l'uomo moderno abbia inventato. Direte: che paroloni! E invece sì, lo ribadisco. Il 99,9% dei messaggini sono imbecilli, o quantomeno sono scritti da una persona che – per i più svariati motivi – ha deciso di mettere in pausa il cervello. Volete un esempio? Nessun problema.
Esempio 1. Mi arriva un sms (o, come si dice oggi in gergo giovanile, una "whatsappata"), ed io – ingenuo – immagino sia per comunicare qualcosa di sensato. C'è però un problema: sono in macchina, e non posso rispondere. Quindi richiamo. Ma, puntualmente, dall'altra parte mi sbattono il telefono in faccia. Passano due nanosecondi, e arriva un nuovo messaggio. Al che, alla prima occasione utile (contravvenendo palesemente al codice della strada), do una sbirciata veloce, e leggo: «Non posso rispondere. Sono al lavoro. Ma tranquillo: non era nulla di importante». E allora mi rivolgo a tutti gli scrittori professionisti di messaggi inutili: se non avete niente di importante da dire, per l'amor del cielo, tacete (cioè: mettete un freno ai vostri pollici bramosi di digitare qualche idiozia su uno schermo)!
Esempio 2. Mi sono appena appisolato, e puntuale il maledetto cellulare suona. È l'ennesimo messaggio: un file video: la ripresa del tuffo dal trampolino dell'amico in ferie (perché c'è sempre un amico in ferie, o che non ha una mazza da fare, pronto a disturbarti per farti presente che mentre tu sei in città a sgobbare, lui è in un paradiso terrestre a gozzovigliare). Risultato dello scambio di informazioni: pisolino compromesso, e la consapevolezza che, da qualche parte nel mondo, c'è una persona che si sta godendo la vita mentre tu sei confinato in una grigia città in mille faccende affaccendato. Che libidine!, direbbe Jerry Calà.
Dunque possiamo giungere a una prima, importante, conclusione: il cellulare, per chi detesta perdere tempo, è il più delle volte un'irritante seccatura. Ma voltiamo pagina. Ora vorrei invitarvi a ragionare su un altro, deleterio effetto collaterale del telefonino. E cioè che questo aggeggio infernale rende le persone fastidiosamente maleducate. A tavola, in treno, in biblioteca, a messa, al cinema: ovunque ci si trovi, se il cellulare suona non ce n'è per nessuno. Ma possibile, dico io, che un essere umano in carne ed ossa con cui magari si sta conversando piacevolmente debba sempre essere messo in secondo piano rispetto a chi chiama o scrive da chilometri di distanza, per lo più – come visto – per esternare stupidate? E non è tutto. Non solo nei luoghi pubblici tocca sorbirsi un continuo concerto di suonerie (alcune allucinanti...), ma si è pure costretti ad ascoltare l'intera conversazione di chiassosi estranei. Sì, perché quando si risponde al cellulare in pubblico, si è come colpiti da sordità fulminante: bisogna urlare per farsi capire!
Poi c'è quello che si atteggia. Spesso è lui che chiama (forse perché, in realtà, non se lo fila nessuno), e l'argomento è uno solo: il lavoro. Si agita, muove le braccia, gesticola, fa una smorfia dietro l'altra: sembra Mussolini durante un discorso dal balcone di Palazzo Venezia. E il bello è che dà sempre ordini, rimprovera, fa del sarcasmo. Fateci caso: negli ambienti affollati, quando il maleducato di turno fa di tutto per farsi sentire da chi gli sta intorno, è sempre un capo o un supervisore. Mai nessuno che dica ad alta voce: «Sì, padrone».
Ecco quindi che un'ulteriore definizione del telefonino potrebbe essere questa: strumento di imbarbarimento di massa. Ma c'è ancora dell'altro. Oggi il cellulare ti consente di accedere – 24 ore su 24 – ad un innovativo insulso sistema di comunicazione: Facebook. Facebook è realmente una malattia grave per le nuove generazioni. Volete una definizione? Eccovi accontentati: Facebook è uno spazio virtuale attraverso il quale le persone che non hanno di meglio da fare condividono baggianate. In pratica, è un'immensa bacheca dove chiunque, con i cosiddetti post (si chiamano così, giusto?), può rendere edotti gli altri utenti del proprio modo di perdere tempo. Esempi? Quanti ne volete, ma permettetemi di esprimere, di volta in volta, un rapido commento. «Mario ha condiviso una foto»: e chi te l'ha chiesto! «Giovanni e altre 6 persone hanno scritto sul diario di Luca»: buon per loro. «Giacomo è stato taggato nella foto di Andrea»: ma chissenefrega (e poi è stato cosa?). E, per finire, la più bella: «A Laura piace Vanity Fair»: ma vai... e qui mi autocensuro, ché è meglio.
A ben vedere, questa frenesia di massa cela un inquietante sottofondo. Ovvero che oggi si ha paura della solitudine e del dialogo con se stessi. Molti sentono il bisogno di condividere sciocchezze e di comunicare idiozie proprio perché avvertono la necessità di anestetizzare la mente regredendo ad un eterno stato infantile. Tentano così di eludere la tragicità dell'esistenza cercando riparo dietro uno scudo di futilità, convinti che la spensieratezza sia la sola medicina in grado di curare l'angoscia con cui ogni uomo su questa terra è costretto, prima o poi, a fare i conti. Sanno che non è così, in realtà; ma ormai sono drogati, dipendenti. Se il telefonino si rompe o si scarica, si sentono persi, smarriti. Il paese dei balocchi in cui si sono rifugiati immediatamente si dissolve, e allora tocca fare i conti con se stessi, con un mondo dove non esistono selfie e non c'è nulla da condividere, se non i sentimenti. Perché al cellulare siamo tutti marionette, schiavi del personaggio che vogliamo ad ogni costo interpretare nella realtà virtuale. Un personaggio che, con tutta evidenza, non esiste, che è finto, superficiale, forzatamente di buon umore (avete notato che su Facebook ridono sempre tutti? Ma per quale motivo bisogna dire al mondo che si è felici anche se non è vero? Perché mai devo mettere in piazza – storpiandole – le mie emozioni, le mie opinioni, la mia intimità?). Ecco dunque che vi lascio con l'ultima definizione: il telefonino è un potentissimo diffusore di falsità e un micidiale propagatore di ipocrisie.

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