mercoledì 26 febbraio 2014

«Il taglio del bosco»: il vuoto incolmabile che la morte lascia dietro di sé

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 febbraio 2014)

Apparso per la prima volta sulla rivista «Paragone» nel 1950, Il taglio del bosco forse non è l'opera più conosciuta di Carlo Cassola – molti studenti avranno senz'altro maggiore familiarità con La ragazza di Bube –, ma rientra di diritto nel novero dei grandi romanzi del Novecento. La quarta di copertina dell'edizione Oscar Mondadori del 1969 lo presentava senza esitazione come «il capolavoro riconosciuto» dello scrittore romano, a testimonianza di un successo di pubblico e di una considerazione che, oggi, paiono in parte – e ingiustamente – sbiaditi.
La vicenda ha per protagonista il trentottenne Guglielmo, un boscaiolo di San Dalmazio di Pomarance, in Val di Cecina, che ha da poco perso la moglie a causa di un male incurabile. Con lui vivono le due figlie, ancora bambine, e la sorella Caterina, che di fatto, oltre a ricoprire un ruolo materno in sostituzione della cognata defunta, manda avanti la casa durante i lunghi mesi invernali nei quali Guglielmo è costretto a lasciare il paese per ottemperare agli impegni di lavoro.
Se confrontata con l'angosciante vuoto lasciato dalla scomparsa della moglie, l'aspra vita del taglialegna appare però tutt'altro che sgradevole: il duro lavoro quotidiano – Guglielmo ne è convinto – è il solo modo per distrarre la mente, l'unico espediente che consenta di convivere con un dolore altrimenti insopportabile. Per questo, quando saluta la famiglia per andare a lavorare con quattro compagni in un bosco presso Massa Marittima (dove ha acquistato un «taglio», ossia il diritto di tagliare gli alberi in una determinata porzione di terreno), egli si sente, tutto sommato, sollevato. Tuttavia, neppure le interminabili giornate di lavoro riescono a lenire la sua acuta sofferenza. Ogni momento di pausa, durante le veglie notturne o nei giorni di pioggia, è infatti contrassegnato dall'affiorare di ricordi struggenti della vita matrimoniale. L'unica tregua, al di là del lavoro, è offerta dal sonno.
Rivivendo dentro di sé il passato, Guglielmo avverte una frustrante nostalgia per la sensazione di appagamento che provava nel compiere il suo lavoro quando la moglie era in vita. Il peso dei sacrifici, allora, era nullo se paragonato a quello, rassicurante, delle responsabilità: «Era grazie al suo lavoro – precisa il narratore – che la famiglia poteva condurre un'esistenza agiata e tranquilla. [...] Ora invece pensare a casa sua gli faceva male, e la vista [dal bosco] dei lumi lontani, che richiamavano quelle immagini familiari, gli pesava intollerabilmente».
Nemmeno condividendo con i compagni la propria sofferenza Guglielmo riesce a trovare pace. Anzi, prova invidia per chi, come il cugino Amedeo, ha ancora una moglie; e un'incredulità mista a rancore per il caposquadra Fiore, che vive solo per tagliare la legna, infischiandosene dei lutti («sembrava non averlo minimamente scosso la morte dell'unico maschio [...]. Il giorno dopo il trasporto era sul lavoro, coscienzioso e sgarbato come sempre») e della solitudine. Decide quindi di non fare ritorno al paese per il Natale, poiché, per quanto si sforzi di pensare al bene delle figlie, proprio non riesce ad accettare di trascorrere la festa senza la moglie. A differenza dei compagni – i quali, escluso lo scontroso Fiore, abbandonano il bosco per trascorrere un paio di giorni in famiglia – egli preferisce ridurre al minimo i contatti umani.
Terminato, dopo cinque mesi, il lavoro, a Guglielmo non resta che portare la legna dal carbonaio, prima di poter ritornare a casa. Anche il carbonaio è vedovo, e da quando ha perso la moglie – restando «solo come un cane, a cinquantun anni» – tutto gli pare monotono e insignificante. Le sue parole, colme di rassegnazione, risuonano come un tremendo grido d'aiuto rivolto nel vuoto. Di fatto, esse sono il preludio alla conclusione tragica del romanzo. Quando infatti, rientrato in paese, passa davanti al cimitero, Guglielmo scopre di non avere per nulla superato il suo dramma. Al culmine della disperazione, invoca, invano, l'aiuto della moglie: «Non era possibile continuare così. Lassù dal cielo doveva dargli la forza. E guardò in alto. Ma era tutto buio, non c'era una stella».
Il romanzo di Cassola è essenzialmente una drammatica riflessione sull'ineluttabilità del destino che attende chiunque si trovi a dover fare i conti con la morte. La fine tragica di Guglielmo – che evita di guardare in faccia il dolore, preferendo sottrarsi, attraverso il lavoro, al confronto quotidiano con il vuoto lasciato dalla perdita della moglie – è la conseguenza dell'ingenua ribellione di un uomo in cerca di spiegazioni che non accetta di doversi rassegnare al lutto. La realtà inconoscibile che si cela dietro la morte è per lui un'ingiustizia troppo opprimente: se infatti l'uomo non può far nulla per impedire la propria scomparsa, se basta un attimo per perdere una persona cara, se nella vita non esiste alcuna garanzia di felicità, quale ragione resta per prendere sul serio l'esistenza?
L'errore di Guglielmo è quello di credere che, distraendosi con il lavoro, l'angoscia e il dolore gli daranno tregua. La triste verità, però, è che non c'è modo per riempire il vuoto che avverte dentro di sé. È inutile tormentarsi con mille domande (come quella, che lo assilla, relativa agli ultimi attimi di vita della moglie, la quale – egli crede – ha cercato di dirgli qualcosa in punto di morte, ma non vi è riuscita a causa del delirio della febbre). Nulla, lascia intendere Cassola, ci è dato sapere sul perché la vita finisca, talvolta senza preavviso. La morte è un mistero con cui non si può fare a meno di convivere, così come il dolore e la solitudine.
Il problema è che è molto più semplice rassegnarsi alla propria morte che non a quella degli altri. Seppure inquietante, la caducità dell'esistenza non fa paura quanto l'idea di poter perdere una persona cara. A cosa si riduce, infatti, l'uomo quando sopraggiunge la più tetra solitudine? Se Guglielmo dava un senso alla propria vita sacrificandosi nel duro lavoro di boscaiolo per il bene della famiglia, cosa resta delle sue rassicuranti convinzioni ora che quella stessa famiglia ha subito una perdita irreparabile? Cassola, in sostanza, sta dicendo che ogni sforzo per comprimere la sofferenza derivante da una perdita è miseramente destinato a risultare vano. Quando una persona cara muore, è assurdo poter pensare di comprendere il dolore, è da ingenui illudersi che una ferita così profonda possa rimarginarsi completamente. Il dolore, in altre parole, non lo si può accettare: lo si subisce, poiché di fronte ad esso non esiste rimedio. Nessuno restituirà mai la moglie a Guglielmo. Il suo senso di vuoto, di smarrimento, potrà attenuarsi solo se egli saprà rassegnarsi ad aver perso per sempre una parte di sé. Il lavoro, la vita del taglialegna, la lontananza da casa sono tutti diversivi, ma non risolvono nulla. Anzi! Acquistando il taglio nel bosco, Guglielmo non fa altro che riprendere le vecchie abitudini, come se il passato potesse rivivere nel presente. Ma, se tutto è come prima nel lavoro e nel rapporto con i compagni, niente è più come prima a livello di condizione esistenziale. Ogni gesto, ogni parola, ogni persona che abbia un legame con il passato diviene uno specchio che riflette, implacabile, la felicità perduta.
Involontariamente, Guglielmo punisce se stesso in modo insostenibile. E, alla fine, finisce col cedere. Prima, infatti, colto dalla febbre durante il lavoro nel bosco, invoca la morte come una liberazione («Per la prima volta dopo la disgrazia, il pensiero della moglie non gli causava dolore, ma un senso di benessere e calma»); poi, giunto davanti al cimitero del paese, si lascia prendere dallo sconforto, poiché realizza, di colpo, che tutti i suoi sforzi per distrarsi sono risultati vani. Egli vorrebbe poter dimenticare, ma si rende conto che è impossibile. E Cassola, quasi a voler indicare l'unica via percorribile, gli mette in bocca – nella preghiera finale alla moglie defunta – queste disperate parole: «Rosa, aiutami tu. Rosa, mandami un po' di rassegnazione!». Niente pace, dunque: la morte è la fine di tutto; o, in alternativa, l'inizio di una nuova fase nella quale il passato è irrimediabilmente confinato nel ricordo. Quando alza gli occhi al cielo in cerca di un segno che gli venga dalla moglie, Guglielmo non vede altro che una volta buia, priva di stelle. Come a dire che i morti, quantomeno in questa vita – che però è l'unica conoscibile –, sono persi per sempre, ed è bene lasciarli andare. Per chi resta, l'unico rimedio per impedire che il dolore divori dall'interno la voglia di vivere è abbandonarsi alla rassegnazione.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

giovedì 20 febbraio 2014

«Il vecchio e il mare»: la ribellione dell’uomo all’ineluttabile destino di sconfitta

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 febbraio 2014)

Pubblicato, pare, dopo sedici anni di gestazione, Il vecchio e il mare valse ad Ernest Hemingway il Premio Pulitzer nel 1953 e, il 28 ottobre dell'anno seguente, il Nobel. Per avere un'idea dell'enorme successo del racconto, basti dire che quando esso apparve per la prima volta in un numero unico di «Life» del 1° settembre 1952 furono vendute 5.318.658 copie in appena ventiquattro ore.
La trama del breve romanzo è esilissima.
Santiago è un vecchio e povero pescatore cubano che non ha amici né affetti all'infuori di Manolin, un ragazzo che abitualmente lo accompagna in mare. Da qualche tempo, però, si è sparsa la voce che Santiago sia «salao», sfortunato: sono infatti ottantaquattro giorni che non pesca nulla, un numero così elevato che sembra quasi la conseguenza di una maledizione. Manolin è il solo che abbia ancora fiducia nel vecchio, ma pure lui – costretto dai genitori, convinti che sia più saggio imbarcarsi con altri pescatori più affidabili – ha dovuto abbandonarlo, e per questo si sente fortemente in colpa. Tuttavia Santiago non serba rancore: è consapevole che il ragazzo non ha alternative, e apprezza molto alcune sue premure (Manolin si preoccupa che il vecchio abbia cibo in casa, lo aiuta a caricare e scaricare dalla barca le attrezzature di pesca, ascolta con tenerezza le sue riflessioni sui tempi della giovinezza o sul baseball).
Quando dunque, dopo ottantaquattro giorni di fallimenti, riprende la via del mare, Santiago è solo, anche se si sente fortemente legato all'oceano, l'unica sua vera casa. «Pensava sempre al mare come a la mar», commenta il narratore, che prosegue: «A volte coloro che l'amano ne parlano male, ma sempre come se parlassero di una donna. Alcuni fra i pescatori più giovani [...] ne parlavano come di el mar al maschile. Ne parlavano come di un rivale o di un luogo o perfino di un nemico. Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane o malvagie era perché non poteva evitarle».
Se quindi il mare, con il suo abbraccio quasi materno, è molto più di un luogo, anche i suoi abitanti – i pesci e gli uccelli – non sono semplici animali, ma compagni di viaggio in un mondo primitivo dove l'unica distinzione è quella tra cacciatore e preda. La legge del mare è la lotta per la vita, senza esclusione di colpi. Perciò quando, dopo essersi spinto molto al largo, riesce finalmente a far abboccare un enorme marlin, Santiago sa perfettamente che l'animale combatterà fino allo stremo delle forze per avere la meglio sul suo cacciatore. Se vorrà prevalere, anche il vecchio dovrà dare tutto se stesso, ignorando il dolore alle mani, la fame, la fatica e il peso dell'età.
La lotta con il pesce dura tre giorni, ma alla fine, sfinito, il marlin è sconfitto e viene attraccato, morto, alla barca. Santiago però non si illude: sa perfettamente che il porto è lontano e, nel lungo viaggio di ritorno, di certo non mancheranno le insidie. Attratti dalla carcassa del pesce che perde sangue, giungono infatti gli squali. Il vecchio tenta in tutti i modi di scacciarli – e, a colpi di coltello e di remo, ne uccide più d'uno –, ma alla fine è costretto ad arrendersi. Quando rientra in porto, del grosso marlin non è rimasto che lo scheletro.
La sconfitta di Santiago è però solo apparente. Nel porto, gli altri pescatori sono affascinati dai resti dell'enorme pesce ancora attraccato alla barca, mentre Manolin – che aveva temuto il peggio per il vecchio, assente da tre giorni – decide di tornare a fare coppia con lui («Al diavolo la fortuna», è il suo commento; «La fortuna te la porto io»).
Quello di Hemingway è, in sostanza, un inno alla caparbietà. Ogni uomo, come Santiago, vive per conseguire un obiettivo, deve necessariamente combattere per raggiungere una meta. Volendo leggere l'intero romanzo come un'allegoria dell'esistenza – il che è operazione lecita a patto che non si ecceda con il simbolismo, dal quale Hemingway, per sua stessa ammissione, intendeva rifuggire –, non importa quanto sia grosso il pesce da catturare: l'importante è andare a pesca. Solo mettendosi costantemente alla prova l'uomo dà un senso alla propria vita. Il sacrificio, la tenacia, la capacità di non farsi sopraffare dal dolore: sono questi i valori che nobilitano l'esistenza, i soli che, attribuendole un significato, la rendano accettabile.
Santiago incarna la figura del ribelle che non accetta di darsi per vinto e non intende rassegnarsi a farsi travolgere dalle avversità. La sua lotta contro il mare è in realtà un'aspra battaglia con se stesso, per vincere la tentazione, a fronte di difficoltà che paiono insormontabili, di arrendersi. Anche se la pesca si risolve in un fallimento a causa della voracità degli squali, Santiago può ritenersi comunque vincitore: un uomo che crede nei propri mezzi, accetta la solitudine senza perdersi d'animo e riconosce con umiltà i propri limiti potrà sempre camminare a testa alta. Il vero sconfitto, sembra voler dire Hemingway, non è colui che fallisce, bensì chi si tira indietro per paura di perdere. Del resto, anche una vittoria è tale solo se non ci si illude che sia definitiva. Quando cattura il marlin, Santiago sa benissimo che lo attende ancora tanto lavoro, che l'insidia è sempre dietro l'angolo. In mare, come nella vita, non si può dare nulla per scontato.
Il punto però, si badi, non è solo quello della fragilità dell'uomo rispetto alla straripante forza della natura. Hemingway, a ben vedere, dice molto più di questo. In che misura – questo è l'interrogativo che sta alla base del romanzo – nella vita è possibile sentirsi vincitori? E poi, soprattutto, rispetto a chi, o a che cosa? A seconda dei punti di vista, Santiago può apparire sconfitto (è vecchio, povero e debole e il suo marlin è andato perduto) ma anche vincitore, poiché ha pur sempre portato a terra la carcassa di un pesce enorme che lascia tutti a bocca aperta e, cosa più importante, può contare sull'affetto sincero di Manolin. Lo stesso vale per il marlin, che viene ucciso ma non sconfitto, essendosi mostrato caparbio e determinato a lottare fino alla morte.
La vita, in altre parole, non è una partita che, in assoluto, si possa vincere o perdere; non è come un incontro di baseball (lo sport preferito di Santiago, grande tifoso di Joe Di Maggio). La partita che interessa a Hemingway – come scrisse Eugenio Montale quando recensì Il vecchio e il mare sul «Corriere della Sera» l'11 ottobre 1952 – è «il combattimento della morte con la vita», l'eterno scontro tra il desiderio di procrastinare il più possibile l'ora della fine e la consapevolezza della caducità dell'esistenza. La morte stessa – prosegue Montale – è necessariamente «sentita come una forma della vita», dal momento che l'uomo, a lungo andare, per la sua intrinseca condizione di essere vivente destinato a morire, non può sottrarsi alla sconfitta. Tra lui e il mare, alla fine vincerà sempre il mare. Non c'è scampo. Perciò, chiunque voglia considerarsi comunque vincitore non ha altra scelta che provare a tenere testa al destino preservando la propria dignità. La vera nobiltà appartiene a chi possiede un animo indomito, a chi non indietreggia, a chi non si arrende presagendo il fallimento. Manolin, nel romanzo, è il solo che l'abbia capito. Egli vuole bene al vecchio poiché sa guardare oltre la superficie, e riesce a vedere ciò che fa davvero la differenza tra le persone: il coraggio. Non importa quanto al largo ci si debba spingere, quanto profondo e impetuoso sia l'oceano, quanto grosso sia il pesce da pescare e quanto numerosi siano gli squali affamati: per salire su una barca, in ogni caso, ci vuole coraggio. Per vivere senza alcuna certezza che non sia quella della fine che tutti ci attende, per tenere testa al destino gridando con rabbia la propria voglia di andare avanti, per decidere di essere d'aiuto ai compagni di viaggio in difficoltà serve un coraggio da leoni. Ma se ci mostriamo caparbi, forti, ostinati, se accettiamo l'idea della nostra fragilità senza rassegnarci prematuramente alla sconfitta, ecco che le persone di valore si accorgeranno di noi e ci tenderanno una mano, si comporteranno come Manolin con Santiago. Solo così, unendo le forze, è possibile che il mare faccia un po' meno paura.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

domenica 9 febbraio 2014

«Il lupo della steppa»: «sordido anacoreta» in un mediocre mondo senza meta

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 febbraio 2014)
 
Pubblicato nel 1927, Il lupo della steppa è uno dei romanzi più affascinanti e complessi di Hermann Hesse, audace atto di accusa contro il suo tempo e spietata critica di una civiltà occidentale in declino. Dietro il protagonista Harry Haller (che significativamente ha le stesse iniziali dell'autore) si nasconde il disagio dello stesso Hesse dinanzi alla volgare massificazione della società borghese, il cui ordine – «categoria ontologica della mediazione», secondo la definizione di Claudio Magris – vorrebbe imporre una perenne limitazione degli eccessi del pensiero e dello spirito. In un mondo fondato sulla mediocrità non c'è quindi posto per il genio, per il solitario, famelico lupo della steppa: la cultura e l'edonismo, le due strade intraprese per sopravvivere in una realtà dominata dall'insignificante, portano inevitabilmente alla rassegnazione, che è pace interiore, sconfitta e morte.
Il romanzo è strutturato secondo differenti livelli narrativi. Hesse immagina che un Curatore (alter ego dell'autore?) decida di pubblicare le memorie di Harry Haller, uno strambo intellettuale sulla cinquantina che si autodefiniva «lupo della steppa», conosciuto in quanto affittuario per alcuni mesi di una camera presso l'abitazione di sua zia.
Haller è una persona profondamente turbata, abituata alla solitudine (anche la moglie lo ha abbandonato) e convinta di essere espressione di una duplice natura: una umana, razionale e, inevitabilmente, borghese, che lo spinge ad essere un cittadino onesto, amante della musica e della letteratura, profondamente contrario alla guerra e avverso al nazionalismo del suo tempo; una lupina, che lo induce continuamente a cedere agli istinti primordiali, ad abbandonarsi ai piaceri della carne, a rifugiarsi di notte nelle osterie per affogare nel vino l'angoscia del male di vivere. Il dissidio tra le due anime di Haller è analizzato nel dettaglio da una "Dissertazione sul lupo della steppa" che il protagonista dice di aver trovato in un opuscolo (ma che, con tutta evidenza, altro non è che il racconto del suo complesso itinerario spirituale).
Haller è convinto che la società borghese, meschina e mediocre, squallida «aspirazione a una via di mezzo tra gl'innumerevoli estremi e poli contrapposti della vita umana», frustri qualunque aspirazione alla grandezza: «Come potrei – afferma – non essere un lupo della steppa, un sordido anacoreta in un mondo del quale non condivido alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arrida?». Una soluzione parrebbe essere il suicidio, che tuttavia viene costantemente rimandato. L'idea, infatti, di poter porre fine, di colpo, alle sofferenze è in realtà sufficiente, dona forze inaspettate e, soprattutto, alimenta la curiosità, la volontà di mettersi alla prova di fronte al dolore.
Quando però Haller sembra sul punto di cedere, e si concede una bevuta all'osteria determinato, al suo ritorno a casa, a tagliarsi la gola, il destino gli tende una mano facendogli incontrare la bella Erminia, una giovane donna che si mostra immediatamente capace di comprendere la natura e lo stato d'animo del lupo della steppa. Tra i due nasce immediatamente una "fratellanza di spirito". Anche Erminia, infatti, è disgustata dall'insignificanza della società borghese, ma riesce a sopravvivere concedendosi, con distaccata ironia, tutto quanto di piacevole e di frivolo la vita abbia da offrire. È questo, a suo parere, che manca a Harry: la capacità di non prendere tutto troppo sul serio, di ridere delle avversità, anche perché l'uomo, che lo accetti o no, non può eludere il dolore.
Erminia insegna così a Harry a ballare, affinché nella danza egli si abbandoni agli istinti e si liberi del lupo della steppa; gli presenta Marie, una bellissima ragazza che aspetta solo di essere sedotta; infine lo introduce, tramite il suo amico sassofonista Pablo, al consumo di sostanze stupefacenti. In cambio, gli chiede di obbedirle e, quando sarà giunto il momento, di rispettare la sua ultima richiesta: ucciderla. Affascinato dalla giovane, Harry decide di assecondarla in ogni suo desiderio, convinto di riuscire in tal modo a recuperare quella capacità di amare che credeva di avere perduto per sempre.
Il romanzo si conclude con la descrizione di una grande festa in maschera che, nelle intenzioni di Erminia, doveva costituire la fine dell'apprendistato alla vita di Haller. Questi, dopo avere ballato tutta la notte, verso l'alba viene introdotto in un «teatro magico», proiezione delle allucinazioni conseguenti al consumo della droga fornita da Pablo. In un corridoio a forma di ferro di cavallo si aprono così numerose porte, che corrispondono ad altrettante visioni di Haller, il quale si tuffa nel passato riassaporando esperienze vissute in gioventù e sensazioni irreali. L'ultima allucinazione, infine, è quella che lo porta a vedere Erminia e Pablo distesi nudi sul pavimento: in preda alla gelosia, Haller accoltella la donna di cui si sente, ormai, innamorato, esaudendo così il suo ultimo desiderio. La pena per questo delitto – che è tale poiché, uccidendo Erminia, Haller ha dimostrato ancora una volta di non saper ridere delle avversità della vita – è però la condanna alla vita eterna. Come spiega Mozart – apparso nella visione nella veste di suprema guida spirituale –, Haller deve ancora imparare a cogliere l'umorismo dell'esistenza. La sua maturazione («Un giorno avrei imparato a ridere. Pablo mi aspettava. Mozart mi aspettava», sono le ultime parole del romanzo) passa attraverso la comprensione dell'assurdità della vita.
Harry Haller è in apparenza il classico inetto tipico della letteratura di inizio Novecento. Il suo disagio è di carattere psicologico: egli si sente un escluso, un emarginato sociale che pare incompreso un po' in tutti i campi, dai gusti artistici alle idee politiche. Ama la musica classica in un mondo che sembra conquistato dalle canzonette, legge libri datati e destinati a un pubblico colto, è contrario alla guerra e al nazionalismo: in poche parole, Haller è un lupo della steppa, che ha abbandonato il branco di una società borghese che non ha nulla da offrirgli, se non frustrazione e illusioni. Gli unici che ancora gli parlano (e che vale la pena ascoltare) sono gli «immortali» – i grandi del pensiero, delle lettere e della musica –, i soli da cui si possa sempre imparare poiché, in qualunque epoca, hanno qualcosa di interessante da dire.
Quello di Haller è un categorico rifiuto del contatto col prossimo, motivato dalla convinzione che il mondo stia progressivamente degenerando in direzione del nulla assoluto: niente ha valore nella società borghese, se non il denaro e il quieto vivere. Tutto pare irrimediabilmente frivolo, ipocrita, vacuo. Per questo Haller si convince di essere un indesiderato, un intruso: se si togliesse la vita, nessuno se ne accorgerebbe. E cesserebbero, di colpo, le sue sofferenze. Ma egli non ha il coraggio di uccidersi, inconsciamente avverte un attaccamento alla vita che, alla luce del suo dolore, gli risulta inspiegabile. Solo Erminia riesce, infine, ad aprirgli gli occhi, facendogli toccare con mano la possibilità di essere ancora qualcuno, di vedersi riconosciuto e apprezzato, persino amato. La giovane donna diventa per lui una guida nel cammino della guarigione, una sorta di Virgilio incaricato di tracciare la via che, dall'inferno, conduce alla luce della salvezza.
Il finale del romanzo, infatti, non deve trarre in inganno. Haller uccide sì Erminia nella sua visione – dimostrando quindi di essere ancora incapace di accettare il male che avverte per essere stato nuovamente respinto –, ma è proprio attraverso il suo gesto estremo che egli comprende l'inanità della ribellione alle ingiustizie che segnano l'esistenza. Non ha senso sforzarsi di sconfiggere «l'insopportabile tensione fra il non poter vivere e il non poter morire»; non conta nulla avere ragione riguardo all'ingiustizia che è parte dell'esistenza. Come bene spiega Erminia, «per questo mondo odierno, semplice, comodo, di facile contentatura, tu [Haller] hai troppe pretese, troppa fame, ed esso ti rigetta perché hai una dimensione in più». Anche Mozart, nelle pagine conclusive del libro, riprende lo stesso concetto: «Tutta la vita è così, caro mio, e bisogna prenderla com'è; e chi non è asino ci ride. [...] Lei, signor Harry, ha fatto della sua vita la storia di un'orrenda malattia, della sua intelligenza una disgrazia. [...] Le par giusto?». Il punto è che l'attaccamento alla vita, per quanto essa sia meschina, non è spiegabile: va accettato con rassegnazione. O magari, perché no?, ridendoci su.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

domenica 2 febbraio 2014

L’uomo e l’attesa della fine: la morte di sé, la morte dell’altro, la morte proibita

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° febbraio 2014)
 
Il passaggio dalla «morte addomesticata» (una morte con cui si ha familiarità, poiché rientra nell'ordine naturale delle cose) alla paura di un aldilà che porta con sé tremende incertezze (rese nell'iconografia attraverso la raffigurazione delle pene infernali) rientra in un complesso processo di individualizzazione della morte di cui è possibile scorgere i primi segni a partire dal XV secolo. Verso la fine del Medioevo fa la sua comparsa nell'iconografia il cadavere, simbolo non tanto dell'orrore per la morte fisica, quanto della corruzione. La decomposizione, infatti, rappresenta il fallimento dell'uomo, al quale – in un'epoca nella quale l'aspettativa media di vita era piuttosto bassa – spesso manca il tempo per realizzare se stesso. All'idea della morte, con il conseguente deperimento del corpo, sono pertanto associati un radicato attaccamento alle cose terrene e un senso di drammatica frustrazione, ma anche una più profonda presa di coscienza di sé e dei propri limiti.
«Nello specchio della propria morte – scrive Philippe Ariès – ogni uomo riscopriva il segreto della propria individualità». Per questo nella prima età moderna diventano frequenti le iscrizioni funerarie, le riproduzioni – sempre più realistiche – delle effigi dei defunti, le targhette (applicate contro un muro o un pilastro della chiesa) con il «qui giace» e le lastre riportanti, in conseguenza di donazioni alla Chiesa, le disposizioni per l'ottemperanza di servizi religiosi per la salvezza dell'anima. Si tratta di accorgimenti miranti a personalizzare il luogo della sepoltura, al fine di perpetuare il ricordo della persona defunta. La morte non è più un'inevitabile componente della vita da accettare con rassegnazione: è la fine di un'esistenza che ciascun individuo, giunto vicino alla fine, rimpiange con dolorosa nostalgia. Per certi versi, essa diviene quasi «una trasgressione che strappa l'uomo alla sua vita quotidiana», un'irrazionale rottura rispetto alla quotidianità. Non c'è da stupirsi, pertanto, che a partire dal XVI secolo la morte si carichi di suggestioni erotiche: dal Bernini che raffigura santa Teresa in uno stato che unisce estasi e agonia, al teatro barocco che «colloca i suoi innamorati nelle tombe», l'associazione morte-amore diviene una costante nell'arte e nella letteratura.
Nell'Europa del romanticismo, la morte si trasforma in un qualcosa che, al contempo, spaventa ed attrae. La vecchia familiarità non è che un lontano ricordo: al capezzale del moribondo gli astanti sono investiti da forti emozioni, non mostrano più la rassegnazione, distaccata e quasi disinteressata, di un tempo. La sola idea della morte commuove, anche al di là della singola esperienza provata quando si assiste alla fine di una vita. Come si evince dai testamenti, cambia radicalmente il rapporto tra moribondo e familiari, non più semplici spettatori di un evento del tutto normale. Se infatti in età medievale il testamento conteneva, come visto, precise «clausole pie» – che nascondevano una certa diffidenza nei confronti degli esecutori testamentari, i quali in assenza di una carta validata da un notaio non avrebbero probabilmente rispettato le ultime disposizioni del defunto –, nel XVIII secolo esso si trasforma nel documento con cui ancora oggi tutti abbiamo familiarità (ovvero un atto legale per regolare la gestione patrimoniale), segno evidente che i rapporti familiari si erano nel frattempo consolidati, rendendo superflue le raccomandazioni di natura "spirituale". Il lutto, in altre parole, prima vincolato da consuetudini obbligate, acquisisce quel carattere di spontaneità che è scontato secondo la mentalità contemporanea, ma che era sconosciuto all'uomo del Medioevo.
Come sottolinea Ariès, ciò che spaventa non è più la morte di sé, bensì la morte dell'altro, difficile da accettare. Il moderno culto delle tombe si spiega in effetti proprio con questo nuovo sentimento di pietà per i resti della persona che è venuta a mancare. Già a partire dal XIV, ma soprattutto dal XVII secolo, la localizzazione della sepoltura risulta essere una costante in Europa, finché nel XVIII secolo l'accumularsi dei morti presso le chiese non diviene intollerabile per la sensibilità dell'epoca, sia per questioni igieniche, sia per la crescente esigenza di offrire al cadavere una degna sepoltura. L'uomo del Settecento avverte inoltre la necessità di tenere vicino a sé i propri cari defunti, e quindi ha bisogno di cimiteri che rispettino l'individualità della tomba, un luogo che appartiene alla persona scomparsa ed è per questo incaricato di preservarne la memoria. È il preludio, di fatto, alla nascita del culto dei morti, che caratterizzerà – spesso confondendosi con esso – lo sviluppo del patriottismo, come attestano i numerosi monumenti ai caduti che popolano le città europee nel XIX e, soprattutto, nel XX secolo.
L'idea che il cimitero costituisca la "casa" del defunto matura entro il contesto di una complessa evoluzione dell'atteggiamento dell'uomo nei confronti della morte. Nella società contemporanea nessuno accetta più che il corpo del defunto non riceva adeguata e dignitosa sepoltura, anche perché è diventato sempre più difficile – e doloroso – fare i conti con la morte. Il consistente aumento dell'aspettativa media di vita ha di fatto trasformato la morte in un'esperienza da evitare, «proibita» secondo la definizione di Ariès. Non esiste più la familiarità con la morte: il capezzale "affollato" di età medievale (cui erano ammessi anche i bambini, che partecipavano a quella che era una formale cerimonia di commiato) sarebbe considerato macabro ai giorni nostri. Non solo: da un lato si fa di tutto per nascondere al moribondo la gravità del suo stato; dall'altro si "privatizza" il lutto, si evita il più possibile di esibire il dolore, per non turbare chi con la morte non vuole avere niente a che fare.
Anche il luogo della morte, oggi, è profondamente cambiato. Ormai nessuno si spegne nel proprio letto: nella seconda metà del XX secolo si muore in ospedale – un luogo, significativamente, separato, che la collettività emargina come se non facesse parte del suo mondo –, il più delle volte da soli. Dal momento che scatena emozioni che si vorrebbero evitare, è bene che la morte resti confinata: come puntualizza Ariès, «si ha il diritto di commuoversi solo in privato, cioè di nascosto». Le manifestazioni esteriori del lutto sono sempre più percepite come fuori luogo: il dolore, se esibito, non suscita pietà, ma ripugnanza. È perturbante, quindi potenzialmente contagioso.
Nel XX secolo – come ha sottolineato il sociologo inglese Geoffrey Gorer – la morte è diventata un tabù, di fatto sostituendosi, come primo divieto, al sesso. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, ma si permetteva loro di assistere alla cerimonia d'addio presso il capezzale del moribondo; oggi non si hanno più remore quando si parla di amore, ma se una persona cara muore, ai bambini si dice che è volata in cielo o che riposa in un giardino fiorito. Secondo Ariès, nel mondo capitalistico il raggiungimento e il mantenimento della felicità collettiva sono alla base di un autentico imperativo sociale: ovvero «la necessità d'essere felici, il dovere morale e l'obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza o di noia, dandosi l'aria di esser sempre felici, anche se si tocca il fondo della desolazione». Di conseguenza, «mostrando qualche segno di tristezza, si pecca contro la felicità, la si rimette in discussione, e allora la società rischia di perdere la sua ragion d'essere».
Forse non è un caso che nelle società che per prime hanno raggiunto un moderno sviluppo capitalistico (Inghilterra e Stati Uniti) nel XIX secolo si siano diffusi modelli di sepoltura più sobri e persino la cremazione, che è il modo più radicale per chiudere i conti con la morte. Il punto è che il dolore è un fatto privato, e meno lo si ostenta meglio è. Il che, si badi, non significa affatto provare indifferenza per la morte, anzi! Quando questa era familiare, le manifestazioni collettive ed artefatte del lutto nascondevano, in realtà, una certa rassegnazione dinanzi all'inevitabile: molti vedovi – si pensi alla figura stereotipata della matrigna in letteratura – si risposavano pochi mesi dopo la scomparsa della moglie. Oggi invece, in un mondo che bandisce il lutto, molti vedovi non sopravvivono un anno alla morte del coniuge. Come scrive Ariès, viviamo come se non dovessimo morire mai. «E, sorpresa, la nostra vita non sembra per questo più lunga!». Neanche un po'.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

L’uomo e l’attesa della fine: dalla «morte addomesticata» alla paura dell’aldilà

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 gennaio 2014)

L'uomo contemporaneo non discute volentieri della morte, concetto di per sé divenuto quasi «innominabile». Per certi versi, si ha come l'impressione che ci si nasconda dietro una forzata reticenza per esorcizzare la paura dell'inevitabile. Scrive Philippe Ariès: «Ormai tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali. Tecnicamente, ammettiamo di poter morire, stipuliamo assicurazioni sulla vita per salvaguardare la famiglia dalla miseria. Ma in verità, in fondo al nostro cuore, ci sentiamo immortali».
L'atteggiamento dell'uomo di fronte alla morte non è però sempre stato lo stesso. Ariès, nel corso di un ciclo di quattro conferenze tenute presso la Johns Hopkins University (il cui testo apparve per la prima volta in inglese nel 1974, e oggi è raccolto, in italiano, nel volume Storia della morte in Occidente, Rizzoli 1998), studia l'evoluzione profonda di questo atteggiamento a partire dal Medioevo, dimostrando come esso si sia radicalmente modificato in poco meno di un millennio.
Per prima cosa, Ariès prende in considerazione i cavalieri della chanson de geste: innanzitutto, essi sono avvisati prima di morire. Orlando, a Roncisvalle, «sente che il suo tempo è finito»; Tristano «comprese che stava per morire». L'avviso, il riconoscimento dell'avvicinarsi della fine, è del tutto spontaneo, non ha nulla a che vedere con il soprannaturale. Anche don Chisciotte – e qui siamo già nel XVII secolo – avverte con chiarezza di essere «vicino a morire»; e proprio nella presa di coscienza di essere prossimo alla fine riacquista la ragione.
Ancora nel XIX secolo, Tolstoj in Tre morti racconta di un vecchio vetturale sofferente che, interrogato da una donna che gli chiede come si sente, risponde: «La morte mia è arrivata, ecco cos'è». In tutte queste testimonianze letterarie, la fine della vita è dunque attesa con pacata rassegnazione, «molto semplicemente» scrive Ariès. Essendo avvisato in anticipo, l'uomo dei romanzi ha tempo di predisporre precisi rituali prima di esalare l'ultimo respiro. Per prima cosa, si sdraia con lo sguardo rivolto verso il cielo. Seguono il rimpianto della vita (Orlando, per esempio, ricorda le propria gesta), il perdono degli astanti al capezzale, la preghiera e l'assoluzione impartita dal prete, dopodiché non resta che attendere la morte, che puntualmente arriva al termine del rituale.
La prima conclusione da trarre è che la morte, in tutti questi casi, è una cerimonia pubblica, che segue un preciso protocollo, cui il moribondo si attiene scrupolosamente. Le camere degli agonizzanti sono sovraffollate, al punto che nel XVIII secolo – scoperta l'importanza delle prime regole d'igiene – i medici spesso si lamentavano di quella che reputavano una consuetudine nociva. Il punto più importante su cui porre l'accento è però un altro: i riti mortuari non sono drammatici. L'uomo trapassa senza che i vivi provino particolari emozioni, poiché la morte, nelle società preindustriali, fa parte della vita quotidiana, è un'esperienza cui tutti sono assuefatti. Per questo Ariès la definisce «addomesticata»: la si conosce e non fa paura; rientra nell'ordine naturale delle cose.
La familiarità con la morte è all'origine della coesistenza dei vivi e dei morti. Gli antichi, pur avendo abitualmente a che fare con la morte, temevano questo tipo di promiscuità, tant'è che proibivano di seppellire i defunti in urbe. Fu il culto dei martiri a segnare un punto di svolta. I luoghi dove essi erano sepolti attirarono le sepolture dei fedeli, i quali credevano in questo modo di trovare protezione per i morti, ma anche per i vivi. Presso le sepolture extraurbane dei santi sorsero basiliche, attorno alle quali i cristiani volevano essere inumati, finché il contatto con i morti – favorito, del resto, anche dallo sviluppo dei sobborghi – non divenne così frequente da indurre le autorità ad abolire le disposizioni che imponevano di seppellire extra urbem.
Un significativo riflesso di questo passaggio è offerto dalla stessa semantica: nel linguaggio medievale, infatti, la parola chiesa non designa soltanto l'edificio di culto, ma anche tutto lo spazio circostante, compreso il cimitero, termine in origine dotto, cui inizialmente si preferiva la parola atrium (in francese aître), ad indicare, appunto, la parte esterna della chiesa. Ad essa si sovrappose col tempo la parola charnier (ossario), che alla fine del Medioevo divenne abituale per indicare i porticati, sormontati da ossari (dove le ossa, prelevate da fosse comuni, erano di frequente in bella vista e disposte con arte, per ottenere effetti decorativi), che delimitavano il cortile della chiesa. La conclusione di Ariès è che, per tutto il Medioevo e almeno fino al XVII secolo, ciò che importava era la collocazione della salma nel recinto sacro della chiesa, non la tomba, che invece per gli antichi contava in sé, a prescindere dallo spazio circostante.
La familiarità con la morte faceva sì che i vivi non si impressionassero quando le ossa affioravano in superficie nella terra dei cimiteri (si pensi al cranio di Amleto...). E non solo. Nel Medioevo la parola cimitero poteva indicare anche un luogo d'asilo, un punto d'incontro – una sorta di foro – presso il quale sorgevano persino delle botteghe. Questa doppia funzione deriva dalla consuetudine di cercare la protezione del martire: entro i muri del cimitero, non solo i morti, ma anche i vivi erano in pace Domini. In queste condizioni, ovviamente, il cimitero-asilo ebbe talvolta il sopravvento sul cimitero-luogo di inumazione, tant'è che in certi casi venivano creati cimiteri (cintati da muri e vicini a una cappella) entro i quali era addirittura proibito seppellire. Ma questa non era una regola fissa, a riprova di quanto fosse tollerata – almeno fino al XVII secolo – la promiscuità tra vivi e morti (non rare erano infatti le case costruite sopra gli ossari).
Entro l'ampia e duratura cornice della complessiva subordinazione del singolo al destino collettivo di un'umanità che accettava senza drammi le leggi di natura, è bene, ad ogni modo, prendere in esame anche quei fenomeni che introdussero, col tempo, una sempre più sentita preoccupazione per l'individuo. Ariès considera innanzitutto l'iconografia dei primi secoli del Medioevo, la quale sottintendeva un'escatologia che non contemplava alcuna forma di giudizio: i morti che si erano affidati alla Chiesa riposavano in pace sino al risveglio nella Gerusalemme celeste, il Paradiso. Nessun accenno era previsto alla responsabilità individuale: la salvezza era assicurata dalla protezione della Chiesa.
La scena cambia nell'iconografia del XII e, soprattutto, del XIII secolo, con la comparsa del giudizio. Cristo appare come giudice supremo, coadiuvato da una corte incaricata di pesare sulla bilancia le cattive e le buone azioni del defunto, scritte sul cosiddetto liber vitae. Esso, dapprima concepito come censimento universale dei giusti, diviene alla fine del Medioevo un registro personalizzato, con il bilancio delle azioni individuali da sottoporre al giudice. Significativamente, il momento del bilancio definitivo non corrisponde inizialmente a quello della morte, bensì alla fine dei tempi. Solo a partire dal XV secolo il tempo escatologico che intercorre tra la morte e la fine dei tempi risulta soppresso, con l'anticipazione del giudizio al momento del trapasso. Fanno così la loro comparsa nell'iconografia, direttamente al capezzale del moribondo, da un lato la corte celeste, dall'altro le forze del Demonio. Dio, non più giudice supremo, è arbitro della disputa tra le forze del bene e del male che si contendono l'anima dell'uomo prossimo alla fine. L'interpretazione corretta della scena non è però immediata: a prima vista, sembrerebbe infatti che il moribondo assista passivamente alla "conta" delle sue azioni; in realtà egli è messo alla prova, tentato di cedere alla disperazione per gli errori commessi o, al contrario, di abbandonarsi alla «vanagloria» per le buone azioni. La salvezza è il premio per chi si mostra forte e resiste alle tentazioni.
La rappresentazione tradizionale della morte – quella del capezzale "affollato" – viene pertanto a giustapporsi a quella, molto meno rassicurante, del giudizio individuale. In tal modo, se da un lato è enfatizzata la libertà del singolo, artefice del proprio destino, dall'altro è evidente che sull'attimo finale che precede la morte viene posto un accento drammatico. Fa la sua comparsa, in sostanza, la paura di un aldilà incerto, che si traduce nelle rappresentazioni terrificanti delle pene infernali. Tutto pare decidersi al momento del giudizio, il che – per la Chiesa della Controriforma – nascondeva non poche insidie, prima tra tutte l'idea che, a prescindere dalle opere terrene, una "buona morte" potesse garantire la salvezza. (Continua)

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero