domenica 9 febbraio 2014

«Il lupo della steppa»: «sordido anacoreta» in un mediocre mondo senza meta

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 febbraio 2014)
 
Pubblicato nel 1927, Il lupo della steppa è uno dei romanzi più affascinanti e complessi di Hermann Hesse, audace atto di accusa contro il suo tempo e spietata critica di una civiltà occidentale in declino. Dietro il protagonista Harry Haller (che significativamente ha le stesse iniziali dell'autore) si nasconde il disagio dello stesso Hesse dinanzi alla volgare massificazione della società borghese, il cui ordine – «categoria ontologica della mediazione», secondo la definizione di Claudio Magris – vorrebbe imporre una perenne limitazione degli eccessi del pensiero e dello spirito. In un mondo fondato sulla mediocrità non c'è quindi posto per il genio, per il solitario, famelico lupo della steppa: la cultura e l'edonismo, le due strade intraprese per sopravvivere in una realtà dominata dall'insignificante, portano inevitabilmente alla rassegnazione, che è pace interiore, sconfitta e morte.
Il romanzo è strutturato secondo differenti livelli narrativi. Hesse immagina che un Curatore (alter ego dell'autore?) decida di pubblicare le memorie di Harry Haller, uno strambo intellettuale sulla cinquantina che si autodefiniva «lupo della steppa», conosciuto in quanto affittuario per alcuni mesi di una camera presso l'abitazione di sua zia.
Haller è una persona profondamente turbata, abituata alla solitudine (anche la moglie lo ha abbandonato) e convinta di essere espressione di una duplice natura: una umana, razionale e, inevitabilmente, borghese, che lo spinge ad essere un cittadino onesto, amante della musica e della letteratura, profondamente contrario alla guerra e avverso al nazionalismo del suo tempo; una lupina, che lo induce continuamente a cedere agli istinti primordiali, ad abbandonarsi ai piaceri della carne, a rifugiarsi di notte nelle osterie per affogare nel vino l'angoscia del male di vivere. Il dissidio tra le due anime di Haller è analizzato nel dettaglio da una "Dissertazione sul lupo della steppa" che il protagonista dice di aver trovato in un opuscolo (ma che, con tutta evidenza, altro non è che il racconto del suo complesso itinerario spirituale).
Haller è convinto che la società borghese, meschina e mediocre, squallida «aspirazione a una via di mezzo tra gl'innumerevoli estremi e poli contrapposti della vita umana», frustri qualunque aspirazione alla grandezza: «Come potrei – afferma – non essere un lupo della steppa, un sordido anacoreta in un mondo del quale non condivido alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arrida?». Una soluzione parrebbe essere il suicidio, che tuttavia viene costantemente rimandato. L'idea, infatti, di poter porre fine, di colpo, alle sofferenze è in realtà sufficiente, dona forze inaspettate e, soprattutto, alimenta la curiosità, la volontà di mettersi alla prova di fronte al dolore.
Quando però Haller sembra sul punto di cedere, e si concede una bevuta all'osteria determinato, al suo ritorno a casa, a tagliarsi la gola, il destino gli tende una mano facendogli incontrare la bella Erminia, una giovane donna che si mostra immediatamente capace di comprendere la natura e lo stato d'animo del lupo della steppa. Tra i due nasce immediatamente una "fratellanza di spirito". Anche Erminia, infatti, è disgustata dall'insignificanza della società borghese, ma riesce a sopravvivere concedendosi, con distaccata ironia, tutto quanto di piacevole e di frivolo la vita abbia da offrire. È questo, a suo parere, che manca a Harry: la capacità di non prendere tutto troppo sul serio, di ridere delle avversità, anche perché l'uomo, che lo accetti o no, non può eludere il dolore.
Erminia insegna così a Harry a ballare, affinché nella danza egli si abbandoni agli istinti e si liberi del lupo della steppa; gli presenta Marie, una bellissima ragazza che aspetta solo di essere sedotta; infine lo introduce, tramite il suo amico sassofonista Pablo, al consumo di sostanze stupefacenti. In cambio, gli chiede di obbedirle e, quando sarà giunto il momento, di rispettare la sua ultima richiesta: ucciderla. Affascinato dalla giovane, Harry decide di assecondarla in ogni suo desiderio, convinto di riuscire in tal modo a recuperare quella capacità di amare che credeva di avere perduto per sempre.
Il romanzo si conclude con la descrizione di una grande festa in maschera che, nelle intenzioni di Erminia, doveva costituire la fine dell'apprendistato alla vita di Haller. Questi, dopo avere ballato tutta la notte, verso l'alba viene introdotto in un «teatro magico», proiezione delle allucinazioni conseguenti al consumo della droga fornita da Pablo. In un corridoio a forma di ferro di cavallo si aprono così numerose porte, che corrispondono ad altrettante visioni di Haller, il quale si tuffa nel passato riassaporando esperienze vissute in gioventù e sensazioni irreali. L'ultima allucinazione, infine, è quella che lo porta a vedere Erminia e Pablo distesi nudi sul pavimento: in preda alla gelosia, Haller accoltella la donna di cui si sente, ormai, innamorato, esaudendo così il suo ultimo desiderio. La pena per questo delitto – che è tale poiché, uccidendo Erminia, Haller ha dimostrato ancora una volta di non saper ridere delle avversità della vita – è però la condanna alla vita eterna. Come spiega Mozart – apparso nella visione nella veste di suprema guida spirituale –, Haller deve ancora imparare a cogliere l'umorismo dell'esistenza. La sua maturazione («Un giorno avrei imparato a ridere. Pablo mi aspettava. Mozart mi aspettava», sono le ultime parole del romanzo) passa attraverso la comprensione dell'assurdità della vita.
Harry Haller è in apparenza il classico inetto tipico della letteratura di inizio Novecento. Il suo disagio è di carattere psicologico: egli si sente un escluso, un emarginato sociale che pare incompreso un po' in tutti i campi, dai gusti artistici alle idee politiche. Ama la musica classica in un mondo che sembra conquistato dalle canzonette, legge libri datati e destinati a un pubblico colto, è contrario alla guerra e al nazionalismo: in poche parole, Haller è un lupo della steppa, che ha abbandonato il branco di una società borghese che non ha nulla da offrirgli, se non frustrazione e illusioni. Gli unici che ancora gli parlano (e che vale la pena ascoltare) sono gli «immortali» – i grandi del pensiero, delle lettere e della musica –, i soli da cui si possa sempre imparare poiché, in qualunque epoca, hanno qualcosa di interessante da dire.
Quello di Haller è un categorico rifiuto del contatto col prossimo, motivato dalla convinzione che il mondo stia progressivamente degenerando in direzione del nulla assoluto: niente ha valore nella società borghese, se non il denaro e il quieto vivere. Tutto pare irrimediabilmente frivolo, ipocrita, vacuo. Per questo Haller si convince di essere un indesiderato, un intruso: se si togliesse la vita, nessuno se ne accorgerebbe. E cesserebbero, di colpo, le sue sofferenze. Ma egli non ha il coraggio di uccidersi, inconsciamente avverte un attaccamento alla vita che, alla luce del suo dolore, gli risulta inspiegabile. Solo Erminia riesce, infine, ad aprirgli gli occhi, facendogli toccare con mano la possibilità di essere ancora qualcuno, di vedersi riconosciuto e apprezzato, persino amato. La giovane donna diventa per lui una guida nel cammino della guarigione, una sorta di Virgilio incaricato di tracciare la via che, dall'inferno, conduce alla luce della salvezza.
Il finale del romanzo, infatti, non deve trarre in inganno. Haller uccide sì Erminia nella sua visione – dimostrando quindi di essere ancora incapace di accettare il male che avverte per essere stato nuovamente respinto –, ma è proprio attraverso il suo gesto estremo che egli comprende l'inanità della ribellione alle ingiustizie che segnano l'esistenza. Non ha senso sforzarsi di sconfiggere «l'insopportabile tensione fra il non poter vivere e il non poter morire»; non conta nulla avere ragione riguardo all'ingiustizia che è parte dell'esistenza. Come bene spiega Erminia, «per questo mondo odierno, semplice, comodo, di facile contentatura, tu [Haller] hai troppe pretese, troppa fame, ed esso ti rigetta perché hai una dimensione in più». Anche Mozart, nelle pagine conclusive del libro, riprende lo stesso concetto: «Tutta la vita è così, caro mio, e bisogna prenderla com'è; e chi non è asino ci ride. [...] Lei, signor Harry, ha fatto della sua vita la storia di un'orrenda malattia, della sua intelligenza una disgrazia. [...] Le par giusto?». Il punto è che l'attaccamento alla vita, per quanto essa sia meschina, non è spiegabile: va accettato con rassegnazione. O magari, perché no?, ridendoci su.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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