domenica 2 febbraio 2014

L’uomo e l’attesa della fine: la morte di sé, la morte dell’altro, la morte proibita

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° febbraio 2014)
 
Il passaggio dalla «morte addomesticata» (una morte con cui si ha familiarità, poiché rientra nell'ordine naturale delle cose) alla paura di un aldilà che porta con sé tremende incertezze (rese nell'iconografia attraverso la raffigurazione delle pene infernali) rientra in un complesso processo di individualizzazione della morte di cui è possibile scorgere i primi segni a partire dal XV secolo. Verso la fine del Medioevo fa la sua comparsa nell'iconografia il cadavere, simbolo non tanto dell'orrore per la morte fisica, quanto della corruzione. La decomposizione, infatti, rappresenta il fallimento dell'uomo, al quale – in un'epoca nella quale l'aspettativa media di vita era piuttosto bassa – spesso manca il tempo per realizzare se stesso. All'idea della morte, con il conseguente deperimento del corpo, sono pertanto associati un radicato attaccamento alle cose terrene e un senso di drammatica frustrazione, ma anche una più profonda presa di coscienza di sé e dei propri limiti.
«Nello specchio della propria morte – scrive Philippe Ariès – ogni uomo riscopriva il segreto della propria individualità». Per questo nella prima età moderna diventano frequenti le iscrizioni funerarie, le riproduzioni – sempre più realistiche – delle effigi dei defunti, le targhette (applicate contro un muro o un pilastro della chiesa) con il «qui giace» e le lastre riportanti, in conseguenza di donazioni alla Chiesa, le disposizioni per l'ottemperanza di servizi religiosi per la salvezza dell'anima. Si tratta di accorgimenti miranti a personalizzare il luogo della sepoltura, al fine di perpetuare il ricordo della persona defunta. La morte non è più un'inevitabile componente della vita da accettare con rassegnazione: è la fine di un'esistenza che ciascun individuo, giunto vicino alla fine, rimpiange con dolorosa nostalgia. Per certi versi, essa diviene quasi «una trasgressione che strappa l'uomo alla sua vita quotidiana», un'irrazionale rottura rispetto alla quotidianità. Non c'è da stupirsi, pertanto, che a partire dal XVI secolo la morte si carichi di suggestioni erotiche: dal Bernini che raffigura santa Teresa in uno stato che unisce estasi e agonia, al teatro barocco che «colloca i suoi innamorati nelle tombe», l'associazione morte-amore diviene una costante nell'arte e nella letteratura.
Nell'Europa del romanticismo, la morte si trasforma in un qualcosa che, al contempo, spaventa ed attrae. La vecchia familiarità non è che un lontano ricordo: al capezzale del moribondo gli astanti sono investiti da forti emozioni, non mostrano più la rassegnazione, distaccata e quasi disinteressata, di un tempo. La sola idea della morte commuove, anche al di là della singola esperienza provata quando si assiste alla fine di una vita. Come si evince dai testamenti, cambia radicalmente il rapporto tra moribondo e familiari, non più semplici spettatori di un evento del tutto normale. Se infatti in età medievale il testamento conteneva, come visto, precise «clausole pie» – che nascondevano una certa diffidenza nei confronti degli esecutori testamentari, i quali in assenza di una carta validata da un notaio non avrebbero probabilmente rispettato le ultime disposizioni del defunto –, nel XVIII secolo esso si trasforma nel documento con cui ancora oggi tutti abbiamo familiarità (ovvero un atto legale per regolare la gestione patrimoniale), segno evidente che i rapporti familiari si erano nel frattempo consolidati, rendendo superflue le raccomandazioni di natura "spirituale". Il lutto, in altre parole, prima vincolato da consuetudini obbligate, acquisisce quel carattere di spontaneità che è scontato secondo la mentalità contemporanea, ma che era sconosciuto all'uomo del Medioevo.
Come sottolinea Ariès, ciò che spaventa non è più la morte di sé, bensì la morte dell'altro, difficile da accettare. Il moderno culto delle tombe si spiega in effetti proprio con questo nuovo sentimento di pietà per i resti della persona che è venuta a mancare. Già a partire dal XIV, ma soprattutto dal XVII secolo, la localizzazione della sepoltura risulta essere una costante in Europa, finché nel XVIII secolo l'accumularsi dei morti presso le chiese non diviene intollerabile per la sensibilità dell'epoca, sia per questioni igieniche, sia per la crescente esigenza di offrire al cadavere una degna sepoltura. L'uomo del Settecento avverte inoltre la necessità di tenere vicino a sé i propri cari defunti, e quindi ha bisogno di cimiteri che rispettino l'individualità della tomba, un luogo che appartiene alla persona scomparsa ed è per questo incaricato di preservarne la memoria. È il preludio, di fatto, alla nascita del culto dei morti, che caratterizzerà – spesso confondendosi con esso – lo sviluppo del patriottismo, come attestano i numerosi monumenti ai caduti che popolano le città europee nel XIX e, soprattutto, nel XX secolo.
L'idea che il cimitero costituisca la "casa" del defunto matura entro il contesto di una complessa evoluzione dell'atteggiamento dell'uomo nei confronti della morte. Nella società contemporanea nessuno accetta più che il corpo del defunto non riceva adeguata e dignitosa sepoltura, anche perché è diventato sempre più difficile – e doloroso – fare i conti con la morte. Il consistente aumento dell'aspettativa media di vita ha di fatto trasformato la morte in un'esperienza da evitare, «proibita» secondo la definizione di Ariès. Non esiste più la familiarità con la morte: il capezzale "affollato" di età medievale (cui erano ammessi anche i bambini, che partecipavano a quella che era una formale cerimonia di commiato) sarebbe considerato macabro ai giorni nostri. Non solo: da un lato si fa di tutto per nascondere al moribondo la gravità del suo stato; dall'altro si "privatizza" il lutto, si evita il più possibile di esibire il dolore, per non turbare chi con la morte non vuole avere niente a che fare.
Anche il luogo della morte, oggi, è profondamente cambiato. Ormai nessuno si spegne nel proprio letto: nella seconda metà del XX secolo si muore in ospedale – un luogo, significativamente, separato, che la collettività emargina come se non facesse parte del suo mondo –, il più delle volte da soli. Dal momento che scatena emozioni che si vorrebbero evitare, è bene che la morte resti confinata: come puntualizza Ariès, «si ha il diritto di commuoversi solo in privato, cioè di nascosto». Le manifestazioni esteriori del lutto sono sempre più percepite come fuori luogo: il dolore, se esibito, non suscita pietà, ma ripugnanza. È perturbante, quindi potenzialmente contagioso.
Nel XX secolo – come ha sottolineato il sociologo inglese Geoffrey Gorer – la morte è diventata un tabù, di fatto sostituendosi, come primo divieto, al sesso. Una volta si raccontava ai bambini che nascevano sotto un cavolo, ma si permetteva loro di assistere alla cerimonia d'addio presso il capezzale del moribondo; oggi non si hanno più remore quando si parla di amore, ma se una persona cara muore, ai bambini si dice che è volata in cielo o che riposa in un giardino fiorito. Secondo Ariès, nel mondo capitalistico il raggiungimento e il mantenimento della felicità collettiva sono alla base di un autentico imperativo sociale: ovvero «la necessità d'essere felici, il dovere morale e l'obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva evitando ogni causa di tristezza o di noia, dandosi l'aria di esser sempre felici, anche se si tocca il fondo della desolazione». Di conseguenza, «mostrando qualche segno di tristezza, si pecca contro la felicità, la si rimette in discussione, e allora la società rischia di perdere la sua ragion d'essere».
Forse non è un caso che nelle società che per prime hanno raggiunto un moderno sviluppo capitalistico (Inghilterra e Stati Uniti) nel XIX secolo si siano diffusi modelli di sepoltura più sobri e persino la cremazione, che è il modo più radicale per chiudere i conti con la morte. Il punto è che il dolore è un fatto privato, e meno lo si ostenta meglio è. Il che, si badi, non significa affatto provare indifferenza per la morte, anzi! Quando questa era familiare, le manifestazioni collettive ed artefatte del lutto nascondevano, in realtà, una certa rassegnazione dinanzi all'inevitabile: molti vedovi – si pensi alla figura stereotipata della matrigna in letteratura – si risposavano pochi mesi dopo la scomparsa della moglie. Oggi invece, in un mondo che bandisce il lutto, molti vedovi non sopravvivono un anno alla morte del coniuge. Come scrive Ariès, viviamo come se non dovessimo morire mai. «E, sorpresa, la nostra vita non sembra per questo più lunga!». Neanche un po'.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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