giovedì 29 maggio 2014

«Radici nel Cielo»: la tenace ricerca del fine ultimo dell'esistenza nella prospettiva di un credente

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 maggio 2014)

Vocabolario Treccani alla mano, alla voce aforisma si legge la seguente definizione: «Proposizione che riassume in brevi e sentenziose parole il risultato di precedenti osservazioni o che, più genericamente, afferma una verità, una regola o una massima di vita pratica».
La premessa, che può apparire pleonastica, è a ben vedere fondamentale: chiunque abbia un minimo di confidenza con la scrittura è infatti ben cosciente delle difficoltà che si incontrano allorché si tenti di racchiudere in poche righe una riflessione che richiederebbe cospicue argomentazioni. L'aforisma è un porto cui si approda dopo lunga navigazione, un «risultato» – per l'appunto – cui si perviene al termine di un faticoso percorso di ricerca. Per assurdo, più la massima è breve, più è travagliato, quasi sempre, il processo di elaborazione. Giusto per intendersi, basti pensare alle classiche paranoie che assillano gli scrittori alla disperata ricerca di un titolo efficace per la loro opera in corso di stampa: come condensare in una decina di parole l'intero contenuto di un volume (ma anche, molto più in piccolo, di un articolo di giornale)?
Ebbene, nel suo ultimo libro (Radici nel Cielo, Fede & Cultura 2014) Gian Carlo Montanari – prolifico autore modenese che ha all'attivo numerose pubblicazioni di storia locale – ha deciso, si passi l'espressione, di complicarsi non poco la vita, nel senso che la sua acuta riflessione (peraltro incentrata su un tema complesso quale l'esistenza di Dio) è interamente affidata a ben 572 aforismi di varia lunghezza. A dispetto però dell'apparente frammentarietà di uno scritto così concepito, è bene sgombrare il campo da equivoci: le massime, se è vero (e inevitabile, per certi versi) che si reggono in piedi da sole, sono studiate secondo un'implicita ma evidente sequenzialità, a delineare un percorso logico capace di legare una pagina con l'altra. I pensieri dell'autore, detto altrimenti, non sono una confusa congerie di parole in libertà, ma al contrario si intrecciano e si completano reciprocamente, rincorrendosi a guisa di staffettisti che si passano il testimone.
Il collante che unisce i singoli trafiletti è, come anticipato, il tema dell'esistenza di Dio, affrontato non di rado quasi a mo' di serrato dialogo con illustri filosofi del passato. Tra tutti, il più ingombrante è certamente Marx, che entra in scena a partire dall'aforisma numero 8. Scrive Montanari: «Karl Marx, dando un carattere materialistico alla sua opera, ha posto le basi della disgregazione comunista del suo comunismo. Doveva dirsi che non sarà mai possibile che l'umanità intera sia atea, poiché è impossibile dimostrare che l'anima e Dio non esistono, essendo noto che la prima non ha peso e massa e il secondo è spirito che aleggia».
In nuce, in queste poche righe è già presente il senso ultimo del libro. Il punto è che l'ateismo assoluto è incompatibile con quella fede nell'umanità che, necessariamente, ogni uomo che si interroga su se stesso deve coltivare. Se accettiamo l'idea che il cristianesimo, secondo la formula nietzschana, abbia avuto il «colpo di genio» di promettere la salvezza (ovvero un futuro nel quale il dolore e la sofferenza acquistano un significato), dobbiamo infatti allo stesso tempo riconoscere che l'intero mondo occidentale – persino quello dei non credenti – è cristianizzato. Il che non significa – si badi – sostenere che non si possa essere sinceramente (ingenuamente?) persuasi che non vi sia alcuna intelligenza superiore che tutto ordina. Come rileva il filosofo Umberto Galimberti in un suo recente libro, affermare che tutto, in Occidente, è cristiano vuol dire che la nostra cultura non può esimersi – contrariamente a quella degli antichi Greci, per esempio – dal guardare al futuro con un certo ottimismo, con l'idea, cioè, che tutto sia migliorabile. Ancora oggi, anche se la nostra civiltà assomiglia sempre più ad un edificio pericolante, non riusciamo ad immaginare l'avvenire se non in termini di progresso e di sviluppo, così come il cristiano non può sfuggire al triplice nesso passato-peccato, presente-espiazione, futuro-salvezza. In quest'ottica, persino Marx era un grande cristiano: nella sua concezione filosofica il passato è ingiustizia, il presente rivoluzione e il futuro giustizia sociale. Stesso discorso per la scienza: al passato corrisponde l'ignoranza, al presente la ricerca, al futuro il progresso. Ora, negare un senso all'esistenza e al contempo nutrire così ampia fiducia nelle potenzialità umane non è forse una contraddizione?
Ma torniamo a Montanari, aforisma 83: «L'errore di chi cerca Dio scientificamente consiste proprio nel porre domande alla materia: come può rispondergli? Solo l'anima parla». Premesso dunque che la grandezza di Dio risiede proprio nella sua incomprensibilità (altrimenti che Dio sarebbe?), vale la pena chiedersi se non sia inevitabile che ogni uomo si interroghi sul senso della propria vita, alla disperata ricerca di un appiglio che certo non può trovare su questa terra. Detto banalmente, davvero possiamo credere che, siccome le nostre possibilità di conoscenza sono limitate, il mondo intero formi una realtà vacua ed insignificante? Cosa ci trattiene dal farla finita, qui e subito, se fosse vero che vivere non è altro che sopravvivere?
La fede, a ben vedere, è speranza che si trasforma in convinzione; è ribellione al niente che ci angoscia; è il credere che, dopo la morte, finalmente comprenderemo il senso dell'esistenza, il perché – irraggiungibile finché siamo materia – che sta all'origine della nostra vita. «Il punto debole dell'ateismo – prosegue Montanari, aforisma 102 – sta nella pretesa di voler bombardare e frantumare con il ragionamento umano l'esistenza del Supremo. Ma è proprio perché non si spiega l'Infinito con il ragionamento (il ragionamento si flette e non piega se stesso) che l'ateismo non regge all'assalto della ragione che ha invocato e si perde». L'ateo, in altre parole, pretende di affermare ciò che non può dimostrare (l'inesistenza di Dio) adducendo come prova non la forza, bensì la debolezza dei propri argomenti (i limiti della ragione); il che, volendo usare una metafora, sarebbe come dire che, di fronte a una montagna impossibile da scalare, è più saggio negare l'esistenza della montagna piuttosto che ammettere l'inadeguatezza dei mezzi che si hanno a disposizione per arrampicarsi.
L'ateismo, dunque, ben lungi dall'essere una dolorosa presa di coscienza, si caratterizza più che altro come una debolezza, come un'incapacità di pensare in grande. E dice bene al riguardo Montanari (aforisma 172): «Una persona religiosa non è più fortunata di altre, come banalmente si sente spesso dire. Semplicemente, è maggiormente consapevole». Troppo facile, infatti, liquidare la fede come un dono che un Dio capriccioso elargisce a pochi eletti: se immaginiamo il credere come una sagoma che a stento emerge dall'ombra, è chiaro che ci sarà sempre sufficiente luce per chi vuole sforzarsi di vedere, ma non abbastanza per chi si rifiuta di affaticare gli occhi. La fede è continua ricerca, non è data una volta per sempre: come una pianta, va innaffiata giorno dopo giorno, altrimenti appassisce (concetto, questo, per il quale vale la pena citare l'aforisma 495: «A un buon prete dissero: "Bisogna preparare le prediche". Lui, mite, borbottò: "Bisogna prepararsi per le prediche"»).
Il problema è che, in una società oramai completamente secolarizzata, il credere viene pressoché universalmente bollato come ammuffito retaggio del passato. Roba da ingenui che non riescono a stare al passo con i tempi. E il risultato è che si sta avverando quanto previsto oltre un secolo fa da Nietzsche a proposito della morte di Dio (il che, si badi, non significa sostenere che Dio non esiste – dal momento che può morire solo ciò che prima era vivo –, bensì che viviamo in un'epoca che ritiene di non avere più bisogno di Dio). L'uomo contemporaneo è completamente immerso in quel nichilismo che il filosofo tedesco definiva con poche, incisive parole: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al "perché?". Che significa nichilismo? – che i valori supremi perdono valore». Il che, sia chiaro, è avvenuto anche in passato, ma con una fondamentale differenza: se i valori si svalutavano, era per farne emergere altri. Oggi invece i valori si svalutano per far posto al nulla (al nichilismo, per l'appunto), con la conseguenza che stiamo progressivamente perdendo fiducia nell'umanità (aforisma 315: «L'ateo, per quanto garrulo, è un invincibile pessimista»), angosciati da un futuro che incute timore.
Con lucidità, Montanari coglie l'essenza di quello che potrebbe definirsi il dramma della modernità. Ovvero che un mondo che non crede più a niente (che «non ha più santi né eroi», come recita il verso di una celebre canzone) non assomiglia per nulla – come taluni vorrebbero indurci a credere – a una terra promessa. Significativamente, il libro si conclude con due aforismi che contengono un accorato appello affinché l'umanità inverta la rotta che la sta conducendo, inesorabilmente, verso un minaccioso baratro: «Ha ragione la Santa Sede a rivendicare le radici cristiane dell'Europa. È che però, sopra, sta seccandosi il tronco della pianta» (571); «Necessario continuare a piantare» (572).

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venerdì 23 maggio 2014

«La madre»: versi sull'essenza della fede, della vita e della morte

(articolo apparso su Prima Pagina del 17 maggio 2014)

LA MADRE

E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all'Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

La madre, una delle liriche più commoventi di Giuseppe Ungaretti, fu composta nel 1930, a circa un anno dalla morte della genitrice, con la quale lo scrittore aveva consolidato nel tempo un intimo e profondo legame. La poesia fa parte della sezione intitolata Leggende della raccolta Sentimento del tempo, pubblicata nel 1933.
L'autore immagina il momento in cui si ricongiungerà con la madre dopo la morte. La donna, descritta come «una statua davanti all'Eterno», sarà una preziosa guida nell'aldilà, ma rivolgerà lo sguardo al figlio solo dopo la concessione, da parte di Dio, del suo perdono. In quel momento – conclude Ungaretti – la madre potrà finalmente, dopo lunga attesa, scacciare ogni timore e rallegrarsi per la salvezza del poeta.
Il componimento ha le caratteristiche di una preghiera che accosta, ripetutamente, passato e futuro. Il passaggio da un piano all'altro è scandito dai tre «quando» e «come», che consentono di intendere la poesia come un dialogo tra due dimensioni temporali che, progressivamente, si avvicinano. Passato e futuro, per certi versi, si rincorrono a vicenda, nel senso che sono proprio i gesti e le abitudini della vita terrena a fungere da appiglio nel mondo, altrimenti minaccioso, dell'aldilà. Tramite la mediazione della madre, che intercederà presso Dio in favore del figlio, il poeta potrà quindi affrontare la morte senza paura, dal momento che consuetudini e simboli ben conosciuti gli indicheranno la via della salvezza.
È questo, del resto, il motivo per il quale le ultime due strofe si concentrano esclusivamente sul futuro, senza più alcuna alternanza con il passato. L'aldilà, grazie alla presenza rassicurante della madre, non è per nulla una minaccia. I tempi verbali coniugati al futuro lasciano infatti intendere che Ungaretti non nutra dubbi sul suo destino di salvezza ultraterrena, tanto che, scrive, la madre avrà desiderio di guardarlo solo dopo il perdono – certo – da parte di Dio. L'immagine della morte quale «muro d'ombra» che separa la vita terrena dall'aldilà non ha nulla, infatti, di tragico, a patto – va da sé – che dall'altra parte ci sia un punto di riferimento sicuro su cui poter fare affidamento. Intendere il trapasso come un passaggio, come l'attraversamento di una barriera peraltro inconsistente (fatta d'ombra, per l'appunto), significa infatti annullare la distanza che separa passato e futuro e concepire, allo stesso tempo, una dimensione più vasta che tutto avvolge, che ingloba vita e morte in una sorta di eterno presente. Il che significa altresì stabilire l'immortalità di tutti quegli affetti che, rinnovando continuamente la capacità dell'uomo di amare, fungono da ponte tra la parentesi terrena e Dio.
In questo senso la madre della poesia di Ungaretti non è altro che il simbolo di un percorso, obbligato ma non per questo necessariamente traumatico, che conduce dalla vita alla morte. La donna è l'autentica "protagonista" del componimento: dapprima dà la mano al figlio, per condurlo innanzi al Signore; poi si immobilizza, quasi in posa ieratica, ergendosi a «statua davanti all'Eterno», secondo una consuetudine – indice di contegno severo ed austero – di quando era ancora in vita; quindi alza le braccia, come in punto di morte, invocando il perdono divino per il figlio, di cui peraltro non dubita; e infine si abbandona ad «un rapido sospiro», sinonimo di gioia ed affetto. La madre, in altre parole, è descritta da un lato come una sacerdotessa cui è affidata la delicata mediazione con l'Altissimo; ma, dall'altro, man mano che si aprono le porte della salvezza, il poeta progressivamente la umanizza, con l'idea di rendere più accettabile una morte attraverso la quale, previo assenso divino, avviene il ricongiungimento con le persone amate in vita.
Secondo questa prospettiva risulta inoltre capovolta la stessa gerarchia che regola i rapporti tra esistenza terrena e aldilà, nel senso che la morte, dapprima percepita come una minaccia per via del giudizio divino, diviene grazie all'intercessione della madre un porto sicuro cui approdare. Il sospiro finale è pertanto il frutto di una profonda consapevolezza, che va al di là della mera liberazione dal senso di oppressione causato dall'ansia del trapasso: l'espressione finale, compiaciuta e rasserenata, della madre rappresenta la piena accettazione del destino che attende ogni essere vivente. L'uomo, in altre parole, se non intende protrarre all'infinito le sue sofferenze, deve necessariamente rassegnarsi alla morte, sforzandosi di cogliere in essa il significato ultimo dell'esistenza. E per farlo, lascia intendere Ungaretti, non ha che un mezzo: la fede, o, per usare il linguaggio simbolico del poeta, la madre stessa, la quale di fatto costituisce una bussola in grado di indicare con precisione la via della salvezza.
Ma cosa significa, in concreto, avere fede, credere che per tutti esista una madre in grado di aprire le porte che conducono alla quiete eterna? La poesia di Ungaretti suggerisce l'idea – nient'affatto scontata – che solo attraverso la morte la vita acquisti un senso: l'esistenza terrena, cioè, è tutto fuorché insignificante, ma è il trapasso, con il conseguente contatto con Dio, il percorso obbligato da compiere per comprendere chi siamo e perché abbiamo ricevuto in dono la vita. Per accettare il buio che oscura la mente di ogni vivente occorre dunque la fede, la quale altro non è che la convinzione che, una volta oltrepassato «il muro d'ombra», tutto finalmente si chiarirà. E, se è vero che i defunti, come la madre della poesia, possono intercedere presso la divinità – e quindi, detto banalmente, rendersi utili anche nell'aldilà –, allora anche la morte acquista un senso, dal momento che diviene tollerabile, persino desiderabile come fine delle sofferenze terrene.
È inutile, infatti, che l'uomo si ostini a porsi domande sul senso dell'esistenza. Nulla ci è dato sapere in questa vita, e non c'è speranza che in futuro le cose possano cambiare. Solo la fede offre un riparo per resistere all'angoscia dell'ignoto, anche se essa – è bene esserne coscienti – è il contrario del sapere, dal momento che si crede in ciò che non è dimostrabile, non certo in ciò che si sa. Ungaretti vuole cioè convincersi che la madre abbia anche da morta un ruolo decisivo nella sua vita: egli non può sapere, razionalmente, dove si trovi, e con quali sembianze; ma crede fermamente che ella sopravviva in lui, che continui a guidarlo mostrandogli la via della salvezza. Del resto è evidente che ogni uomo, se vuole tenere testa al dolore, debba sforzarsi di trovare un senso alla propria vita: nessuno può illudersi di riuscire a sopravvivere senza credere in qualcosa. Anche se ogni convinzione dovesse rivelarsi, infine, un'illusione (e l'illusione non è, per certi versi, la più autentica delle realtà?), la sola cosa che impedisce ad un essere umano di sprofondare nella più completa apatia è la persuasione che esista un motivo valido per vivere. In questo senso, gli atei "puri" non esistono, poiché per quanto neghino che vi sia un'intelligenza superiore che tutto ordina, sono comunque costretti a credere, quantomeno, nella vita stessa. Per il solo fatto di accettare l'esistenza, essi devono pur confidare in qualche valore, primo tra tutti quello, istintivo, degli affetti. Come negare infatti che la solidarietà tra i viventi costituisca la prova più esplicita – seppur indiretta – dell'esistenza di una fede universale nell'umanità? Nel momento stesso in cui attribuisce valore a se stesso, ciascun essere umano ammette implicitamente che la vita non possa essere considerata insignificante. Tutti noi viviamo per un motivo: quale esso sia, giacché non possiamo saperlo in questa vita, magari ce lo dirà – perché no? – proprio nostra madre, dopo morti.


Dedica

A mia madre,
per evocare il ricordo di quando, studente bambino, ripetevo a memoria i versi di questa poesia. Rileggendoli, ancora oggi ti rivedo intenta ad ascoltarmi in silenzio, mentre seguivi attentamente le parole sulla pagina del mio libro.

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venerdì 16 maggio 2014

Il fardello dell'uomo bianconero: l'insopportabile italianità del calcio nostrano

(articolo apparso su Prima Pagina del 10 maggio 2014)

Prima di iniziare la lettura, vi prego di accettare le mie scuse. Devo confessare, infatti, una grave colpa: come se non bastasse il fatto che da mesi vi tedio, ogni sabato, con lunghi articoli sul Leopardi di turno, sono anche un inguaribile, rancoroso, orgoglioso e – lo ammetto – altezzoso tifoso della Juventus. E proprio sulla Juventus ho deciso, più che altro per sfizio, di scrivere in settimana alcune righe. Vi troverete, com'è ovvio, un po' di sana polemica; ma, essendo il calcio pur sempre un gioco, mi auguro (mi illudo?) che nessuno se ne abbia a male, anche se prevedo che molti di voi storceranno il naso all'idea che io abbia voluto sacrificare un numero della mia rubrica per parlare di un argomento così frivolo. Che dirvi? Avete ragione, ma abbiate pazienza: non lo farò più, promesso.
Forse giusto pochi juventini puri apprezzeranno l'iniziativa, ma ho comunque il sospetto che faranno finta di niente, come avessero qualcosa di cui vergognarsi. Noi bianconeri siamo così: schivi, per lo più alieni da tutto il clamore strombazzato che circonda il mondo del pallone. Spesso guardiamo la partita in silenzio o in solitudine, e ci teniamo tutto dentro, allergici come siamo alle sterili polemiche da osteria. Se assistiamo ad un incontro in un bar affollato, vogliamo imporci di non inveire contro l'arbitro, di non insultare l'avversario: e soffriamo in un angolo, sorseggiando nervosamente la nostra birra media. Il vero tifoso juventino dovrebbe essere, a ben vedere, incompatibile con l'italianità del calcio nostrano, dal momento che la cultura dell'alibi e del sospetto, la strategia del «metto le mani avanti, ché non si sa mai» – così tipicamente e tristemente italiane – sono, nella maggior parte dei casi, a lui estranee. Un paese come il nostro – con i suoi stadi ricettacolo di violenti e le sue trasmissioni che mettono in scena patetici grilli parlanti, profumatamente pagati per alimentare assurde polemiche – è, spiace dirlo, inconciliabile con l'essenza dell'orgoglio bianconero.
Scrivo queste considerazioni, non a caso, al termine di una stagione agonistica esaltante. Domenica scorsa, 4 maggio 2014, in virtù dell'inaspettata sconfitta della Roma (seconda in classifica) a Catania (fanalino di coda), la Juventus allenata da Antonio Conte si è laureata campione d'Italia senza nemmeno dover scendere in campo, avendo mantenuto inalterato il vantaggio di otto punti sui capitolini con sole due giornate di campionato da disputare per questi ultimi. Per Buffon e compagni si tratta del terzo scudetto consecutivo, il trentaduesimo nella storia della società torinese, anche se in Federcalcio una folta schiera di dirigenti armati di calcolatrici nerazzurre difettose si ostina a contarne due di meno.
Non è però delle passate polemiche che voglio discutere (anche se, per chi avesse desiderio di approfondirle, mi permetto di segnalare l'indirizzo internet http://www.ju29ro.com/: si tratta di un sito ovviamente di parte, ma che ospita, in termini assolutamente civili e rispettosi, seppur talvolta inevitabilmente polemici, articoli ben scritti – il che, fidatevi, è piuttosto raro quando si accostano calcio e web –, inchieste, dibattiti e persino severe critiche rivolte contro la stessa società Juventus). Oggi, a una settimana dalla conquista del tricolore, vorrei soffermarmi solo sulla stagione che sta volgendo al termine, quella dei record come molti la definiscono. Una stagione, per intendersi, nella quale la Juve ha finora conquistato 96 dei 108 punti disponibili, vincendo tutte le partite casalinghe e incappando in sole due sconfitte e in tre pareggi. Che dire? Una marcia trionfale difficilmente giustificabile con gli aiutini denunciati da Totti (casomai, sarebbero serviti ripetuti aiutoni). Semplicemente, la Juve di quest'anno è stata troppo più forte di una concorrenza che (a parte la Roma, comunque distanziata, oggi, di undici lunghezze) non si è mostrata per nulla all'altezza. Basti dire, giusto per dare qualche numero, che l'ambizioso Napoli del re dei cinepanettoni De Laurentiis (ovvero la società che più ha investito nel mercato estivo) si trova attualmente a 24 punti di distacco; e che le blasonate milanesi viaggiano con l'imbarazzante ritardo rispettivamente di 39 (Inter) e 42 (Milan) lunghezze. A voler essere chiari, per scavare questa voragine si potrebbero, per assurdo, enumerare 8 (Napoli), 13 (Inter) e 14 (Milan) partite nelle quali la Juventus ha fatto bottino pieno e i tre summenzionati avversari non hanno racimolato nemmeno un punto. Quanto alla Roma, cui va riconosciuto il merito di avere disputato un campionato esaltante, ci si accontenti di ricordare il roboante risultato di 3-0 – in favore degli uomini di Conte, s'intende – dello scontro diretto: una gara perfetta, che la Juve ha strameritato di vincere. Punto.
Ora, se vivessimo in un paese normale, ci sarebbe ben poco da aggiungere. Complimenti alla squadra più forte, e arrivederci all'anno prossimo per la rivincita. Ma che l'Italia non sia un paese normale lo sanno anche i sassi, e dunque non c'è da stupirsi più di tanto se un trionfo che ha costretto gli avversari a una resa senza condizioni è stato in più occasioni messo in discussione da solerti giornalisti difensori delle cause perse. Mi spiego, anche se immagino abbiate già capito. In Italia – direi da sempre, e di sicuro da quando sono al mondo – dopo ogni vittoria della Juve ha inizio il patetico teatrino degli sconfitti, i quali devono necessariamente trovare una motivazione alternativa alla legge del più forte sul campo per giustificare la sconfitta della loro squadra del cuore. È una prassi consolidata: l'arbitro fischia la fine della partita, e subito si scatenano i moviolisti per svelare all'impaziente pubblico allergico al bianconero presunti rigori dati o non dati, falli, fuorigioco, proteste, parolacce e scaccolate di naso. Di solito, nelle partite di cartello in prima serata è l'imparzialissimo Beppe Bergomi ad indicare la retta via ai commentatori con il suo immancabile «Lo voglio rivedere, Fabio!», dove il buon Fabio è il pacato e mai sopra le righe Caressa (telecronista di fede romanista) e la cosa da rivedere è, ovviamente, una qualsiasi decisione (o mancata decisione) arbitrale in favore della Juventus. Il senso è chiaro: sbagliare pro-Juve è il più grave errore che un fischietto possa commettere.
Ma magari fosse tutto qui. Dopo novanta minuti di Inter, Milan, Roma, Napoli channel (a seconda dell'avversario di turno), tocca sorbirsi l'immancabile filippica di allenatori e tesserati vari. Partono le immagini, e non importa che magari si siano beccate tre pere: «C'era un rigore», «Era fuorigioco», «Era fallo». Ricordo due partite, tra le tante. La prima è Juve-Napoli, 3-0 l'impietoso risultato finale. L'esperto (di cosa, poi, non è dato sapere) Mario Sconcerti intervista Antonio Conte nel dopogara. Prima domanda, che fa infuriare il mister: «Come sarebbe stata la partita senza l'iniziale errore del guardalinee?». Oggetto della contesa, un offside – precisano subito dallo studio – di 21 cm sul goal di Llorente. Si noti, non di una ventina: di ventuno, esatti. Come abbiano fatto a non vederli, quei 21, lunghissimi centimetri, è un mistero. Roba da matti!
La seconda partita è Sassuolo-Juve, terminata 1-3. Nel primo tempo, vantaggio neroverde con Zaza e pareggio di Tevez. Peccato però, piagnucola coach Di Francesco dopo il fischio finale, che l'argentino della Juventus abbia segnato sfruttando una punizione battuta da Pirlo non nel punto corretto. Un errore imperdonabile dell'arbitro, visto che si era solo a quaranta metri dalla porta di Pegolo! E come dare torto al mister del Sassuolo: è stato quel pareggio immeritato la causa del dominio bianconero nella seconda frazione di gara. Se Buffon ha potuto assistere alla ripresa come uno spettatore non pagante la colpa è tutta del regista della nazionale e della sua imperdonabile scorrettezza.
Gli esempi potrebbero continuare (mi vengono in mente le parole di Mario Giordano al termine del derby della Mole: in quell'occasione il giornalista tifoso granata – evidentemente in possesso di prove certe che avrebbe il dovere di rendere pubbliche – giunse a dire che la partita era stata decisa da un arbitro che «vede e volutamente ed in malafede decide di non intervenire»), ma forse è meglio fermarsi. Il punto è che in questo paese si parla in continuazione di meritocrazia, ma quando ad essere meritevole è un nostro avversario (o semplicemente una persona diversa da noi), in qualunque campo, facciamo un'enorme fatica a riconoscere, levandoci il cappello, i suoi successi. Quanto poi ai nostri fallimenti, siamo davvero ridicoli: se non superiamo un esame è sempre colpa del professore che ci ha preso in antipatia; se non vinciamo un concorso è perché era truccato; se perdiamo le elezioni è per i brogli. E se la Juve trionfa è perché è potente e ruba. Lo sanno tutti, persino i bambini. Addirittura, se la Juve vince è anche perché gli avversari si impegnano poco. Parola del mister giallorosso Rudi Garcia.
In Italia, quando si perde, è tutto un complotto o una mafia. Per carità, di cose che non vanno ce ne sono parecchie. Ma, guarda caso, quando un esame o un concorso lo si supera è sempre perché si è studiato; quando si vincono le elezioni è sempre per volontà dei cittadini. In questo lo sport è una metafora della vita: per imparare a vincere, bisogna prima saper perdere. Dubito però che la Juve potrà mai liberarsi da questo accerchiamento: è la squadra più odiata perché vince troppo. È il nemico, non l'avversario (e quindi ben vengano le sassaiole contro il pullman che trasporta i giocatori, le devastazioni del settore ospiti dello Stadium, gli insulti e i piagnistei degli addetti ai lavori). La Vecchia Signora, per citare Buffon, «è l'alibi di chi non vince mai», un comodo pretesto per giustificare gli insuccessi. Inutile illudersi: sarà sempre così. A meno che il presidente Agnelli non decida, in futuro, di iscrivere la sua squadra alla Premier League.

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venerdì 9 maggio 2014

«Dialogo di Malambruno e di Farfarello»: il miraggio dell’autentica felicità su questa terra

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 maggio 2014)

È possibile assaporare un momento di piena, autentica felicità su questa terra? È questo l'interrogativo che Leopardi pone nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello, la prima delle Operette morali in cui, significativamente, compaia un personaggio-uomo. Si tratta di un tema ricorrente nell'opera dello scrittore di Recanati, forse della principale e maggiormente sofferta questione (irrisolta?) dell'intera sua riflessione filosofica.
Malambruno, come detto, è il primo umano a comparire sulla scena delle Operette: ma è un personaggio sui generis, essendo un mago. È lui ad aprire il Dialogo: «Spiriti d'abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte, Alichino, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù, e vi comando per la virtù dell'arte mia, che può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e piena potestà di usare tutte le forze dell'inferno in mio servigio».
Malambruno, in altre parole, sta invocando uno dei diavoli (i cui nomi, bizzarri, sono tutti tratti dalla tradizione letteraria, precisamente da Dante, Pulci e Lippi) del regno di Belzebù, affinché esaudisca (a mo' di genio della lampada) un suo desiderio. La richiesta è prontamente accolta da Farfarello, che si dichiara in possesso di un mandato con il quale il re degli inferi gli concede, in sostanza, pieni poteri in sua vece. Il diavolo è quindi pronto a mettersi al servizio del suo interlocutore; e subito lo incalza con precise, ma scontate, domande: «Cosa vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi [la dinastia, cioè, di Agamennone e Menelao, una delle più celebri del mondo antico]?»; «Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa [ovvero El Dorado] quando sarà scoperta?»; «Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?»; «Recare alle tue voglie una donna più salvatica [ossia ritrosa] di Penelope?»; «Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?».
Ad ogni domanda, però, Malambruno risponde con un secco rifiuto: nulla di quanto proposto dal diavolo gli interessa minimamente. «In fine, che mi comandi?», chiede allora spazientito Farfarello. E il mago: «Fammi felice per un momento di tempo».
A questo punto i ruoli dei due interlocutori si invertono. Ora è Farfarello a rispondere negativamente alle pressanti richieste di Malambruno. «Non posso», replica categoricamente una prima volta. E ancora, incalzato dal mago: «Ti giuro in coscienza che non posso». A nulla servono le proteste e le minacce di Malambruno: «Tu mi puoi meglio ammazzare – afferma, quasi scusandosi, il diavolo –, che non io contentarti di quello che tu domandi».
Sconsolato, il mago chiede se almeno si possa contrastare l'infelicità. Ma, ancora una volta, la risposta di Farfarello è deludente: si può vincere l'infelicità, dice, solo a patto di non amarsi «supremamente»; il che, obietta Malambruno, sarebbe possibile solamente «dopo morto». Nemmeno nei brevi momenti di «diletto», prosegue quest'ultimo, l'autentica felicità è raggiungibile, non essendoci modo alcuno di appagare in pieno «il desiderio naturale della felicità» che ogni uomo avverte dentro di sé attraverso il fugace piacere di un istante.
Dunque non c'è rimedio all'infelicità? Non c'è speranza di una tregua? Farfarello non lascia spazio alle illusioni: solo nel sonno, o nei momenti in cui viene meno la percezione dei sensi ed il pensiero si spegne, cessano le sofferenze. «Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria vita», puntualizza Malambruno. Ne consegue che «il non vivere è sempre meglio del vivere», se è vero, come conferma il diavolo, che «la privazione dell'infelicità è semplicemente meglio dell'infelicità». Il che porta Farfarello a suggerire la proposta con cui si conclude il Dialogo: «Se ti pare di darmi l'anima prima del tempo, io sono qui pronto a portarmela».
A parere di Leopardi la piena felicità è pertanto inaccessibile. I piccoli piaceri sono del tutto insufficienti ad appagare lo smisurato desiderio dell'uomo: per quanto siano intensi, essi sono inevitabilmente transitori, col risultato che la consapevolezza di una tale fugacità impedisce di gustarli appieno, e quindi di equipararli all'autentica felicità. Leopardi precisa questo concetto in un passo dello Zibaldone: «L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che eguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2. né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto».
Il desiderio dell'uomo non si pone, dunque, alcun limite. Raggiunta la sensazione di piacere, esso vorrebbe prolungarla in eterno, estenderla ad altre cose, a nuove sensazioni. Ma, essendo questa meta del tutto irraggiungibile, ecco che la prospettiva migliore diviene la soppressione del desiderio – questa, sì, possibile –, certo meno inquietante della triste consapevolezza dell'irrealizzabilità di quest'ultimo. Leopardi, nella sua Operetta, si sofferma con amarezza sull'ironia di una vita che sembra prendersi continuamente gioco delle creature del mondo. Tutto il Dialogo, del resto, si fonda sul paradosso – altrettanto ironico – di un diavolo capace di soddisfare infiniti desideri, tranne ovviamente quello che sta a cuore al suo interlocutore, che per giunta è un mago. Farfarello, in sostanza, può solamente (si fa per dire) realizzare il realizzabile; ma («in coscienza», come afferma con evidente effetto comico) non può certo andare oltre i limiti posti dalla natura, rendendo possibile l'impossibile.
Al riguardo è interessante rilevare come Farfarello non solo non possa concedere a Malambruno un solo istante di felicità, ma non riesca nemmeno a porre fine all'infelicità, dal momento che il supremo amore che l'uomo, per natura, prova per se stesso rende inaccettabile qualsiasi compromesso. Desiderare il piacere, in senso assoluto, è pertanto una conseguenza ineluttabile dell'essere nati. Ma siccome il piacere assoluto è inaccessibile – e i piaceri limitati finiscono inevitabilmente per essere confrontati con quello assoluto –, è impensabile che possa esserci reale felicità su questa terra. «Il fatto – si legge sempre nello Zibaldone – è che quando l'anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l'estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l'anima nell'ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato».
Di fatto, conclude Leopardi, la sola certezza che possa placare l'inquietudine è che l'angoscia di una vita vanamente protesa alla ricerca della felicità non è eterna, ma termina con il sopraggiungere della morte. L'unico modo per sopportare con dignità il dolore è pertanto acquisire con rassegnazione la consapevolezza che esso è destinato ad avere una fine. Come un prigioniero sopporta la pena della reclusione facendosi forza con il pensiero della futura scarcerazione, così l'uomo non ha altra scelta che attendere, con la fiducia della ragione, la fine delle sue sofferenze. Poiché, per dirla con Farfarello, «la privazione dell'infelicità è semplicemente meglio dell'infelicità».

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