(articolo apparso su Prima Pagina del 17 maggio 2014)
LA MADRE
E il cuore quando d'un
ultimo battito
avrà fatto cadere il muro
d'ombra,
per condurmi, Madre, sino al
Signore,
come una volta mi darai la
mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti
all'Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie
braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m'avrà
perdonato,
ti verrà desiderio di
guardarmi.
Ricorderai d'avermi atteso
tanto,
e avrai negli occhi un
rapido sospiro.
La
madre, una delle liriche più commoventi di
Giuseppe Ungaretti, fu composta nel 1930, a circa un anno dalla morte della
genitrice, con la quale lo scrittore aveva consolidato nel tempo un intimo e
profondo legame. La poesia fa parte della sezione intitolata Leggende della raccolta Sentimento del tempo, pubblicata nel
1933.
L'autore immagina il momento in cui
si ricongiungerà con la madre dopo la morte. La donna, descritta come «una
statua davanti all'Eterno», sarà una preziosa guida nell'aldilà, ma rivolgerà
lo sguardo al figlio solo dopo la concessione, da parte di Dio, del suo
perdono. In quel momento – conclude Ungaretti – la madre potrà finalmente, dopo
lunga attesa, scacciare ogni timore e rallegrarsi per la salvezza del poeta.
Il componimento ha le caratteristiche
di una preghiera che accosta, ripetutamente, passato e futuro. Il passaggio da
un piano all'altro è scandito dai tre «quando» e «come», che consentono di
intendere la poesia come un dialogo tra due dimensioni temporali che,
progressivamente, si avvicinano. Passato e futuro, per certi versi, si
rincorrono a vicenda, nel senso che sono proprio i gesti e le abitudini della
vita terrena a fungere da appiglio nel mondo, altrimenti minaccioso,
dell'aldilà. Tramite la mediazione della madre, che intercederà presso Dio in
favore del figlio, il poeta potrà quindi affrontare la morte senza paura, dal
momento che consuetudini e simboli ben conosciuti gli indicheranno la via della
salvezza.
È questo, del resto, il motivo per il
quale le ultime due strofe si concentrano esclusivamente sul futuro, senza più
alcuna alternanza con il passato. L'aldilà, grazie alla presenza rassicurante
della madre, non è per nulla una minaccia. I tempi verbali coniugati al futuro
lasciano infatti intendere che Ungaretti non nutra dubbi sul suo destino di
salvezza ultraterrena, tanto che, scrive, la madre avrà desiderio di guardarlo
solo dopo il perdono – certo – da parte di Dio. L'immagine della morte quale
«muro d'ombra» che separa la vita terrena dall'aldilà non ha nulla, infatti, di
tragico, a patto – va da sé – che dall'altra parte ci sia un punto di
riferimento sicuro su cui poter fare affidamento. Intendere il trapasso come un
passaggio, come l'attraversamento di una barriera peraltro inconsistente (fatta
d'ombra, per l'appunto), significa infatti annullare la distanza che separa
passato e futuro e concepire, allo stesso tempo, una dimensione più vasta che
tutto avvolge, che ingloba vita e morte in una sorta di eterno presente. Il che
significa altresì stabilire l'immortalità di tutti quegli affetti che,
rinnovando continuamente la capacità dell'uomo di amare, fungono da ponte tra
la parentesi terrena e Dio.
In questo senso la madre della poesia
di Ungaretti non è altro che il simbolo di un percorso, obbligato ma non per
questo necessariamente traumatico, che conduce dalla vita alla morte. La donna
è l'autentica "protagonista" del componimento: dapprima dà la mano al
figlio, per condurlo innanzi al Signore; poi si immobilizza, quasi in posa
ieratica, ergendosi a «statua davanti all'Eterno», secondo una consuetudine –
indice di contegno severo ed austero – di quando era ancora in vita; quindi
alza le braccia, come in punto di morte, invocando il perdono divino per il
figlio, di cui peraltro non dubita; e infine si abbandona ad «un rapido
sospiro», sinonimo di gioia ed affetto. La madre, in altre parole, è descritta da
un lato come una sacerdotessa cui è affidata la delicata mediazione con
l'Altissimo; ma, dall'altro, man mano che si aprono le porte della salvezza, il
poeta progressivamente la umanizza, con l'idea di rendere più accettabile una
morte attraverso la quale, previo assenso divino, avviene il ricongiungimento
con le persone amate in vita.
Secondo questa prospettiva risulta
inoltre capovolta la stessa gerarchia che regola i rapporti tra esistenza
terrena e aldilà, nel senso che la morte, dapprima percepita come una minaccia
per via del giudizio divino, diviene grazie all'intercessione della madre un
porto sicuro cui approdare. Il sospiro finale è pertanto il frutto di una
profonda consapevolezza, che va al di là della mera liberazione dal senso di
oppressione causato dall'ansia del trapasso: l'espressione finale, compiaciuta
e rasserenata, della madre rappresenta la piena accettazione del destino che
attende ogni essere vivente. L'uomo, in altre parole, se non intende protrarre
all'infinito le sue sofferenze, deve necessariamente rassegnarsi alla morte,
sforzandosi di cogliere in essa il significato ultimo dell'esistenza. E per
farlo, lascia intendere Ungaretti, non ha che un mezzo: la fede, o, per usare
il linguaggio simbolico del poeta, la madre stessa, la quale di fatto
costituisce una bussola in grado di indicare con precisione la via della
salvezza.
Ma cosa significa, in concreto, avere
fede, credere che per tutti esista una madre in grado di aprire le porte che
conducono alla quiete eterna? La poesia di Ungaretti suggerisce l'idea –
nient'affatto scontata – che solo attraverso la morte la vita acquisti un
senso: l'esistenza terrena, cioè, è tutto fuorché insignificante, ma è il
trapasso, con il conseguente contatto con Dio, il percorso obbligato da
compiere per comprendere chi siamo e perché abbiamo ricevuto in dono la vita.
Per accettare il buio che oscura la mente di ogni vivente occorre dunque la
fede, la quale altro non è che la convinzione che, una volta oltrepassato «il
muro d'ombra», tutto finalmente si chiarirà. E, se è vero che i defunti, come
la madre della poesia, possono intercedere presso la divinità – e quindi, detto
banalmente, rendersi utili anche nell'aldilà –, allora anche la morte acquista
un senso, dal momento che diviene tollerabile, persino desiderabile come fine
delle sofferenze terrene.
È inutile, infatti, che l'uomo si
ostini a porsi domande sul senso dell'esistenza. Nulla ci è dato sapere in
questa vita, e non c'è speranza che in futuro le cose possano cambiare. Solo la
fede offre un riparo per resistere all'angoscia dell'ignoto, anche se essa – è
bene esserne coscienti – è il contrario del sapere, dal momento che si crede in
ciò che non è dimostrabile, non certo in ciò che si sa. Ungaretti vuole cioè
convincersi che la madre abbia anche da morta un ruolo decisivo nella sua vita:
egli non può sapere, razionalmente, dove si trovi, e con quali sembianze; ma
crede fermamente che ella sopravviva in lui, che continui a guidarlo
mostrandogli la via della salvezza. Del resto è evidente che ogni uomo, se
vuole tenere testa al dolore, debba sforzarsi di trovare un senso alla propria
vita: nessuno può illudersi di riuscire a sopravvivere senza credere in
qualcosa. Anche se ogni convinzione dovesse rivelarsi, infine, un'illusione (e
l'illusione non è, per certi versi, la più autentica delle realtà?), la sola
cosa che impedisce ad un essere umano di sprofondare nella più completa apatia
è la persuasione che esista un motivo valido per vivere. In questo senso, gli
atei "puri" non esistono, poiché per quanto neghino che vi sia
un'intelligenza superiore che tutto ordina, sono comunque costretti a credere,
quantomeno, nella vita stessa. Per il solo fatto di accettare l'esistenza, essi
devono pur confidare in qualche valore, primo tra tutti quello, istintivo,
degli affetti. Come negare infatti che la solidarietà tra i viventi costituisca
la prova più esplicita – seppur indiretta – dell'esistenza di una fede
universale nell'umanità? Nel momento stesso in cui attribuisce valore a se stesso,
ciascun essere umano ammette implicitamente che la vita non possa essere
considerata insignificante. Tutti noi viviamo per un motivo: quale esso sia,
giacché non possiamo saperlo in questa vita, magari ce lo dirà – perché no? –
proprio nostra madre, dopo morti.
Dedica
A mia madre,
per evocare il ricordo di quando, studente bambino,
ripetevo a memoria i versi di questa poesia.
Rileggendoli, ancora oggi ti rivedo intenta ad ascoltarmi in silenzio, mentre
seguivi attentamente le parole sulla pagina del mio libro.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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