venerdì 9 maggio 2014

«Dialogo di Malambruno e di Farfarello»: il miraggio dell’autentica felicità su questa terra

(articolo apparso su Prima Pagina del 3 maggio 2014)

È possibile assaporare un momento di piena, autentica felicità su questa terra? È questo l'interrogativo che Leopardi pone nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello, la prima delle Operette morali in cui, significativamente, compaia un personaggio-uomo. Si tratta di un tema ricorrente nell'opera dello scrittore di Recanati, forse della principale e maggiormente sofferta questione (irrisolta?) dell'intera sua riflessione filosofica.
Malambruno, come detto, è il primo umano a comparire sulla scena delle Operette: ma è un personaggio sui generis, essendo un mago. È lui ad aprire il Dialogo: «Spiriti d'abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte, Alichino, e comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù, e vi comando per la virtù dell'arte mia, che può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a mezzo il cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e piena potestà di usare tutte le forze dell'inferno in mio servigio».
Malambruno, in altre parole, sta invocando uno dei diavoli (i cui nomi, bizzarri, sono tutti tratti dalla tradizione letteraria, precisamente da Dante, Pulci e Lippi) del regno di Belzebù, affinché esaudisca (a mo' di genio della lampada) un suo desiderio. La richiesta è prontamente accolta da Farfarello, che si dichiara in possesso di un mandato con il quale il re degli inferi gli concede, in sostanza, pieni poteri in sua vece. Il diavolo è quindi pronto a mettersi al servizio del suo interlocutore; e subito lo incalza con precise, ma scontate, domande: «Cosa vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi [la dinastia, cioè, di Agamennone e Menelao, una delle più celebri del mondo antico]?»; «Più ricchezze di quelle che si troveranno nella città di Manoa [ovvero El Dorado] quando sarà scoperta?»; «Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?»; «Recare alle tue voglie una donna più salvatica [ossia ritrosa] di Penelope?»; «Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?».
Ad ogni domanda, però, Malambruno risponde con un secco rifiuto: nulla di quanto proposto dal diavolo gli interessa minimamente. «In fine, che mi comandi?», chiede allora spazientito Farfarello. E il mago: «Fammi felice per un momento di tempo».
A questo punto i ruoli dei due interlocutori si invertono. Ora è Farfarello a rispondere negativamente alle pressanti richieste di Malambruno. «Non posso», replica categoricamente una prima volta. E ancora, incalzato dal mago: «Ti giuro in coscienza che non posso». A nulla servono le proteste e le minacce di Malambruno: «Tu mi puoi meglio ammazzare – afferma, quasi scusandosi, il diavolo –, che non io contentarti di quello che tu domandi».
Sconsolato, il mago chiede se almeno si possa contrastare l'infelicità. Ma, ancora una volta, la risposta di Farfarello è deludente: si può vincere l'infelicità, dice, solo a patto di non amarsi «supremamente»; il che, obietta Malambruno, sarebbe possibile solamente «dopo morto». Nemmeno nei brevi momenti di «diletto», prosegue quest'ultimo, l'autentica felicità è raggiungibile, non essendoci modo alcuno di appagare in pieno «il desiderio naturale della felicità» che ogni uomo avverte dentro di sé attraverso il fugace piacere di un istante.
Dunque non c'è rimedio all'infelicità? Non c'è speranza di una tregua? Farfarello non lascia spazio alle illusioni: solo nel sonno, o nei momenti in cui viene meno la percezione dei sensi ed il pensiero si spegne, cessano le sofferenze. «Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria vita», puntualizza Malambruno. Ne consegue che «il non vivere è sempre meglio del vivere», se è vero, come conferma il diavolo, che «la privazione dell'infelicità è semplicemente meglio dell'infelicità». Il che porta Farfarello a suggerire la proposta con cui si conclude il Dialogo: «Se ti pare di darmi l'anima prima del tempo, io sono qui pronto a portarmela».
A parere di Leopardi la piena felicità è pertanto inaccessibile. I piccoli piaceri sono del tutto insufficienti ad appagare lo smisurato desiderio dell'uomo: per quanto siano intensi, essi sono inevitabilmente transitori, col risultato che la consapevolezza di una tale fugacità impedisce di gustarli appieno, e quindi di equipararli all'autentica felicità. Leopardi precisa questo concetto in un passo dello Zibaldone: «L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che eguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2. né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto».
Il desiderio dell'uomo non si pone, dunque, alcun limite. Raggiunta la sensazione di piacere, esso vorrebbe prolungarla in eterno, estenderla ad altre cose, a nuove sensazioni. Ma, essendo questa meta del tutto irraggiungibile, ecco che la prospettiva migliore diviene la soppressione del desiderio – questa, sì, possibile –, certo meno inquietante della triste consapevolezza dell'irrealizzabilità di quest'ultimo. Leopardi, nella sua Operetta, si sofferma con amarezza sull'ironia di una vita che sembra prendersi continuamente gioco delle creature del mondo. Tutto il Dialogo, del resto, si fonda sul paradosso – altrettanto ironico – di un diavolo capace di soddisfare infiniti desideri, tranne ovviamente quello che sta a cuore al suo interlocutore, che per giunta è un mago. Farfarello, in sostanza, può solamente (si fa per dire) realizzare il realizzabile; ma («in coscienza», come afferma con evidente effetto comico) non può certo andare oltre i limiti posti dalla natura, rendendo possibile l'impossibile.
Al riguardo è interessante rilevare come Farfarello non solo non possa concedere a Malambruno un solo istante di felicità, ma non riesca nemmeno a porre fine all'infelicità, dal momento che il supremo amore che l'uomo, per natura, prova per se stesso rende inaccettabile qualsiasi compromesso. Desiderare il piacere, in senso assoluto, è pertanto una conseguenza ineluttabile dell'essere nati. Ma siccome il piacere assoluto è inaccessibile – e i piaceri limitati finiscono inevitabilmente per essere confrontati con quello assoluto –, è impensabile che possa esserci reale felicità su questa terra. «Il fatto – si legge sempre nello Zibaldone – è che quando l'anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l'estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l'anima nell'ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato».
Di fatto, conclude Leopardi, la sola certezza che possa placare l'inquietudine è che l'angoscia di una vita vanamente protesa alla ricerca della felicità non è eterna, ma termina con il sopraggiungere della morte. L'unico modo per sopportare con dignità il dolore è pertanto acquisire con rassegnazione la consapevolezza che esso è destinato ad avere una fine. Come un prigioniero sopporta la pena della reclusione facendosi forza con il pensiero della futura scarcerazione, così l'uomo non ha altra scelta che attendere, con la fiducia della ragione, la fine delle sue sofferenze. Poiché, per dirla con Farfarello, «la privazione dell'infelicità è semplicemente meglio dell'infelicità».

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