(articolo apparso su Prima Pagina del 3 maggio 2014)
È possibile assaporare un momento di piena, autentica
felicità su questa terra? È questo l'interrogativo che Leopardi pone nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello,
la prima delle Operette morali in
cui, significativamente, compaia un personaggio-uomo. Si tratta di un tema
ricorrente nell'opera dello scrittore di Recanati, forse della principale e
maggiormente sofferta questione (irrisolta?) dell'intera sua riflessione
filosofica.
Malambruno, come detto, è il primo umano a comparire
sulla scena delle Operette: ma è un
personaggio sui generis, essendo un
mago. È lui ad aprire il Dialogo:
«Spiriti d'abisso, Farfarello, Ciriatto, Baconero, Astarotte, Alichino, e
comunque siete chiamati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù, e vi comando per
la virtù dell'arte mia, che può sgangherare la luna, e inchiodare il sole a
mezzo il cielo: venga uno di voi con libero comando del vostro principe e piena
potestà di usare tutte le forze dell'inferno in mio servigio».
Malambruno, in altre parole, sta
invocando uno dei diavoli (i cui nomi, bizzarri, sono tutti tratti dalla
tradizione letteraria, precisamente da Dante, Pulci e Lippi) del regno di
Belzebù, affinché esaudisca (a mo' di genio della lampada) un suo desiderio. La
richiesta è prontamente accolta da Farfarello, che si dichiara in possesso di
un mandato con il quale il re degli inferi gli concede, in sostanza, pieni
poteri in sua vece. Il diavolo è quindi pronto a mettersi al servizio del suo
interlocutore; e subito lo incalza con precise, ma scontate, domande: «Cosa
vuoi? nobiltà maggiore di quella degli Atridi [la dinastia, cioè, di Agamennone
e Menelao, una delle più celebri del mondo antico]?»; «Più ricchezze di quelle
che si troveranno nella città di Manoa [ovvero El Dorado] quando sarà
scoperta?»; «Un impero grande come quello che dicono che Carlo quinto si
sognasse una notte?»; «Recare alle tue voglie una donna più salvatica [ossia
ritrosa] di Penelope?»; «Onori e buona fortuna così ribaldo come sei?».
Ad ogni domanda, però, Malambruno risponde con un secco
rifiuto: nulla di quanto proposto dal diavolo gli
interessa minimamente. «In fine, che mi comandi?», chiede allora spazientito
Farfarello. E il mago: «Fammi felice per un momento di tempo».
A questo punto i ruoli dei due interlocutori si
invertono. Ora è Farfarello a rispondere negativamente alle pressanti richieste
di Malambruno. «Non posso», replica categoricamente una prima volta. E ancora,
incalzato dal mago: «Ti giuro in coscienza che non posso». A nulla servono le
proteste e le minacce di Malambruno: «Tu mi puoi meglio ammazzare – afferma,
quasi scusandosi, il diavolo –, che non io contentarti di quello che tu domandi».
Sconsolato, il mago chiede se almeno si possa contrastare
l'infelicità. Ma, ancora una volta, la risposta di Farfarello è deludente: si
può vincere l'infelicità, dice, solo a patto di non amarsi «supremamente»; il
che, obietta Malambruno, sarebbe possibile solamente «dopo morto». Nemmeno nei
brevi momenti di «diletto», prosegue quest'ultimo,
l'autentica felicità è raggiungibile, non essendoci modo alcuno di appagare in
pieno «il desiderio naturale della felicità» che ogni uomo avverte dentro di sé
attraverso il fugace piacere di un istante.
Dunque non c'è rimedio all'infelicità? Non c'è speranza
di una tregua? Farfarello non lascia spazio alle illusioni: solo nel sonno, o
nei momenti in cui viene meno la percezione dei sensi ed il pensiero si spegne,
cessano le sofferenze. «Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria
vita», puntualizza Malambruno. Ne consegue che «il non vivere è sempre meglio
del vivere», se è vero, come conferma il diavolo, che «la privazione
dell'infelicità è semplicemente meglio dell'infelicità». Il che porta
Farfarello a suggerire la proposta con cui si conclude il Dialogo: «Se ti pare di darmi l'anima prima del tempo, io sono qui
pronto a portarmela».
A parere di Leopardi la piena
felicità è pertanto inaccessibile. I piccoli piaceri sono del tutto insufficienti
ad appagare lo smisurato desiderio dell'uomo: per quanto siano intensi, essi sono
inevitabilmente transitori, col risultato che la consapevolezza di una tale
fugacità impedisce di gustarli appieno, e quindi di equipararli all'autentica
felicità. Leopardi precisa questo concetto in un passo dello Zibaldone: «L'anima umana (e così tutti
gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché
sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene,
è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti,
perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in
questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla
vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione. Quindi non ci può
essere nessun piacere che eguagli 1. né la sua durata, perché nessun piacere è
eterno, 2. né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura
delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia
circoscritto».
Il desiderio dell'uomo non si pone,
dunque, alcun limite. Raggiunta la sensazione di piacere, esso vorrebbe
prolungarla in eterno, estenderla ad altre cose, a nuove sensazioni. Ma,
essendo questa meta del tutto irraggiungibile, ecco che la prospettiva migliore
diviene la soppressione del desiderio – questa, sì, possibile –, certo meno
inquietante della triste consapevolezza dell'irrealizzabilità di quest'ultimo.
Leopardi, nella sua Operetta, si sofferma con amarezza sull'ironia di
una vita che sembra prendersi continuamente gioco delle creature del mondo.
Tutto il Dialogo, del resto, si fonda sul paradosso – altrettanto
ironico – di un diavolo capace di soddisfare infiniti desideri, tranne
ovviamente quello che sta a cuore al suo interlocutore, che per giunta è un
mago. Farfarello, in sostanza, può solamente (si fa per dire) realizzare il
realizzabile; ma («in coscienza», come afferma con evidente effetto comico) non
può certo andare oltre i limiti posti dalla natura, rendendo possibile
l'impossibile.
Al riguardo è interessante rilevare
come Farfarello non solo non possa concedere a Malambruno un solo istante di
felicità, ma non riesca nemmeno a porre fine all'infelicità, dal momento che il
supremo amore che l'uomo, per natura, prova per se stesso rende inaccettabile
qualsiasi compromesso. Desiderare il piacere, in senso assoluto, è pertanto una
conseguenza ineluttabile dell'essere nati. Ma siccome il piacere assoluto è
inaccessibile – e i piaceri limitati finiscono inevitabilmente per essere
confrontati con quello assoluto –, è impensabile che possa esserci reale felicità
su questa terra. «Il fatto – si legge sempre nello Zibaldone – è che
quando l'anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo
desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere;
ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda
tutta l'estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo
soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di
una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza.
E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo,
perché l'anima nell'ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè
una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato».
Di fatto, conclude Leopardi, la sola
certezza che possa placare l'inquietudine è che l'angoscia di una vita
vanamente protesa alla ricerca della felicità non è eterna, ma termina con il
sopraggiungere della morte. L'unico modo per sopportare con dignità il dolore è
pertanto acquisire con rassegnazione la consapevolezza che esso è destinato ad
avere una fine. Come un prigioniero sopporta la pena della reclusione facendosi
forza con il pensiero della futura scarcerazione, così l'uomo non ha altra
scelta che attendere, con la fiducia della ragione, la fine delle sue
sofferenze. Poiché, per dirla con Farfarello, «la privazione dell'infelicità è
semplicemente meglio dell'infelicità».
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
Interessantissime riflessioni.
RispondiEliminaGraciela Cervetto