(articolo apparso su Prima Pagina del 26 aprile 2014)
La parabola dell'amministratore scaltro
(Lc, 16, 1-13) è probabilmente una delle più complesse e controverse del
Vangelo. A causa soprattutto di un lessico in parte ambiguo, essa rischia
infatti di apparire difficilmente comprensibile, se non addirittura
completamente priva di senso. Vale pertanto la pena suggerire una plausibile
chiave interpretativa, a partire, naturalmente, da un'attenta lettura dei
versetti di Luca:
Diceva
anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore e questi fu accusato
dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto
della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare".
L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi
toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno.
So io che cosa farò perché, quando sarò allontanato dall'amministrazione, ci
sia qualcuno che mi accolga in casa sua". Chiamò uno per uno i debitori
del suo padrone e disse al primo: "Tu quanto devi al mio padrone?". Quello rispose: "Cento barili
d'olio". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi
cinquanta". Poi disse a un altro: "Tu quanto devi?". Rispose: "Cento misure di
grano". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta". Il
padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza.
I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli
della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta,
perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi
è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è
disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se
dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella
vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la
vostra?
Nessun
servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro,
oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e
la ricchezza».
La prima importante considerazione
riguarda la collocazione della parabola: nel Vangelo di Luca essa segue
immediatamente quella del figliol prodigo e, per certi versi, ne costituisce un
fondamentale completamento. I due personaggi del padre misericordioso e del
padrone sono, a ben vedere, speculari. Se il primo infatti trova la forza di
perdonare il figlio scapestrato – pur avendo questi scialacquato la propria
parte di eredità –, il secondo punisce severamente l'amministratore incapace,
revocandogli l'incarico e cacciandolo. Ma non solo: il padre gioisce per il
sincero pentimento di cui dà prova il figlio, mentre il padrone apprezza la
scaltrezza (meschina e vendicativa) del suo amministratore. E ancora: il padre
dà scarso peso alla ricchezza, laddove invece per il padrone è proprio la
capacità di mettere a frutto i beni materiali a fare la differenza tra una
persona meritevole ed una mediocre. La prima, fondamentale, precisazione è
quindi relativa alla figura del padrone: al contrario di come potrebbe sembrare
a una prima impressione, egli non è affatto un personaggio positivo, e incarna
al contrario un modello di comportamento – opposto a quello del padre
misericordioso – da cui il buon cristiano deve assolutamente rifuggire.
Altrettanto complessa è la figura
dell'amministratore. Data la sua sfacciata disonestà, non si corre il rischio
che il lettore, anche il più distratto, possa scambiarlo per un personaggio da
emulare. Eppure Gesù racconta che il padrone, pur essendo stato raggirato una
seconda volta, apprezza la scaltrezza del suo sottoposto. E subito dopo
aggiunge: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri
dei figli della luce». La frase consente di chiarire l'apparente paradosso di
un personaggio lodato per la sua disonestà: con tutta evidenza, Gesù non
intende portare ad esempio il comportamento immorale dell'amministratore, bensì
porre l'accento sulla solerzia con la quale compie il male, ingannando il suo
padrone. L'insegnamento da cogliere è dunque che bisogna essere pronti nel
decidere per il bene così come i peccatori sono rapidi nell'optare per il male.
L'espressione «i loro pari», del resto, ha proprio questo scopo: scavare un
solco netto tra i «figli del mondo» (in questo caso sia il padrone che
l'amministratore, i quali si intendono alla perfezione poiché entrambi
disonesti) e i «figli della luce».
Fatta questa distinzione, Gesù
pronuncia quella che è senz'altro la frase più criptica dell'intera parabola:
«Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché
quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». La
parola chiave è ovviamente l'aggettivo «disonesta», che essendo riferito a
«ricchezza» induce a pensare che Gesù alluda ai beni guadagnati con inganni e
sotterfugi, in modo disonesto per l'appunto. Ma una simile interpretazione del
passo è, naturalmente, improponibile. Con «ricchezza disonesta» l'evangelista
Luca intende sottolineare che i beni materiali sono, in assoluto, disprezzabili
se paragonati all'autentica ricchezza che è racchiusa nel messaggio di Gesù. La
ricchezza terrena, in altre parole, è intrinsecamente disonesta, poiché rischia
di diventare motivo di distrazione, di distogliere il cristiano dal compimento
del proprio dovere di amare il prossimo. Essa, quindi, va condivisa: deve
servire (a farsi degli amici, ossia ad aiutare chi ha bisogno), non essere
servita. Prima o poi, infatti, i beni materiali vengono a mancare (nel senso
che diventano inutili – se non dannosi – ai fini della salvezza); e quando si
arriva alla resa dei conti con Dio, le tasche piene sono solo un peso in più
se, in vita, non si è condiviso nulla dei propri averi.
Il messaggio di Gesù è radicale nelle
parole di Luca: sono proprio gli amici (coloro, cioè, che sono stati soccorsi
nel bisogno) ad accogliere i ricchi «nelle dimore eterne». Il che equivale a
dire che la ricchezza – disonesta – è un qualcosa che bisogna farsi perdonare,
dal momento che rischia continuamente di prendere il posto di Dio nella vita
dell'uomo benestante. «Non potete servire Dio e la ricchezza»: è questo
l'insegnamento più importante della parabola. Essa intende offrire un modello
negativo, da evitare; e va contrapposta a quella del padre misericordioso,
esempio positivo, da emulare. Quest'ultimo non dà alcun peso alla ricchezza:
rispetto al pentimento del figlio (che «era morto ed è tornato in vita»), i
beni materiali non valgono nulla.
Anche il figliol prodigo e
l'amministratore sono, infatti, agli antipodi. Se il primo sbaglia in buona
fede, si pente e – soprattutto – è disposto a pagare per gli errori commessi («Padre,
ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato
tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati»), il secondo non solo non dà
segni di pentimento, ma architetta per vendetta un'autentica truffa ai danni
del padrone. Anche in questo caso, le due parabole giustappongono due modelli
speculari, che sono antitetici essenzialmente rispetto al principio cardine
della sincerità: per rimediare ad un errore, si può cioè ricorrere ad un onesto
mea culpa, o, all'opposto, alla
menzogna e all'inganno. Dal momento che nessuno può avere la presunzione di
ritenersi estraneo al peccato, ciò che davvero fa la differenza tra gli uomini
è la capacità di accettare le conseguenze dei fallimenti, di assumersi la
responsabilità dei passi falsi compiuti. Gesù al riguardo è piuttosto
esplicito: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose
importanti». E per «fedele» intende, di fatto, onesto, dal momento che la
persona onesta è la sola che agisce secondo giustizia, a prescindere
dall'interesse.
La vera ricchezza è pertanto quella
interiore, che altro non è che la nobiltà d'animo. «Se dunque non siete
stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?», chiede
retoricamente Gesù, sottintendendo che l'onestà non
è una linea di condotta cui ci si possa attenere una tantum. In sostanza, o si è onesti o
si è disonesti, nelle grandi come nelle piccole cose. E se non si è capaci di
rispettare il prossimo nelle questioni di poco conto, come pretendere di accaparrarsi
la ricchezza autentica, quella che l'uomo deve cercare dentro di sé? Per
entrare in possesso dei beni dell'anima non sono ammessi sotterfugi.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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