lunedì 28 aprile 2014

«Non potete servire Dio e la ricchezza»: la (controversa) parabola dell’amministratore scaltro

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 aprile 2014)

La parabola dell'amministratore scaltro (Lc, 16, 1-13) è probabilmente una delle più complesse e controverse del Vangelo. A causa soprattutto di un lessico in parte ambiguo, essa rischia infatti di apparire difficilmente comprensibile, se non addirittura completamente priva di senso. Vale pertanto la pena suggerire una plausibile chiave interpretativa, a partire, naturalmente, da un'attenta lettura dei versetti di Luca:
Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare". L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua". Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: "Tu quanto devi al mio padrone?". Quello rispose: "Cento barili d'olio". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta". Poi disse a un altro: "Tu quanto devi?". Rispose: "Cento misure di grano". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta". Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».
La prima importante considerazione riguarda la collocazione della parabola: nel Vangelo di Luca essa segue immediatamente quella del figliol prodigo e, per certi versi, ne costituisce un fondamentale completamento. I due personaggi del padre misericordioso e del padrone sono, a ben vedere, speculari. Se il primo infatti trova la forza di perdonare il figlio scapestrato – pur avendo questi scialacquato la propria parte di eredità –, il secondo punisce severamente l'amministratore incapace, revocandogli l'incarico e cacciandolo. Ma non solo: il padre gioisce per il sincero pentimento di cui dà prova il figlio, mentre il padrone apprezza la scaltrezza (meschina e vendicativa) del suo amministratore. E ancora: il padre dà scarso peso alla ricchezza, laddove invece per il padrone è proprio la capacità di mettere a frutto i beni materiali a fare la differenza tra una persona meritevole ed una mediocre. La prima, fondamentale, precisazione è quindi relativa alla figura del padrone: al contrario di come potrebbe sembrare a una prima impressione, egli non è affatto un personaggio positivo, e incarna al contrario un modello di comportamento – opposto a quello del padre misericordioso – da cui il buon cristiano deve assolutamente rifuggire.
Altrettanto complessa è la figura dell'amministratore. Data la sua sfacciata disonestà, non si corre il rischio che il lettore, anche il più distratto, possa scambiarlo per un personaggio da emulare. Eppure Gesù racconta che il padrone, pur essendo stato raggirato una seconda volta, apprezza la scaltrezza del suo sottoposto. E subito dopo aggiunge: «I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce». La frase consente di chiarire l'apparente paradosso di un personaggio lodato per la sua disonestà: con tutta evidenza, Gesù non intende portare ad esempio il comportamento immorale dell'amministratore, bensì porre l'accento sulla solerzia con la quale compie il male, ingannando il suo padrone. L'insegnamento da cogliere è dunque che bisogna essere pronti nel decidere per il bene così come i peccatori sono rapidi nell'optare per il male. L'espressione «i loro pari», del resto, ha proprio questo scopo: scavare un solco netto tra i «figli del mondo» (in questo caso sia il padrone che l'amministratore, i quali si intendono alla perfezione poiché entrambi disonesti) e i «figli della luce».
Fatta questa distinzione, Gesù pronuncia quella che è senz'altro la frase più criptica dell'intera parabola: «Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne». La parola chiave è ovviamente l'aggettivo «disonesta», che essendo riferito a «ricchezza» induce a pensare che Gesù alluda ai beni guadagnati con inganni e sotterfugi, in modo disonesto per l'appunto. Ma una simile interpretazione del passo è, naturalmente, improponibile. Con «ricchezza disonesta» l'evangelista Luca intende sottolineare che i beni materiali sono, in assoluto, disprezzabili se paragonati all'autentica ricchezza che è racchiusa nel messaggio di Gesù. La ricchezza terrena, in altre parole, è intrinsecamente disonesta, poiché rischia di diventare motivo di distrazione, di distogliere il cristiano dal compimento del proprio dovere di amare il prossimo. Essa, quindi, va condivisa: deve servire (a farsi degli amici, ossia ad aiutare chi ha bisogno), non essere servita. Prima o poi, infatti, i beni materiali vengono a mancare (nel senso che diventano inutili – se non dannosi – ai fini della salvezza); e quando si arriva alla resa dei conti con Dio, le tasche piene sono solo un peso in più se, in vita, non si è condiviso nulla dei propri averi.
Il messaggio di Gesù è radicale nelle parole di Luca: sono proprio gli amici (coloro, cioè, che sono stati soccorsi nel bisogno) ad accogliere i ricchi «nelle dimore eterne». Il che equivale a dire che la ricchezza – disonesta – è un qualcosa che bisogna farsi perdonare, dal momento che rischia continuamente di prendere il posto di Dio nella vita dell'uomo benestante. «Non potete servire Dio e la ricchezza»: è questo l'insegnamento più importante della parabola. Essa intende offrire un modello negativo, da evitare; e va contrapposta a quella del padre misericordioso, esempio positivo, da emulare. Quest'ultimo non dà alcun peso alla ricchezza: rispetto al pentimento del figlio (che «era morto ed è tornato in vita»), i beni materiali non valgono nulla.
Anche il figliol prodigo e l'amministratore sono, infatti, agli antipodi. Se il primo sbaglia in buona fede, si pente e – soprattutto – è disposto a pagare per gli errori commessi («Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati»), il secondo non solo non dà segni di pentimento, ma architetta per vendetta un'autentica truffa ai danni del padrone. Anche in questo caso, le due parabole giustappongono due modelli speculari, che sono antitetici essenzialmente rispetto al principio cardine della sincerità: per rimediare ad un errore, si può cioè ricorrere ad un onesto mea culpa, o, all'opposto, alla menzogna e all'inganno. Dal momento che nessuno può avere la presunzione di ritenersi estraneo al peccato, ciò che davvero fa la differenza tra gli uomini è la capacità di accettare le conseguenze dei fallimenti, di assumersi la responsabilità dei passi falsi compiuti. Gesù al riguardo è piuttosto esplicito: «Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti». E per «fedele» intende, di fatto, onesto, dal momento che la persona onesta è la sola che agisce secondo giustizia, a prescindere dall'interesse.
La vera ricchezza è pertanto quella interiore, che altro non è che la nobiltà d'animo. «Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera?», chiede retoricamente Gesù, sottintendendo che l'onestà non è una linea di condotta cui ci si possa attenere una tantum. In sostanza, o si è onesti o si è disonesti, nelle grandi come nelle piccole cose. E se non si è capaci di rispettare il prossimo nelle questioni di poco conto, come pretendere di accaparrarsi la ricchezza autentica, quella che l'uomo deve cercare dentro di sé? Per entrare in possesso dei beni dell'anima non sono ammessi sotterfugi.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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