(articolo apparso su Prima Pagina del 29 marzo 2014)
Uscito in volume nel 1926 (ma iniziato, come stesura, già
a partire dal 1909), Uno, nessuno e
centomila è l'ultimo, sofferto romanzo di Luigi Pirandello, una sorta di summa che raccoglie, e porta a
maturazione, tutti i motivi peculiari dell'intera sua produzione precedente.
La vicenda prende le mosse da un fatto, di per sé,
insignificante: al protagonista, Vitangelo Moscarda, la moglie Dida fa notare
che il naso gli pende leggermente verso destra; ed egli, che non si era mai
accorto di nulla, realizza così, di colpo, che l'immagine che ha di sé non
coincide con quella che le altre persone hanno di lui. Da quell'episodio,
infatti, risulta evidente che esistono, potenzialmente, infiniti Moscarda,
tanti quanti sono i punti di vista di coloro che lo osservano. Il che, per il
protagonista, risulta essere una scoperta sconvolgente: «L'idea che gli altri
vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto
potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi
davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur
essendo il mio per loro (un "mio" dunque che non era per me!); una
vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare,
quest'idea non mi diede più requie».
Inizia così, da un dettaglio in apparenza trascurabile,
la rivolta di Moscarda contro le forme entro le quali si sente costretto dal
giudizio altrui. In gioco c'è, in sostanza, la questione della sua identità. Se
infatti, come avverte, il suo io si forma di volta in volta in ciò che egli è
per gli altri, questo significa che l'unità della sua persona si frammenta in
molteplici immagini, con il conseguente sgretolamento delle certezze legate
all'io. In altre parole, la presa di coscienza di essere centomila persone
diverse per gli altri alimenta inevitabilmente la consapevolezza di non essere
(e di non poter essere) nessuno per se stesso.
Tra tutte le forme da cui Moscarda si sente oppresso,
quella del bieco usuraio è la più intollerabile. Vitangelo è infatti l'erede di
un banchiere arricchitosi senza scrupoli, anche se, prima della sua crisi, era
sempre vissuto nella più totale indifferenza, sfruttando la rendita garantita
dalle ingenti ricchezze paterne, amministrate per lui da due fedeli amici. Ora,
però, avendo deciso di rompere le catene che lo vincolano, secondo il giudizio comune,
all'immagine del privilegiato parassita, si propone di distruggere tutti i
diversi Moscarda che emergono dal confronto con le persone che lo conoscono.
Tutti, ovviamente, a partire dal Moscarda-usuraio.
Come Mattia Pascal (l'eroe del più celebre romanzo
pirandelliano), il protagonista di Uno,
nessuno e centomila si scopre quindi in trappola, imprigionato entro
un'identità scomoda, imposta dai legami sociali. Ma mentre il primo si era
illuso di poter rinascere con un nuovo io creato dal nulla, Moscarda si mostra
interessato esclusivamente alla pars
destruens: egli, cioè, vuole sbarazzarsi delle identità che sente a sé
estranee, senza avere la pretesa di riuscire a costruire un nuovo io più
stabile («Troppo ero già compreso dall'orrore di chiudermi nella prigione d'una
forma qualunque»). In sostanza, quello che per Pascal era stato il punto di
arrivo (la consapevolezza di non esistere per sé, ma solo nella visione degli
altri, al punto di convincersi di non essere nessuno), per Vitangelo diviene il
punto di partenza.
È questo, in definitiva, il presupposto delle pazzie
attraverso le quali Moscarda pretende di stravolgere l'opinione che la gente ha
di lui. Per prima cosa sfratta un poveraccio, tal Marco di Dio, cui persino il
padre aveva concesso di vivere gratuitamente in una catapecchia di sua
proprietà. Poi, dopo essere stato fatto di segno di generale riprovazione,
stupisce tutti regalando allo stesso di Dio un'abitazione più confortevole. In
seguito fa liquidare la banca paterna ed entra in contrasto con la moglie, col
risultato che quest'ultima lo lascia e si accorda con gli amministratori e con
il suocero per farlo interdire. Delle intenzioni di Dida, Moscarda è messo al
corrente da Anna Rosa, amica della moglie, alla quale il protagonista rivela
l'essenza delle proprie considerazioni sull'io. La reazione della donna, però,
è sconsiderata: pur affascinata dalle sue parole, spara a Vitangelo in un
raptus di follia, ferendolo. Lo scandalo che segue all'episodio (che tutti
interpretano come l'epilogo tragico di una relazione adulterina)
provoca un ulteriore e definitivo colpo di scena: dopo avere riconosciuto
pubblicamente le proprie colpe, Moscarda fa fondare con i suoi averi un «ospizio
di mendicità», dove egli stesso viene immediatamente
ricoverato. Ma il suo, ci tiene a precisare alla fine del racconto,
non è affatto un ravvedimento: «Quel che più mi
coceva era che questa mia totale remissione fosse interpretata come vero
pentimento, mentre io davo tutto, non m'opponevo a nulla, perché remotissimo
ormai da ogni cosa che potesse avere un qualche senso o valore per gli altri, e
non solo alienato assolutamente da me stesso e da ogni cosa mia, ma con
l'orrore di rimanere comunque qualcuno, in possesso di qualche cosa».
La conclusione della vicenda lascia dunque intendere che
il protagonista accetti la disgregazione del suo io come l'unica soluzione
possibile. La solitudine e la pazzia sono vissute come una liberazione dalla
prigione delle forme, al punto che, nell'ultimo paragrafo del romanzo, Moscarda
giunge persino a rifiutare il proprio nome («Nessun nome. Nessun ricordo oggi
del nome di jeri; del nome d'oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è
in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il
concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita;
ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe
funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in
pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome»).
La vita, infatti, scrive Pirandello, «non conclude», non può essere fissata una
volta per tutte con una definizione. La conoscenza vorrebbe bloccare la vita,
per darle una forma chiara e rassicurante: ma la vita scorre, e non si lascia
mai imbrigliare – anche se gli uomini si illudono del contrario – in percezioni
assolute e, inevitabilmente, soggettive. Per conoscere – afferma Moscarda,
rivolto ad Anna Rosa – «bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per
vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s'atteggia. E atteggiarsi
è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può
mai veramente vedere se stessa. [...] Lei non può conoscersi che atteggiata:
statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire».
L'alienazione di sé è quindi per Moscarda l'inevitabile
conseguenza della sua ribellione. Se infatti l'identità non può prescindere
dall'altro per affermare se stessa, risulta evidente che l'io è destinato a
fallire quando tenti di costruirsi un'immagine propria, chiaramente definita.
Solo annullandosi, sopprimendosi come identità, Moscarda si sente finalmente
libero e autentico. Di fatto, egli si rende continuamente estraneo a se stesso,
rifiuta di fermarsi e di osservarsi vivere. «Muoio ogni attimo, io, e rinasco
nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori»: è
questa la conclusione del romanzo, che trasfigura una realtà di apparente
sconfitta indirizzandola verso una paradossale, e inaspettata, guarigione.
Nella malattia Moscarda ritrova
dunque i presupposti per salvare se stesso: anche se le sue inquietudini lo
rendono un pazzo agli occhi dei cosiddetti sani, la scelta di appartarsi dalla
società rappresenta il solo modo per sopravvivere in un mondo falso e ipocrita.
Di fatto Moscarda, dal momento che non accetta di sottostare alle regole – non
scritte, ma ferree – della convivenza civile, ha assoluto bisogno di farsi da
parte. Vivere tra le persone "normali" equivale infatti a subire
continue imposizioni, nel senso che, in ogni momento, si è costretti ad
indossare abiti adatti a soddisfare le esigenze altrui. Ma Moscarda si rifiuta
di fare la marionetta, di vestire i panni dell'usuraio per la gente comune, del
marito arrendevole per la moglie, dell'erede sfaccendato per gli amministratori
della banca, e via dicendo. Dei centomila Moscarda esistenti, nessuno è quello
autentico. Nemmeno quello che, ostinatamente, lo stesso protagonista cerca di
costruire dal nulla potrà mai essere, del resto, il vero Moscarda. Forse proprio
la follia – che con Pirandello si avvicina molto al suo contrario, alla salute
mentale – è il più valido rimedio contro la perdita di consistenza dell'io. Se
si accetta l'idea che la piena libertà – quella che consente di rigenerarsi
giorno per giorno, senza costrizioni – sia accessibile solo varcando la soglia
della pazzia, allora il folle è l'unico che possa evadere dalla prigione delle
forme.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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