giovedì 3 aprile 2014

«Uno, nessuno e centomila»: la follia come evasione dalla prigione delle forme

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 marzo 2014)

Uscito in volume nel 1926 (ma iniziato, come stesura, già a partire dal 1909), Uno, nessuno e centomila è l'ultimo, sofferto romanzo di Luigi Pirandello, una sorta di summa che raccoglie, e porta a maturazione, tutti i motivi peculiari dell'intera sua produzione precedente.
La vicenda prende le mosse da un fatto, di per sé, insignificante: al protagonista, Vitangelo Moscarda, la moglie Dida fa notare che il naso gli pende leggermente verso destra; ed egli, che non si era mai accorto di nulla, realizza così, di colpo, che l'immagine che ha di sé non coincide con quella che le altre persone hanno di lui. Da quell'episodio, infatti, risulta evidente che esistono, potenzialmente, infiniti Moscarda, tanti quanti sono i punti di vista di coloro che lo osservano. Il che, per il protagonista, risulta essere una scoperta sconvolgente: «L'idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un "mio" dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest'idea non mi diede più requie».
Inizia così, da un dettaglio in apparenza trascurabile, la rivolta di Moscarda contro le forme entro le quali si sente costretto dal giudizio altrui. In gioco c'è, in sostanza, la questione della sua identità. Se infatti, come avverte, il suo io si forma di volta in volta in ciò che egli è per gli altri, questo significa che l'unità della sua persona si frammenta in molteplici immagini, con il conseguente sgretolamento delle certezze legate all'io. In altre parole, la presa di coscienza di essere centomila persone diverse per gli altri alimenta inevitabilmente la consapevolezza di non essere (e di non poter essere) nessuno per se stesso.
Tra tutte le forme da cui Moscarda si sente oppresso, quella del bieco usuraio è la più intollerabile. Vitangelo è infatti l'erede di un banchiere arricchitosi senza scrupoli, anche se, prima della sua crisi, era sempre vissuto nella più totale indifferenza, sfruttando la rendita garantita dalle ingenti ricchezze paterne, amministrate per lui da due fedeli amici. Ora, però, avendo deciso di rompere le catene che lo vincolano, secondo il giudizio comune, all'immagine del privilegiato parassita, si propone di distruggere tutti i diversi Moscarda che emergono dal confronto con le persone che lo conoscono. Tutti, ovviamente, a partire dal Moscarda-usuraio.
Come Mattia Pascal (l'eroe del più celebre romanzo pirandelliano), il protagonista di Uno, nessuno e centomila si scopre quindi in trappola, imprigionato entro un'identità scomoda, imposta dai legami sociali. Ma mentre il primo si era illuso di poter rinascere con un nuovo io creato dal nulla, Moscarda si mostra interessato esclusivamente alla pars destruens: egli, cioè, vuole sbarazzarsi delle identità che sente a sé estranee, senza avere la pretesa di riuscire a costruire un nuovo io più stabile («Troppo ero già compreso dall'orrore di chiudermi nella prigione d'una forma qualunque»). In sostanza, quello che per Pascal era stato il punto di arrivo (la consapevolezza di non esistere per sé, ma solo nella visione degli altri, al punto di convincersi di non essere nessuno), per Vitangelo diviene il punto di partenza.
È questo, in definitiva, il presupposto delle pazzie attraverso le quali Moscarda pretende di stravolgere l'opinione che la gente ha di lui. Per prima cosa sfratta un poveraccio, tal Marco di Dio, cui persino il padre aveva concesso di vivere gratuitamente in una catapecchia di sua proprietà. Poi, dopo essere stato fatto di segno di generale riprovazione, stupisce tutti regalando allo stesso di Dio un'abitazione più confortevole. In seguito fa liquidare la banca paterna ed entra in contrasto con la moglie, col risultato che quest'ultima lo lascia e si accorda con gli amministratori e con il suocero per farlo interdire. Delle intenzioni di Dida, Moscarda è messo al corrente da Anna Rosa, amica della moglie, alla quale il protagonista rivela l'essenza delle proprie considerazioni sull'io. La reazione della donna, però, è sconsiderata: pur affascinata dalle sue parole, spara a Vitangelo in un raptus di follia, ferendolo. Lo scandalo che segue all'episodio (che tutti interpretano come l'epilogo tragico di una relazione adulterina) provoca un ulteriore e definitivo colpo di scena: dopo avere riconosciuto pubblicamente le proprie colpe, Moscarda fa fondare con i suoi averi un «ospizio di mendicità», dove egli stesso viene immediatamente ricoverato. Ma il suo, ci tiene a precisare alla fine del racconto, non è affatto un ravvedimento: «Quel che più mi coceva era che questa mia totale remissione fosse interpretata come vero pentimento, mentre io davo tutto, non m'opponevo a nulla, perché remotissimo ormai da ogni cosa che potesse avere un qualche senso o valore per gli altri, e non solo alienato assolutamente da me stesso e da ogni cosa mia, ma con l'orrore di rimanere comunque qualcuno, in possesso di qualche cosa».
La conclusione della vicenda lascia dunque intendere che il protagonista accetti la disgregazione del suo io come l'unica soluzione possibile. La solitudine e la pazzia sono vissute come una liberazione dalla prigione delle forme, al punto che, nell'ultimo paragrafo del romanzo, Moscarda giunge persino a rifiutare il proprio nome («Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d'oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome»). La vita, infatti, scrive Pirandello, «non conclude», non può essere fissata una volta per tutte con una definizione. La conoscenza vorrebbe bloccare la vita, per darle una forma chiara e rassicurante: ma la vita scorre, e non si lascia mai imbrigliare – anche se gli uomini si illudono del contrario – in percezioni assolute e, inevitabilmente, soggettive. Per conoscere – afferma Moscarda, rivolto ad Anna Rosa – «bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s'atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa. [...] Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire».
L'alienazione di sé è quindi per Moscarda l'inevitabile conseguenza della sua ribellione. Se infatti l'identità non può prescindere dall'altro per affermare se stessa, risulta evidente che l'io è destinato a fallire quando tenti di costruirsi un'immagine propria, chiaramente definita. Solo annullandosi, sopprimendosi come identità, Moscarda si sente finalmente libero e autentico. Di fatto, egli si rende continuamente estraneo a se stesso, rifiuta di fermarsi e di osservarsi vivere. «Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori»: è questa la conclusione del romanzo, che trasfigura una realtà di apparente sconfitta indirizzandola verso una paradossale, e inaspettata, guarigione.
Nella malattia Moscarda ritrova dunque i presupposti per salvare se stesso: anche se le sue inquietudini lo rendono un pazzo agli occhi dei cosiddetti sani, la scelta di appartarsi dalla società rappresenta il solo modo per sopravvivere in un mondo falso e ipocrita. Di fatto Moscarda, dal momento che non accetta di sottostare alle regole – non scritte, ma ferree – della convivenza civile, ha assoluto bisogno di farsi da parte. Vivere tra le persone "normali" equivale infatti a subire continue imposizioni, nel senso che, in ogni momento, si è costretti ad indossare abiti adatti a soddisfare le esigenze altrui. Ma Moscarda si rifiuta di fare la marionetta, di vestire i panni dell'usuraio per la gente comune, del marito arrendevole per la moglie, dell'erede sfaccendato per gli amministratori della banca, e via dicendo. Dei centomila Moscarda esistenti, nessuno è quello autentico. Nemmeno quello che, ostinatamente, lo stesso protagonista cerca di costruire dal nulla potrà mai essere, del resto, il vero Moscarda. Forse proprio la follia – che con Pirandello si avvicina molto al suo contrario, alla salute mentale – è il più valido rimedio contro la perdita di consistenza dell'io. Se si accetta l'idea che la piena libertà – quella che consente di rigenerarsi giorno per giorno, senza costrizioni – sia accessibile solo varcando la soglia della pazzia, allora il folle è l'unico che possa evadere dalla prigione delle forme.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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