lunedì 16 dicembre 2013

La maschera imposta dal giudizio collettivo: «La patente», atto d'accusa contro la «schifosa umanità»

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 dicembre 2013)

La patente è una delle più conosciute novelle di Luigi Pirandello. Fu pubblicata per la prima volta il 9 agosto 1911 sul «Corriere della Sera»; ripresa quattro anni dopo nella raccolta La trappola, fu infine accolta, nel 1922, ne La rallegrata, terzo volume delle Novelle per un anno.
La trama è esilissima.
Il giudice D'Andrea è un individuo solitario e un po' bizzarro, il cui «strambo» aspetto fisico (ha «una spalla più alta dell'altra» e uno «smunto sparuto viso di bianco» su cui risaltano «capelli crespi gremiti da negro») rispecchia comportamenti piuttosto insoliti. Di notte egli ha l'abitudine di abbandonarsi a lunghe riflessioni filosofiche, dalle quali tuttavia non ricava che «la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo».
Il giudice D'Andrea è inoltre un uomo moralmente retto e ligio al dovere, che non lascia «mai dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare». Un caso particolare, tuttavia, gli dà il tormento: un tal Chiàrchiaro, un povero disgraziato che la gente comune considera uno iettatore, ha sporto denuncia per diffamazione contro due persone dopo averle sorprese a fare gli scongiuri al suo passaggio. Il giudice sa perfettamente che il malcapitato, pur essendo vittima di «una spietata ingiustizia», non ha alcuna possibilità di vincere la causa. Come condannare infatti due autori di un gesto sgradevole se gli stessi colleghi giudici mostrano di temere gli arcani "poteri" del Chiàrchiaro, se tutti i concittadini potrebbero testimoniare che egli è da tempo al corrente della diffusione della propria fama di iettatore? Perché prendersela solo con due persone in particolare?
Per essere comunque d'aiuto al povero Chiàrchiaro, il giudice D'Andrea decide di convocarlo in tribunale per dissuaderlo dall'intentare una causa, persa in partenza, che peggiorerebbe solo le cose. Ma l'incontro tra i due avviene in modo insolito: il Chiàrchiaro, infatti, si presenta nell'ufficio del giudice conciato in maniera bizzarra, con la barba incolta, «un pajo di grossi occhiali cerchiati d'osso» e un abito grigiastro. Esattamente come la fantasia popolare immagina debba essere il perfetto iettatore.
Ovviamente il D'Andrea, quasi inebetito, si mostra infastidito dalla messinscena, anche perché trova che le dicerie su quell'uomo con «l'aspetto d'un barbagianni» siano solo becere invenzioni. Egli proprio non capisce come si possa sporgere denuncia per diffamazione e, allo stesso tempo, incoraggiare di proposito le malelingue con un comportamento volto proprio a confermare i pregiudizi delle stesse. A sorpresa, tuttavia, il Chiàrchiaro gli rivolge questa criptica domanda: «Ah, lei si figura di fare il mio bene [...] dicendo di non credere alla jettatura?».
Il punto è che il Chiàrchiaro non vuole vincere la causa, bensì ottenere, con la sconfitta, un riconoscimento ufficiale (una «patente») del potere di arrecare sventura. È questo l'unico «capitale» che gli è rimasto dopo aver perso il lavoro a causa delle dicerie: «Signor giudice – è la conclusione cui giunge Chiàrchiaro –, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore. [...] E ci sono tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell'ignoranza? io dico della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d'avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città».
La novella è divisa da Pirandello – attraverso spazi tipografici lasciati in bianco – in tre parti. Nella prima viene presentato il giudice D'Andrea, un personaggio «strambo» e dall'aspetto non comune, le cui inconcludenti elucubrazioni cozzano palesemente con la sua professione. La certezza, tipicamente pirandelliana, di «non poter nulla sapere» si scontra infatti col ruolo istituzionale di amministratore della giustizia: il D'Andrea, che per mestiere deve saper distinguere il falso dal vero, non è in grado, in realtà, di comprendere il senso dell'esistenza. Le riflessioni notturne, che non portano ad alcun risultato concreto, non fanno altro che suscitare nuove angosciose domande.
Forse proprio perché avverte l'esigenza di mettere ordine alla sua vita, il D'Andrea è un lavoratore indefesso, che non trascura mai una pratica, anche a costo di restare in ufficio fino a tardi. Ma il caso del Chiàrchiaro – descritto nella seconda sezione – proprio non riesce a gestirlo. Il malcapitato, presunto iettatore, è una vittima innocente dell'ignoranza della gente, la quale per superstizione, cattivo gusto o chissà cosa ha emesso una condanna "sicura", dalla quale è impossibile sfuggire. Non importa che il Chiàrchiaro sia solo un poveraccio senza colpa: il marchio di iettatore gli è stato impresso a fuoco sulla carne e non c'è niente che si possa fare per cancellarlo. Persino i giudici, i custodi del tempio della ragione e della legge, contribuiscono a diffondere le dicerie, ad alimentare lo stolto pregiudizio.
A differenza del giudice D'Andrea, il Chiàrchiaro ha lucidamente compreso quale sia la strada più facilmente percorribile. Travolto dalle chiacchiere maligne della gente, egli non si oppone alla corrente, incontrastabile, del pensare comune, ma l'asseconda. Se tutti hanno deciso che debba indossare la maschera dello iettatore, tanto vale formalizzare la sentenza che lo condanna a vestire i panni del menagramo e farsi rilasciare dal tribunale una patente ufficiale. Chiàrchiaro – al cui sfogo è dedicato il terzo nucleo narrativo della novella – è consapevole che è impossibile sfuggire all'altrui giudizio: ogni uomo, del resto, dovrebbe rendersi conto che non sempre è consentito indossare la maschera che si desidera. L'aspetto umoristico – nel senso pirandelliano del termine – dell'intera vicenda risiede quindi nel paradosso che il Chiàrchiaro pretenda l'istituzionalizzazione della propria ingiusta condizione proprio dall'ente, il tribunale, cui abitualmente ci si rivolge per ottenere giustizia.
Pirandello si interroga, in definitiva, sul contrasto tra verità e maschera. Se l'io è, essenzialmente, il riflesso di sé nell'altro, allora esistono tanti io quanti sono i punti di vista da cui si osserva. Come Vitangelo Moscarda, che in Uno, nessuno e centomila si rende conto che l'unità della sua persona si sgretola nelle centomila immagini che egli lascia trasparire di sé (e quindi realizza che avere infiniti volti equivale a non averne nessuno), così il Chiàrchiaro intuisce che è inutile pretendere di indossare un'unica maschera. Tuttavia, a differenza di Moscarda, egli coglie l'opportunità di annullare se stesso in una maschera ben definita, che gli restituisce una sicura – seppur spiacevole – identità. Per questo definisce «tassa della salute» il prezzo che tutti dovranno pagare per evitare la sventura che egli ha il potere di "somministrare". La sua vendetta contro la «schifosa umanità» che lo ha privato della possibilità di mostrarsi in pubblico per quello che pensa di essere consiste nel farsi restituire un'identità. Piuttosto che annegare nel mare dell'indifferenziato, Chiàrchiaro preferisce indossare una maschera che, per quanto odiosa, tiene in vita un simulacro del suo io. La salute che va cercando è la sopravvivenza dell'unica forma di riconoscimento sociale che gli sia rimasta.
La verità, pertanto, è inaccessibile, nel senso che tanto il giudice D'Andrea – che nelle meditazioni notturne vede continuamente frustrati i propri tentativi di venire a capo della complessità del mondo – quanto il Chiàrchiaro – il quale, non potendo mostrare in pubblico la (presunta) reale immagine di se stesso, accetta di portare la maschera che altri, senza alcun motivo, hanno scelto per lui – sono impossibilitati a dare un senso alla propria vita. E se al primo stanno bene i panni del giudice, al secondo, obtorto collo, calzano alla perfezione quelli dello iettatore. Come direbbe Pirandello, così è (se vi pare).

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lunedì 9 dicembre 2013

La travolgente (e vacua) «fiumana del progresso»: il pessimismo di Giovanni Verga

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 dicembre 2013)

La Prefazione a I Malavoglia – che funge da premessa anche all'intero Ciclo dei Vinti – costituisce senza dubbio il più articolato documento di teoria narrativa che Giovanni Verga ci abbia lasciato.
Per prima cosa, il grande romanziere siciliano afferma che il suo racconto vuole essere uno «studio sincero e spassionato» dei meccanismi che regolano, a partire dalle classi subalterne, la nascita e lo sviluppo delle «irrequietudini pel benessere». Occorre però considerare che la continua «ricerca del meglio» assume caratteristiche differenti in base alla stratificazione sociale: se essa, infatti, al livello più basso si riduce ad una semplice «lotta pei bisogni materiali», ai gradini più alti della cosiddetta piramide delle classi corrispondono, progressivamente, l'«avidità di ricchezze», la «vanità aristocratica» e l'«ambizione». Nel progetto verghiano del Ciclo dei Vinti, ognuno di questi gradini doveva diventare argomento di un singolo romanzo, per un totale di cinque: ai Malavoglia seguì infatti Mastro don Gesualdo, dopo il quale erano previsti La Duchessa de Leyra, L'onorevole Scipioni e, infine, L'uomo di lusso (che doveva riunire in sé tutte le «bramosie» delle classi inferiori). Solo i primi due romanzi, tuttavia, videro effettivamente la luce.
A partire da questo progetto, Verga intende dimostrare che, pur essendo «grandioso, nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano», il cammino dell'umanità verso il progresso – ma forse sarebbe più corretto chiamarlo, con accezione meno ottimistica, sviluppo – determina un «risultato umanitario» che necessariamente «copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono». La «fiumana del progresso», in altre parole, travolge i singoli individui, indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza. Di conseguenza, proseguendo con la metafora, tutti i protagonisti del Ciclo, dai Malavoglia all'Uomo di lusso, «sono altrettanti vinti che la corrente ha deposto sulla riva».
Di fronte a questo spettacolo di natura – che si ripete, cioè, in continuazione, in quanto segue leggi immutabili –, «solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto d'interessarsi ai deboli che restano per via, [...] ai vinti che levano le braccia disperate». Diritto che, però, non consente di esprimere giudizi: lo scrittore che intenda studiare il «campo della lotta» deve accingersi al suo compito «senza passione», al fine di «rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata».
Con tutta evidenza, quella del Verga è una concezione meccanicistica di una realtà regolata da ferrei principi deterministici. La continua «ricerca del meglio» che caratterizza la condizione umana rappresenta una legge assoluta, dalla quale lo scrittore interessato a studiare la realtà non può assolutamente prescindere. Se infatti suo compito è quello di rendere accessibile al lettore le dinamiche che determinano la lotta per la vita, una corretta comprensione della suddetta legge – la quale, ovviamente, non può coesistere con alcun tipo di coinvolgimento personale – risulta imprescindibile. Il che, tuttavia, costituisce per il bravo scrittore una condizione necessaria ma non sufficiente: fondamentale diviene infatti anche l'eclisse dell'autore – che non può intervenire né con commenti né con giudizi correttivi o rassicuranti – e la regressione della voce narrante nel mondo dei personaggi. Solo attraverso questo accorgimento formale – come scrisse Verga nella Prefazione a L'amante di Gramigna – «la mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile» e «l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé».
La Prefazione ai Malavoglia presuppone, pertanto, una concezione fortemente pessimistica della realtà. A parere del Verga il progresso altro non è che l'esasperazione del meccanicismo, immutabile, che regola la vita degli uomini. Confidare in un miglioramento e illudersi (come invece suggerivano i seguaci della dottrina economica liberista risalente ad Adam Smith) che il perseguimento di interessi individuali possa giovare al bene collettivo costituisce, in tutto e per tutto, operazione priva di senso. L'uomo che lotta per migliorare il proprio benessere personale non può modificare la condizione di perenne antagonismo tra i membri di una società, dal momento che, nel loro complesso, i singoli interessi individuali producono inevitabilmente dei contrasti. Risulta così chiarita l'impersonalità narrativa di stampo verghiano: lo scrittore siciliano non coltiva alcuna illusione, sa che è impossibile confidare nel progresso e, per questo, non giudica i suoi personaggi, i quali vengono lasciati liberi di esprimersi con le loro parole, secondo i loro costumi.
La tecnica narrativa del Verga è profondamente innovativa rispetto a quella dei contemporanei naturalisti francesi. Questi ultimi si confrontano con la realtà alla stessa stregua di come gli scienziati studiano la natura: il loro scopo consiste nel dimostrare che tanto la legge di gravitazione universale quanto i meccanismi che regolano lo sviluppo delle passioni sono riconducibili a principi logici e assoluti. Secondo questa prospettiva, lo scrittore veste dunque i panni dello studioso che applica e scopre leggi deterministiche inerenti alla natura umana: egli è impersonale nel raccontare proprio perché, dall'esterno, controlla il mondo della finzione narrativa con l'autorità di colui che è in grado di conferirgli un senso preciso.
Nel naturalismo, di conseguenza, è riscontrabile una certa sintonia tra autore e narratore, considerando che quest'ultimo non regredisce al livello dei personaggi ma, al contrario, è al di sopra dei singoli punti di vista e si fa portavoce di quelle leggi che i protagonisti del racconto subiscono inconsapevolmente. Un simile atteggiamento è evidentemente dovuto a una visione ottimistica e progressista della realtà, che riconosce nella scienza un sicuro mezzo per dominare la natura.
Il pessimismo di Verga è invece totalmente incompatibile con questa prospettiva. Siccome la realtà, dominata dalla legge della lotta per la vita, è immutabile, è assurdo, per lo scrittore siciliano, che l'autore intervenga nella narrazione. Un tale comportamento sarebbe giustificabile solo se si coltivasse la speranza di un cambiamento, il che sarebbe possibile solo per una persona che avesse la presunzione di ritenersi depositaria della ricetta per un mondo migliore. Ma Verga non è Manzoni: non interviene a interrompere la narrazione poiché – al contrario dell'autore de I promessi sposi, il quale sente il bisogno di correggere pensieri, azioni e costumi di una società che, ai suoi occhi, dovrebbe (e potrebbe) essere diversa – preferisce far parlare da sé la realtà. Tra Verga e il narratore dei suoi romanzi c'è un abisso. Se si considera, per esempio, il celebre incipit di Rosso Malpelo, è evidente che l'autore del racconto non ha nulla a che vedere con il giudizio – espresso dal narratore – secondo il quale «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo». Nulla di tutto ciò si trova non solo, chiaramente, negli scritti del Manzoni, ma nemmeno in quelli di Zola.
Nel momento in cui il narratore nega il proprio tradizionale ruolo di filtro o, meglio, di mediatore tra lettore e mondo dei personaggi, viene meno la finalità più ovvia del racconto, che è quella di trasmettere messaggi costruttivi. Verga non ha la presunzione di voler indicare una via praticabile per il riscatto dell'umanità: questa prospettiva per lui è ingannevole, poiché si basa sull'erronea convinzione che il progresso debba necessariamente condurre l'uomo verso il miglioramento della qualità della vita. Ma un progresso di questo genere non è nient'altro che un'utopia: per quanto la scienza faccia passi avanti, per quanto l'uomo riesca ad andare incontro allo sviluppo, le leggi che regolano la lotta per la vita negano la possibilità che dal mondo scompaia la categoria dei vinti. L'uomo non può sfuggire al suo destino: così come è sempre accaduto in passato, anche in futuro la conflittualità avrà la meglio sulla solidarietà. La storia più recente, del resto, non può far altro che confermarlo.

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lunedì 2 dicembre 2013

La parabola del figliol prodigo e la natura divina del perdono

(articolo apparso su Prima Pagina del 30 novembre 2013)

La parabola più celebre del Vangelo, quella cosiddetta del figliol prodigo, è anche una delle più complesse. Prima di addentrarci nella lettura, a livello preliminare è sufficiente sottolineare che essa affronta un tema – quello del perdono – estremamente controverso. Di fronte ai versetti dell'evangelista Luca (15, 11-32), a molti sarà capitato, almeno una volta, di alzare bandiera bianca e pensare: «Questa parabola proprio non la capisco: come dar torto al figlio maggiore?». O magari: «Il racconto propone un caso estremo e il messaggio va interpretato: quella di Gesù è una provocazione a scopo educativo».
Ecco, senza particolari velleità, e soprattutto senza la pretesa di offrire suggerimenti per l'omelia della domenica, è opinione di chi scrive che, al contrario, Gesù non utilizzi per nulla un linguaggio interpretabile. Ed è proprio in questa sconcertante trasparenza che risiede l'enorme complessità della parabola. Gesù non sottintende significati oscuri: il suo racconto, che dev'essere accessibile a tutti, non cela strane insidie. Con un gioco di parole si potrebbe dire che egli afferma esattamente ciò che intende affermare.
Leggiamo dunque la parabola.
Disse ancora [Gesù]: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: "Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta". Ed egli divise fra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". Ma il padre disse ai servi: "Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: "Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso". Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».
Per prima cosa, è bene distinguere i personaggi in due categorie: i figli da una parte, il padre dall'altra. Anche se può sembrare una forzatura legare tra loro due figure apparentemente opposte, il figliol prodigo e il figlio maggiore (che potremmo definire figlio retto) hanno infatti in comune una visione esclusivamente razionale della propria realtà interiore.
Il figliol prodigo segue una logica di pensiero lineare. Ha diritto alla sua parte di eredità e la rivendica; vuole l'indipendenza e si allontana da casa. Anche quando, dopo essere caduto in miseria, decide di ritornare sui suoi passi, è la ragione a guidarlo: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Volendo semplificare, schematicamente, il suo comportamento, egli 1) capisce di aver sbagliato; 2) constata le conseguenze delle sue azioni; 3) decide di far ritorno dal padre, convinto che gli spetti un futuro da salariato, comunque preferibile alla condizione di addetto al pascolo dei maiali. Il figliol prodigo subordina cioè il proprio pensiero al nesso causa-effetto: ha peccato, dunque deve pagare. A questa visione razionale non ha, e non può avere, alternative. Per espiare le proprie colpe, egli non può fare a meno di accettare il castigo. Solo così può trovare la forza di chiedere scusa, dal momento che mancherebbe nuovamente di rispetto al padre se pretendesse un perdono incondizionato. Il senso di colpa diviene pertanto per il figliol prodigo un fardello da cui non è possibile separarsi: esso è sì un avvertimento a non commettere due volte il medesimo errore, ma è anche un marchio indelebile impresso a fuoco.
Pure il figlio retto è vincolato al principio razionale di causalità. A suo parere il fratello minore è uno scapestrato che meriterebbe il castigo del padre, non certo la sua comprensione. Egli è altresì convinto di meritare per sé il vitello grasso, come premio per non avere mai trasgredito un comando del genitore. Schematicamente, il figlio retto non è in grado di giustificare quella che reputa una doppia contraddizione, ovvero: 1) suo fratello ha peccato ed è accolto in festa; 2) non per lui, che è senza peccato, ma per l'improbo fratello viene sacrificato il vitello grasso. Si comprende quindi come entrambi i fratelli non riescano a prescindere dal nesso causa-effetto, con la differenza che il figliol prodigo non può pretendere per sé l'indulgenza paterna (e non può nemmeno discostarsi dalla convinzione di meritare un castigo), mentre il figlio retto avrebbe la possibilità di perdonare, ma in cuor suo non ci riesce.
Rispetto ai due figli, il padre è invece in grado di andare oltre i limiti del pensiero razionale, anche perché, razionalmente, il suo comportamento è inspiegabile. Chiunque pretendesse di capire il suo perdono, vedrebbe inevitabilmente frustrati i propri tentativi di ricerca di un senso logico. E il motivo è semplice: il perdono – come disposizione della coscienza – rientra nella sfera del divino e, di conseguenza, supera la frontiera dell'umanamente comprensibile. Come Dio non si vendica degli uomini che hanno crocifisso Gesù, ed anzi li accoglie nel suo regno, così il padre non esita a sacrificare il vitello grasso e si rallegra per il ritorno a casa del figlio che «era morto ed è tornato in vita».
L'insegnamento di Gesù è dunque rivolto a quanti, dovendo prendere una decisione, si affidano esclusivamente alle leggi degli uomini. Queste ultime non possono infatti regolare tutti gli aspetti dell'esistenza, poiché l'uomo non deve subordinare tutto se stesso ai codici che sono il frutto della sua intelligenza razionale. Il perdono, che va al di là della ragione, non può essere imposto da nessuna legge, in quanto non ha alcun senso, non è né giusto né sbagliato. Come dice la stessa etimologia, perdonare significa, di fatto, offrire un dono. E i doni sono gesti d'amore che non rispondono ad una precisa necessità, non presuppongono alcun fine terreno.
Il motivo per cui la risposta del padre al figlio retto è volutamente evasiva è semplice: non ha senso domandare perché si perdona, poiché, se si tentasse di rispondere, non si troverebbero che buone ragioni per non giustificare il perdono stesso. Solo Dio, che con amore paterno infonde nei cuori dei suoi figli il coraggio di perdonare, può comprendere il senso più profondo di quello che è uno dei gesti più nobili che un uomo possa compiere. Quando perdoniamo, di fatto ci avviciniamo alla condizione divina, poiché, al pari di Gesù che è morto in croce per la salvezza dell'umanità, sacrifichiamo noi stessi (cioè il nostro legittimo diritto ad un risarcimento) per il bene del prossimo che ha peccato nei nostri confronti.
Chiunque può provare l'esperienza del padre della parabola dopo avere subito un torto. Finché ci si chiede se colui che ci ha arrecato un danno o una perdita meriti il nostro perdono, di fatto non si è ancora pronti per cancellare la colpa di chi ci ha offeso. Nessuno, sul piano razionale, merita il perdono, dal momento che il principio di causalità (quello che non consente al figlio retto di accogliere il fratello scapestrato) impedisce di accettare che ad una determinata azione non corrisponda una reazione, che al peccato non segua una punizione. Solo andando oltre la domanda è possibile predisporsi al perdono, nel senso che, se decido di perdonare, non devo chiedermi il perché. 

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domenica 24 novembre 2013

Il Libro di Giobbe: l'uomo di fronte al mistero del dolore

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 novembre 2013)

Il Libro di Giobbe pone da oltre due millenni quello che probabilmente è l'interrogativo che più assilla l'intera umanità: è possibile comprendere il dolore?
La domanda sottintende una considerazione di fondo: se fosse possibile dare un senso al dolore, e magari comprendere i motivi della sua comparsa, sarebbe molto più semplice accettarlo. Ma sta di fatto che la sofferenza è una componente ineludibile dell'esistenza di ogni essere umano, contro la quale non esistono scudi o barriere. Il dolore ci coglie sempre impreparati proprio perché è incomprensibile, sfugge alle nostre potenzialità cognitive e, secondo criteri razionali, non ha alcun senso.
Il Libro di Giobbe approfondisce con estrema acutezza queste tematiche.
Giobbe è un uomo giusto e timorato di Dio. È ricco e ha dieci figli (sette maschi e tre femmine): tutti godono, come il padre, di ottima salute.
In un imprecisato empireo, Satana [da intendersi letteralmente come "avversario", un ministro di Dio incaricato di mettere alla prova gli uomini per saggiarne la fede] insinua che la devozione di Giobbe sia la conseguenza del suo benessere materiale e fisico. «Ma stendi un poco la mano – chiede provocatoriamente Satana al Signore – e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!». Il Signore accetta la sfida: prima permette a Satana di privare Giobbe di ogni suo bene (figli compresi); poi, al fine di portare la prova alle estreme conseguenze, acconsente che all'elenco delle disgrazie venga aggiunta anche una gravissima malattia. 
Giobbe è però determinato a resistere. Alla moglie, che lo invita a maledire Dio e a morire, replica deciso: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
Prostrato da atroci sofferenze, Giobbe riceve la visita di tre amici (Elifaz, Bildad e Sofar), venuti a recargli conforto. Nessuno, per sette giorni e sette notti, gli rivolge la parola, finché il malato non prorompe in un lamento in cui maledice il giorno della sua nascita. Intervengono quindi, a turno, gli amici: a loro parere, secondo il criterio della giustizia retributiva, se Giobbe soffre significa che ha peccato. Dio, infatti, non punisce i giusti. «Quale innocente – avverte Elifaz – è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti?».
Giobbe, tuttavia, protesta ostinato la propria innocenza: si sente un uomo giusto, non merita sofferenze così atroci. Ai tormenti preferirebbe la morte. E siccome l'esperienza contraddice palesemente la teoria della giusta retribuzione («Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi?»), da perseguitato egli vorrebbe confrontarsi con il Signore, per comprenderne le intenzioni e capire il perché della sua collera. Nonostante la sua protesta sfiori più volte il confine della blasfemia, Giobbe non ha infatti perso la fiducia nell'imperscrutabile Sapienza divina.
Fallito il tentativo di Elifaz, Bildad e Sofar – di fronte ai quali Giobbe rivendica la propria probità – entra in scena il giovane Eliu, il quale rimprovera tanto gli amici, che non hanno saputo trovare argomenti convincenti, quanto lo stesso Giobbe, poiché nessuno può dirsi giusto dinanzi a Dio. Eliu di fatto anticipa l'intervento di Dio, che si rivolge a Giobbe con parole perentorie: «Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri?». È il preludio alla capitolazione. All'uomo, che non può competere con l'Onnipotente, non resta che chiedere perdono e accettare la propria ignoranza: «Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo. [...] Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere».
Nell'epilogo il Signore, dopo aver rimproverato Elifaz, Bildad e Sofar per la loro stoltezza, restituisce a Giobbe i figli e i beni in quantità raddoppiata.
Per comprendere il Libro di Giobbe può essere utile partire dalla fine, dalla risposta – che, a ben vedere, risposta non è – di Dio. Giobbe vorrebbe conoscere il perché della sua sofferenza. Il criterio della giustizia retributiva, più volte affermato ma anche smentito nei dialoghi con gli amici, gli impedisce di trovare la pace. Siccome egli è un uomo giusto, per quale motivo è condannato al dolore? Dal Signore Giobbe attende la soluzione dell'interrogativo; ma a questa precisa domanda l'Onnipotente non solo non risponde, ma replica stizzito che essa è priva di senso. Le sue parole sono di una durezza sconcertante: «Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? [...] Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri?». Il che, volendo parafrasare, equivale a dire: «Come puoi anche solo pensare di conoscere i miei piani? Tu che non eri niente prima che io creassi tutto il mondo intorno a te». Dio, in sostanza, come ha giustamente notato Umberto Galimberti, «sopprime la domanda» sul senso del dolore. All'intelligenza creata non è consentito interrogare l'intelligenza creatrice.
Giobbe, con la sua ribellione, vorrebbe far ragionare Dio. Sente la necessità di esporre il proprio pensiero direttamente al Signore, poiché – afferma – «davanti a lui [...] avrei piene le labbra di ragioni». Ma Dio non sente ragioni, poiché abita in una dimensione sacrale che è il regno dell'indifferenziato, il luogo, cioè, dove le differenze (giusto-ingiusto, bene-male) stabilite dall'uomo per orientarsi nel vivere comune cessano di esistere. Non a caso, volendo invadere il campo dell'etimologia, la parola sacro, di origine indoeuropea, letteralmente significa separato, ossia fuori dalla portata della ragione. E siccome l'uomo allo stesso tempo teme ed è attratto da ciò che non può dominare, la religione (da re-legere) assolve l'essenziale funzione di recingere l'area del sacro, rendendola, con la dovuta cautela, accessibile.
Ad essere messo sotto accusa, quindi, è, più di tutti, il concetto di giustizia retributiva. Se esso davvero influenzasse il volere divino, per l'uomo sarebbe più semplice accettare la sofferenza. Il dolore acquisterebbe senso, e Giobbe dovrebbe capitolare di fronte alle obiezioni degli amici, dal momento che non potrebbe evitare o di riconoscere la propria colpa, o di tacciare Dio di ingiustizia, il che costituirebbe una colpa ancora più grave. Ma la giustizia retributiva è un concetto razionale, e come tale è frutto del pensiero umano, non di quello divino.
Il Libro di Giobbe impone pertanto una riflessione dagli effetti potenzialmente devastanti. Se non è possibile evitare il dolore, se le punizioni divine non seguono alcuna logica, cambia radicalmente il rapporto stesso con Dio. Gli amici mostrano di temere l'Onnipotente, hanno paura del suo giudizio. La loro paura è però un sentimento razionale, che presuppone la conoscenza del rischio cui si va incontro vivendo in modo ingiusto. Siccome credono che la sofferenza abbia una spiegazione, sono convinti di riuscire a evitarla. Ma nel momento in cui viene meno questa certezza, essi si trovano di colpo non più nelle condizioni di avere paura, bensì in uno stato di angoscia, conseguenza della loro ignoranza. Per questo difendono la giustizia retributiva, senza la quale si sentono perduti.
Al contrario degli amici, Giobbe accetta il cadere della giustizia retributiva. Le sue sofferenze – alla fine si rassegna – non hanno alcun senso logico, poiché l'uomo non può comprendere il volere di Dio. Tutto ruota, di fatto, intorno alla dicotomia fede-conoscenza. Le ultime parole che Giobbe rivolge al Signore sono al riguardo eloquenti: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere». Giobbe in sostanza sta dicendo che finalmente ha compreso Dio solo perché ha capito che è impossibile conoscerlo. Si ponga attenzione alle parole: «io ti conoscevo solo per sentito dire», ma ora «mi ricredo». È qui che entra in gioco la fede: si crede solo in ciò che non si conosce, dal momento che se si conoscesse si saprebbe, e non ci sarebbe bisogno di credere. Solo per chi ha fede Dio può essere fonte di speranza; per chi non crede e pretende di sapere non resta che l'inganno, l'amara constatazione che niente ha senso. Senza Dio, l'uomo non può che subire inerme il dolore, anticamera dell'angoscia.

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lunedì 18 novembre 2013

La poesia delle piccole cose: un autore esordiente al cospetto di Pascoli

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 novembre 2013)

Più di un secolo fa Giovanni Pascoli scriveva che «intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare». L'idea di fondo era che la poesia deve essere pura, non ha bisogno di porsi alcuna finalità materiale: il poeta, proseguiva infatti Pascoli, canta «per cantare», e così facendo può raggiungere risultati di «suprema utilità morale e sociale».
I brevi passi qui riportati, tratti dal celebre Il fanciullino – saggio, originariamente pubblicato nel 1897, che delinea una precisa teoria poetica –, probabilmente, ai più, faranno storcere il naso. Roba vecchia e superata, si penserà. Come sostenere, nell'odierna società nichilistica, che la poesia sia utile? Per rispondere, conviene cedere nuovamente la parola al grande autore di Myricae: «Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamento ammobiliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo».
Ognuno di noi possiede dentro di sé un fanciullino che fa «trovare nelle cose [...] il loro sorriso e la loro anima»; solo che oggi pare sempre più complicato scorgere il bello, anche perché – forse inconsciamente condizionati proprio dalle poesie che abbiamo studiato a scuola – siamo assuefatti all'idea che nulla di interessante si celi tra i palazzi grigi di una città. Eppure, come insegna Pascoli, se ci sforzassimo di apprezzare le piccole cose, se accettassimo poeticamente i limiti del vivere quotidiano, forse la nostra esistenza sarebbe più appagante o, quantomeno, meno arida.
Detto questo, è altresì vero che il contatto con la natura facilita enormemente l'espressione dei sentimenti. Se infatti è piuttosto insolito che ci si emozioni alla stazione dei treni o sotto un grattacielo, chi può dire di non provare nulla di fronte a un bel paesaggio innevato o passeggiando in un vecchio borgo di montagna? Certe immagini ci scaldano l'anima, anche se è difficile descrivere cosa si prova in quei momenti. Forse, anzi, non esisteranno mai parole esatte, ma solo combinazioni di parole in grado di restituire un flash, di immortalare un istante, una visione. La poesia ha quindi questa grande capacità: quella di catturare un'emozione, in modo che essa resti impressa sulla pagina e non venga dimenticata.
Prima abbiamo citato Myricae; ora forse, per evitare discorsi astratti, conviene leggere una poesia della raccolta. Prendiamo quindi, come esempio tra i tanti disponibili, Orfano, uno dei più celebri componimenti pascoliani:
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. / Senti: una zana dondola pian piano. / Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; / canta una vecchia, il mento sulla mano. // La vecchia canta: Intorno al tuo lettino / c'è rose e gigli, tutto un bel giardino. / Nel bel giardino il bimbo s'addormenta. / La neve fiocca lenta, lenta, lenta.
Con estrema semplicità, Pascoli riesce a catturare (in soli otto endecasillabi) immagini, suoni e, paradossalmente, l'assenza stessa di suoni. Il primo e l'ultimo verso hanno struttura analoga: le triplici ripetizioni del verbo «fiocca» e dell'aggettivo «lenta» sono collocate strategicamente in apertura e in chiusura per trasmettere l'idea, espressa visivamente attraverso il costante cadere della neve, di un silenzio quasi sacrale. Sembra effettivamente di assistere a una ninna nanna, con il torpore del sonno che si confonde con il manto bianco del paesaggio invernale che tutto avvolge. L'atmosfera è quasi magica, tutto pare sospeso, per certi versi confuso; forte è l'impressione di indefinitezza spaziale e temporale. D'un tratto il cigolio della culla e il canto della vecchia interrompono brevemente l'incantesimo, finché il bimbo non si addormenta entro la cornice fiabesca del giardino. Di nuovo, tutto tace.
Questa ampia premessa consente di inquadrare brevemente l'opera di cui qui accanto è ritratta la copertina. Si tratta di una raccolta di poesie di Fabio Salvatore Pascale, poeta esordiente cui i versi di Pascoli hanno senz'altro fornito numerosi spunti. Come suggerisce infatti l'eloquente titolo, la sua poesia – si legge nella prefazione a cura di Teresa Radesca – nasce «come una scintilla, una fulminazione, improvvisa ed ineludibile», pronta a sprigionare «il bagliore rischiarante» di fugaci frammenti di vita. La poetica del fanciullino trova in Pascale un convinto interprete. Sono le «piccole cose», a suo parere, a regalare «la rara felicità»: basta osservarle «con occhi non distratti» per scorgerne l'essenza poetica, potenzialmente alla portata di tutti.
La raccolta, va detto, non si compone di sole istantanee. Diversi componimenti hanno carattere prettamente riflessivo, e si soffermano su temi di forte impatto emotivo quali il patriottismo e la memoria collettiva. A colpire sono però soprattutto le liriche iniziali, che offrono rapide e vivide notazioni visive, per certi versi riconducibili all'impressionismo pittorico.
È bene dunque fare riferimento ad un paio di esempi. In questo primo caso il verso iniziale funge anche da titolo:
È scesa la notte, / sulle nostre menti, / ricordi scritti sulla / sabbia, sono bagnati / dalle lacrime del mare.
L'immagine del mare che cancella ogni segno od orma impressi sulla sabbia lungo la battigia è speculare a quella della notte, che spegne la luce della mente, avvolgendola in un sonno ambivalente, a tratti rassicurante, ma potenzialmente inquietante. Come la neve di Orfano, la notte e il mare sono collocati in apertura e in chiusura, così che la poesia possa squarciare come un bagliore il buio dell'indefinito.
Evidenti influssi pascoliani sono visibili anche in questo secondo componimento, intitolato Alito:
Quando il vento / scuote l'anima / nel gelido inverno, / rimango ore a pensare / al mio mattino / velato da nubi.
La poesia abbraccia un duplice scenario. Da un lato il vento che, scuotendo l'anima, potrebbe di per sé essere una sferza vitale; dall'altro il gelido paesaggio invernale, a partire dal quale si attua un drastico rovesciamento, fino all'immagine finale delle nubi che oscurano, più forti del vento, la luce del mattino. Dal reale (il vento) si passa subito alla dimensione sfuggente del linguaggio metaforico; e la scossa iniziale, che pare annunciare cambiamenti positivi, si rivela in realtà nient'altro che una gelida fitta al cuore.
Un procedimento analogo è compiuto da Pascoli nella poesia Novembre (sempre tratta da Myricae):
Gemmea l'aria, il sole così chiaro / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, / e del prunalbo l'odorino amaro / senti nel cuore ... // Ma secco è il pruno, e le stecchite piante / di nere trame segnano il sereno, / e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno. // Silenzio, intorno: solo, alle ventate, / odi lontano, da giardini ed orti, / di foglie un cader fragile. È l'estate, / fredda, dei morti.
Anche qui la scena iniziale, con la descrizione del paesaggio primaverile, sembra dipingere un quadro positivo, che però – a partire dal quinto verso – subisce un drastico rovesciamento. Gli albicocchi ed il prunalbo, infatti, non sono reali, ma frutto dell'immaginazione. Dietro l'illusorio scenario primaverile si cela, in concreto, un'inquietante minaccia di morte.
La sensibilità del Pascoli, capace di trasmettere forti emozioni a partire da semplici istantanee, costituisce, di fatto, l'essenza della poesia, nel senso che poeta è colui che riesce a guardare oltre, a plasmare un'immagine o un suono in modo da ricavarne spunti per una riflessione. La poesia, infatti, non è solo apprezzamento del bello: è pensiero, analisi, meditazione. È attribuzione di senso all'insignificante, valorizzazione delle piccole cose. Myricae, in questo senso, è un esempio difficilmente superabile, dal quale Fabio Salvatore Pascale ha tratto più di una comune ispirazione.

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martedì 12 novembre 2013

«Con gli occhi chiusi»: diverse prospettive da cui osservare il male del mondo

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 novembre 2013)
 
Federigo Tozzi è un autore forse non troppo noto al grande pubblico, di certo ingiustamente emarginato rispetto alla ristretta cerchia dei cosiddetti classici della letteratura. Di solito è ricordato come talento incompiuto, stroncato dalla polmonite nel 1920 (ad appena 37 anni) nel pieno della carriera e, per di più, pressoché completamente ignorato dai suoi contemporanei, con le significative eccezioni di Borgese, Pirandello e pochi altri.
Con gli occhi chiusi, la sua opera più riuscita, è un romanzo che nasce da un fondo autobiografico, da cui Tozzi attinge il tema, per lui fondamentale, del rapporto conflittuale tra padre e figlio. Esattamente come nel romanzo, anche il padre dello scrittore era un oste dispotico e autoritario, che per il figlio non vedeva altro che un futuro dietro il banco della trattoria di famiglia.
Il libro fu pubblicato nel 1919 presso l'editore Treves, anche se è possibile ritenerne conclusa la stesura entro il 1913.
Protagonista del romanzo è Pietro Rosi, che nelle prime pagine viene presentato come un adolescente succube del padre, di cui subisce il temperamento aggressivo. Questi gestisce una trattoria a Siena insieme con la moglie Anna ed è proprietario del podere di Poggio a' Meli, dove vivono, tra gli «assalariati», Giacco e Masa (due vecchi contadini) e una loro nipote, Ghísola. Per quest'ultima, sin da ragazzo, Pietro nutre un'attrazione confusa, che spesso si manifesta sotto forma di dispetti e cattiverie; ma la ragazza, molto più sveglia di lui, si mostra fuggevole, evasiva e, anche quando sembra disposta ad assecondare i suoi maldestri corteggiamenti, rimane volutamente vaga, fuori dalla portata di Pietro.
Un giorno Domenico, che non approva il legame del figlio con la giovane contadina, dispone che Ghísola faccia ritorno a Radda, a casa dei genitori. Per Pietro è un duro colpo, cui si aggiunge, di lì a poco, la perdita della madre, morta in seguito ad un accesso convulsivo. Umiliato dal padre per la sua scarsa propensione al mestiere di «padrone», il giovane vive costantemente in solitudine, faticando a terminare gli studi. Come gesto di ribellione, decide di avvicinarsi al socialismo.
Nel frattempo Ghísola, dopo essere stata sedotta da un amico di famiglia e dal suo fattore, ha abbandonato Radda, infastidita dalle voci che avevano preso a circolare sul suo conto. Trasferitasi a Firenze, è quindi divenuta l'amante di Alberto, un commerciante separato dalla moglie. È incinta, ma Alberto, che si trova in difficoltà economiche, è impossibilitato a mantenerla. Così, quando Pietro – che osservando una fotografia ha capito di essersene innamorato – decide di andare a trovarla, Ghísola, su consiglio dell'amante, progetta di sposarlo, con l'intento di fargli credere di aspettare un figlio da lui. Pietro, nonostante l'opposizione del padre, desidera ardentemente il matrimonio, ma, in ossequio ai vincoli della sua morale, respinge ogni approccio sessuale poiché è intenzionato a rispettare la donna che ama fino al giorno delle nozze.
A questo punto Ghísola, constatata l'inattuabilità del suo piano, si allontana da Pietro; ma, abbandonata a sua volta da Alberto, finisce in una casa di tolleranza a Firenze. Nella città toscana avviene un nuovo incontro con Pietro: egli si mostra disposto a perdonare la ragazza, finché non riceve una lettera anonima dal contenuto inquietante: vi si legge che Ghísola lo tradisce, con tanto di invito a verificarne l'infedeltà presso una casa di Firenze. La casa, dove Pietro puntualmente si reca, non è altro che un bordello. Pietro vi trova Ghísola, che continua a celare la gravidanza stando seduta. Ingenuo, il giovane ancora ignora la realtà e sembra voler credere alla buona fede dell'amata. Solo quando Ghísola, alzandosi in piedi, svela finalmente l'inganno, Pietro è costretto ad aprire gli occhi. «Allora egli – così si conclude il romanzo –, voltandosi a lei con uno sguardo pieno di pietà e di affetto, vide il suo ventre. Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l'aveva abbattuto ai piedi di Ghísola, egli non l'amava più».
Il romanzo di Tozzi gioca sulla polivalenza del concetto di consapevolezza. A livello superficiale, Pietro è il classico inetto che non riesce a realizzare se stesso. «Magro e pallido, inutile agli interessi», egli è l'esatto opposto del padre, perfetto self-made man ossessionato dagli affari, apparentemente appagato dalla propria vita di sacrifici. Pietro appare ingenuo, svogliato, poco disposto ad impegnarsi a fondo in qualcosa: sembra, per l'appunto, inconsapevole, incapace di dare un senso alla sua vita. Il mondo che lo circonda è evanescente, popolato da ectoplasmi che egli non avverte, semplicemente perché non hanno nulla di interessante da dirgli.
Tra Domenico e il figlio non c'è possibilità di comunicazione. Pietro, a parere del padre, vive con gli occhi chiusi, è cieco rispetto alla vita reale. E tutto il mondo attorno a lui sembra dare ragione a Domenico. Solo due donne, la madre Anna – che però muore troppo presto – e Ghísola, danno l'impressione di poter instaurare un dialogo con lui. La ragazza, in particolare, cattura il suo interesse: e, legando a sé Pietro, di fatto diviene la sua guida virgiliana verso la luce. Nell'amore per Ghísola, Pietro si illude di trovare la via che conduce alla verità; si convince, contro il parere del padre, che il rapporto con la giovane contadina possa dare valore alla sua vita. Ma la verità che infine trova non è certo quella lungamente agognata. Quando apre gli occhi, realizza di avere perduto per sempre l'innocenza della sua vista precedente. L'acquisita consapevolezza non è altro che dolore: e, rispetto ad esso, meglio sarebbe stato rimanere cieco.
Qual è, quindi, la vista migliore? Quella consapevole di Domenico e di Ghísola, o quella buia che Pietro possiede prima di aprire gli occhi? In altre parole, da quale punto di vista la realtà – che nella visione di Tozzi non è altro che prevaricazione, ingiustizia e dolore – risulta più tollerabile?
La pertinacia di Pietro, l'ostinazione a guardare il mondo con gli occhi della sua anima incontaminata, è incompatibile con la consapevolezza della verità. Paradossalmente, nel momento in cui apre gli occhi della ragione, Pietro chiude quelli del cuore. E realizza, in un istante, che anche il suo amore per Ghísola – l'unica cosa che lo aveva spronato ad assaporare la vita – non è altro che un'illusione, una menzogna. Di colpo, nel momento in cui scopre la gravidanza della giovane contadina, Pietro regredisce al livello del padre: il privilegio della sua cecità viene meno. E, in un certo senso, imparando a conoscere il mondo, Pietro si scopre più cieco di prima, poiché i suoi occhi hanno perduto per sempre la luce della purezza.
La distanza che separa Pietro da Ghísola viene colmata nell'istante in cui la ragazza svela l'inganno della gravidanza celata. Ghísola ha perso la speranza di essere salvata: ha abbandonato Radda poiché segnata, come da un marchio impresso a fuoco, dalle voci poco lusinghiere che circolavano in paese riguardo ai suoi costumi. Il pregiudizio l'ha resa una vittima senza possibilità di redenzione. La cattiveria e il cinismo di cui dà prova pianificando di ingannare Pietro sono il solo modo per ribellarsi a un mondo ingiusto e spietato. L'amore innocente del ragazzo quasi la offende: «Ma che andava cercando? Perché, dunque, amava lei e non qualche signorina di Siena, una signorina della sua condizione?». In Pietro, Ghísola è costretta a vedere riflessa un'ingenuità per lei ormai inaccessibile. E non riesce ad accettarlo.
Ma Ghísola non è solo questo. A ben vedere, ciò che la rende unica agli occhi di Pietro non è l'amore, bensì la comune diversità. Ghísola non accetta le imposizioni, i pregiudizi; si ribella alle convenzioni sociali poiché si ritiene «molto da più di tutti», nel senso che osserva il mondo con occhi diversi da quelli della gente comune. La sua consapevolezza è drammaticamente fiera: Ghísola non ha paura di essere quello che è, non teme il mondo, si è rassegnata al dolore e accetta di viverlo come una sfida. Contrariamente a Pietro, che non può più amare dopo aver conosciuto la verità, Ghísola è libera di guardare, a suo piacimento, con gli occhi aperti o chiusi.
Pietro ha bisogno di nutrirsi di ideali. La ribellione al padre, di cui non vuole accettare l'attaccamento morboso agli affari (alla "roba"); l'adesione al socialismo, vaga promessa di redenzione per l'umanità; e infine il suo amore per Ghísola, che egli vive con fiducia infantile ma a patto che l'amata abbia «la coscienza dell'onestà», sono tutti maldestri tentativi di affermare un io che rischia continuamente di soffocare. Pietro non riesce a vivere con dignità nella condizione di emarginato, non è in grado di trasformare la diversità in orgoglio. Per questo il buio della solitudine lo avvolge minaccioso, senza dargli scampo.

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domenica 3 novembre 2013

Le leggi fondamentali della stupidità umana

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 novembre 2013)

Se tutte le specie devono sopportare continuamente avversità e patimenti, gli esseri umani «hanno il privilegio di doversi sobbarcare un peso aggiuntivo, una dose extra di tribolazioni quotidiane, causate da un gruppo di persone che appartengono allo stesso genere umano». Questo gruppo è quello formato dalle persone stupide.
Così scrive Carlo Cipolla nell'introduzione al suo saggio sulla stupidità umana. Si tratta di un volumetto esilarante, scritto originariamente in lingua inglese nel 1976 e, successivamente, per via del suo incredibile e imprevisto successo, pubblicato in italiano per i tipi de Il Mulino.
Per Cipolla – illustre studioso dell'età moderna e dell'economia preindustriale scomparso nel 2000 all'età di 78 anni – la stupidità ha le sue leggi fondamentali. La prima, da cui è necessario partire, asserisce che «sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». Capita spesso, infatti, di giudicare intelligente una persona che poi si rivela, di colpo, essenzialmente stupida; così come a tutti accade di dover fare i conti, inaspettatamente, con persone stupide che sembrano cadute dal cielo al solo scopo di arrecare danni. Ne consegue che, pur nell'impossibilità di indicare valori numerici precisi, in ogni gruppo di persone esiste una quota costante di persone stupide, matematicamente esprimibile con il simbolo σ (sigma).
È sbagliato, infatti, ritenere che gli uomini nascano tutti uguali e che solo in seguito alcuni di essi, condizionati dall'educazione o dall'ambiente sociale, diventino stupidi. Al contrario, la stupidità è un fattore genetico. «Uno è stupido – afferma Cipolla – allo stesso modo in cui un altro ha i capelli rossi». E siccome la percentuale di stupidi in un gruppo di persone è identica per tutte le categorie e i gruppi umani, ecco la seconda legge fondamentale: «La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona».
Anche se difficile da accettare, la seconda legge non ammette eccezioni. Che si prenda in esame un gruppo di bidelli, di studenti, di insegnanti o addirittura di premi Nobel, in ognuno di essi esiste la medesima frazione σ di stupidi.
Occorre a questo punto specificare cosa si intenda per stupidità umana, partendo dal presupposto che l'uomo, anche il più solitario, è un animale sociale e, volente o nolente, interagisce con gli altri. Cipolla chiarisce questo concetto con una precisazione: «Da qualsiasi azione, o non azione, ognuno di noi trae un guadagno od una perdita, ed allo stesso tempo determina un guadagno od una perdita a qualcun altro». Il tutto è semplificato dal grafico qui riportato. L'asse delle X mostra il guadagno che un individuo (un generico Tizio) ottiene da una sua azione; quella delle Y il guadagno procurato a un'altra o più persone dall'azione di Tizio. Ovviamente, il guadagno negativo equivale a una perdita. Volendo chiarire il senso del grafico con un esempio, se Tizio, compiendo un'azione, procura un guadagno contemporaneamente a se stesso e a Caio, l'azione verrà registrata nell'area I; se invece Caio risulta penalizzato da un'azione dalla quale Tizio, compiendola, ha tratto vantaggio, allora l'azione andrà collocata nell'area B, e via dicendo.
Grafico alla mano, è più facile comprendere che gli esseri umani rientrano in quattro categorie fondamentali: gli sprovveduti (le cui azioni ricadono nell'area H), gli intelligenti (le cui azioni ricadono nell'area I), i banditi (le cui azioni ricadono nell'area B) e gli stupidi (le cui azioni ricadono nell'area S). Se quindi un Tizio compie un'azione ricavandone una perdita per se stesso ma un vantaggio per Caio, allora Tizio è uno sprovveduto. Se invece sia Tizio che Caio ricevono un danno dall'azione di Tizio, allora Tizio è uno stupido. Di qui la terza legge fondamentale: «Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita».
Osservando le persone, è facile constatare che esse spesso non agiscono coerentemente. Un individuo intelligente può comportarsi da sprovveduto o da stupido; tuttavia, essendo intelligente, la media ponderata dei suoi comportamenti ricadrà nell'area I del grafico. Ciò che stupisce, invece, è la straordinaria coerenza degli stupidi: quasi mai, infatti, una persona stupida compie un'azione intelligente. Quanto all'area B, è possibile tracciare nel grafico la linea OM del perfetto bandito: immaginando di collocare nello spazio delimitato dagli assi cartesiani gli individui e non le loro azioni, su OM risiedono i banditi che ricavano un guadagno equivalente al danno che hanno arrecato. Un ladro accorto, per esempio, è in grado di rubare una somma senza causare ulteriori perdite: egli guadagna tanto quanto perde la persona defraudata. Tuttavia, statisticamente, ciò accade di rado. È molto più probabile, infatti, che il bandito arrechi più danni di quanto guadagna (esempio: un Tizio ruba un'autoradio da una macchina e arreca un danno maggiore del valore della radio, dal momento che per compiere la sua azione ha dovuto rompere il finestrino). Questo bandito agisce quindi avvicinandosi al limite della stupidità, e va collocato nella porzione dell'area B a sinistra rispetto a OM, ossia nella zona BS. I banditi, invece, che guadagnano di più di quanto sottraggono si avvicinano al limite dell'intelligenza e vanno collocati in BI: ma sono piuttosto rari.
Tornando alla stupidità, bisogna considerare che il principale fattore che determina il grado di pericolosità di una persona stupida è rappresentato dal potere che essa detiene nella società. Più uno stupido ha influenza e può prendere decisioni vincolanti per gli altri, più è pericoloso. Un tempo erano gli istituti sociali della classe e della casta a consentire l'afflusso di stupidi nelle posizioni di potere; oggi abbiamo i partiti, la burocrazia e la democrazia, ma il risultato non è cambiato. La conclusione di Cipolla su questo punto è esilarante e merita di essere citata per intero: «Va ricordato che, in base alla Seconda Legge, la frazione σ di persone che votano sono stupide e le elezioni offrono loro una magnifica occasione per danneggiare tutti gli altri, senza ottenere alcun guadagno dalla loro azione. Esse realizzano questo obiettivo, contribuendo al mantenimento del livello σ di stupidi tra le persone al potere».
Gli stupidi sono pericolosi in quanto imprevedibili. Un bandito segue una logica: vuole arricchirsi a spese altrui. Per quanto sia disonesto, agisce comunque razionalmente. Lo stupido, invece, agisce senza logica, e per questo è ancora più pericoloso del bandito. Tanto più che mentre la persona intelligente sa di essere intelligente, lo stupido non sa di essere stupido. Di fronte all'attacco irrazionale di uno stupido, la ragione si fa sempre trovare impreparata. E guai a pensare di poter sfruttare la stupidità altrui per raggiungere un qualsiasi scopo! La quarta legge fondamentale è al riguardo categorica: «Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore».
Dalla quarta alla quinta legge il passo è breve. La quinta legge afferma infatti che «la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista», con la conseguenza – che fa da corollario alla legge – che «lo stupido è più pericoloso del bandito». Il che risulta comprensibile osservando il grafico. Un bandito dell'area BS arreca più danni di uno dell'area BI; allo stesso modo, come si intuisce dopo aver prolungato OM nell'area H fino al punto P, uno sprovveduto dell'area HI è meno pericoloso per se stesso (cioè si autoinfligge minori perdite) di uno sprovveduto incline alla stupidità, da collocare in HS.
Il grafico mostra infine un ultimo interessante dato. Tutte le azioni posizionate alla destra di POM incrementano la ricchezza di una società; quelle a sinistra, al contrario, la impoveriscono. In termini assoluti, infatti, anche uno sprovveduto che perda meno di quanto faccia guadagnare ad altri ha comunque arricchito la società; stessa cosa può dirsi di un bandito che sottragga meno di quanto guadagni. Ora, siccome la percentuale σ di stupidi è uguale per tutte le società, la differenza tra una società in declino ed una in ascesa risiederà nella capacità di porre un freno all'attività degli stupidi e di impedire che si affollino le aree dei non stupidi inclini alla stupidità (HS e BS) a scapito di quelle dei non stupidi vicini all'intelligenza. Per contenere la stupidità occorre però evitare di illudersi di poterla comprendere a fondo. Ed è bene tenere a mente quanto segue: «Col sorriso sulle labbra, come se compisse la cosa più naturale del mondo lo stupido comparirà improvvisamente a scatafasciare i tuoi piani, distruggere la tua pace, complicarti la vita ed il lavoro, farti perdere denaro, tempo, buonumore, appetito, produttività – e tutto questo senza malizia, senza rimorso, e senza ragione. Stupidamente».

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martedì 29 ottobre 2013

«Alla stazione in una mattina d’autunno»: Carducci e l’incubo della modernità

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 ottobre 2013)
 
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi 
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
 
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia, 
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna 
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
 
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
 
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
 
Già il mostro, conscio di sua metallica 
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
  
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi. 
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
 
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata 
pura fronte con atto soave!
 
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
 
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
 
Sotto la pioggia, tra la caligine 
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
 
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima! 
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
 
Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi 
in un tedio che duri infinito.
La poesia – ode alcaica di quindici quartine, ciascuna delle quali formata da due quinari doppi, un novenario e un decasillabo – fu composta da Giosue Carducci in due tempi: abbozzata nel giugno del 1875, fu portata a termine nel dicembre dell'anno successivo. Come si ricava dall'epistolario dell'autore, lo spunto venne offerto da un episodio risalente al 23 ottobre 1873, quando Carducci, in una piovigginosa mattina autunnale, accompagnò Lidia (nome letterario di Carolina Cristofori Piva, amante del poeta conosciuta nel 1871) alla stazione di Bologna, dove la donna era venuta a trovarlo.
L'ode risale a un periodo in cui la relazione con Lidia era confinata a marginali e fuggevoli incontri. Una lettera datata proprio 23 ottobre 1873 consente di chiarire le circostanze che portarono Carducci alla stesura del componimento: «Stamani con l'ultimo rumore allontanantesi del treno che ti portava, a me pareva che fuggisse irreparabilmente la visione più dolce della mia vita irrequieta. Parmi che l'inverno mi circondi». Lidia si era infatti recata a Bologna per salutare il poeta prima di partire per Civitavecchia, dove avrebbe raggiunto il marito, il colonnello Domenico Piva, che era stato trasferito in quella città con il suo reggimento. Il distacco dall'amata alla stazione ferroviaria fece sorgere nell'animo di Carducci quella sensazione di profonda tristezza che è alla base dell'ode, composta a distanza di circa due anni dall'avvenimento in essa descritto.
Il paesaggio d'apertura inquadra subito il componimento in un'atmosfera spettrale e buia. La pioggia, il fango, il cielo plumbeo trasmettono un senso di forte frustrazione, quasi d'angoscia, per l'imminente separazione del poeta dalla donna amata. La stazione, del resto, è tutto fuorché un luogo idilliaco, il che, per un maestro di classicismo come Carducci, deve suonare come campanello d'allarme. Il discorso indugia peraltro volutamente su particolari banali e prosaici – che non ci si aspetterebbe di trovare in un'ode –, come il biglietto esibito per il «secco taglio della guardia», gli addetti ai freni che armeggiano con sbarre di ferro, «gli sportelli sbattuti al chiudere» e il richiamo ai passeggeri affinché salgano in carrozza.
L'assenza di elementi aulici è tuttavia funzionale ad affermare un senso di profonda estraneità nei confronti dello squallore della vita moderna, che vanifica ogni desiderio di bellezza e sopprime l'umanità dei rapporti personali. L'atmosfera cupa, caratterizzata dalla predominanza del colore nero, richiama un drammatico senso di morte. La locomotiva, simbolo della tecnica che tutto assorbe, evoca l'immagine del traghettatore Caronte: non è più l'espressione del progresso umano che il primo Carducci, nell'Inno a Satana, aveva esaltato quale prodotto della «forza vindice della ragione»; è ormai un «empio mostro» pronto a completare il tragitto che porta, inesorabile, nel regno dei morti.
Al pari del Frankenstein di Mary Shelley, la macchina è pertanto una creatura dell'uomo che rischia di sfuggire al suo controllo. Il distacco forzato da Lidia, costretta a salire sul treno per prendere la strada di casa, ha la valenza di un distacco ancora più doloroso, quello cioè che priva l'umanità di un mondo che sta scomparendo. L'età moderna è frenetica e sostituisce i rapporti tra uomo e uomo con sempre più articolate interazioni tra uomo e apparati tecnici. Viene meno in sostanza il contatto intimo con le persone, cui subentrano ripetitivi e continui botta e risposta con esseri disumanizzati, come i «vigili» e la «guardia» della stazione, figure infernali addette al controllo del corretto funzionamento della locomotiva-mostro.
Un forte senso d'angoscia risiede altresì nella constatazione che l'uomo sembra ignaro del destino che l'attende. Le due domande che Carducci pone nei versi 9-12 non solo, per i più, non trovano risposta, ma probabilmente non sono nemmeno avvertite come impellenti: «Dove e a che move questa, che affrettasi a' carri foschi, ravvolta e tacita gente? a che ignoti dolori o tormenti di speme lontana?». Sembra di leggere la pagina in cui Heidegger, in un saggio del 1959 intitolato L'abbandono, sottolineava che, più della tecnica, ciò che è davvero inquietante «è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo». E non è preparato poiché la modernità, oggi come ai tempi di Carducci, non si lascia imbrigliare dalle pretese finalistiche di un'umanità che ancora tenta di conferirle uno scopo. La tecnica non ha altro fine se non quello di realizzare il possibile, a prescindere dalle conseguenze. Ma siccome l'uomo vorrebbe a tutti i costi trovare un senso alle sue azioni, finisce inevitabilmente per apparire – come rilevato dal filosofo Günther Anders – inadeguato, ancorato a categorie di pensiero anacronistiche, che non possono più portare conforto. Con largo anticipo rispetto ai due citati pensatori tedeschi, Carducci sembra aver intuito che alla modernità non si può accostare con entusiastica serenità il concetto di progresso. Se quest'ultimo, infatti, deve essere inteso come miglioramento della qualità della vita, l'avanzamento senza freni di una tecnica senza scopi nasconde molteplici insidie, dal momento che spodesta l'uomo, privandolo del suo controllo sul mondo. Il futuro è pertanto una minaccia, in quanto non promette altro che sviluppo, che è ben altra cosa rispetto al progresso.
Contrapposto al fosco paesaggio infernale della stazione – teatro in cui va in scena il trionfo della tecnica – è il mondo dei ricordi, evocati per esorcizzare le forze oscure verso cui conduce l'empio mostro. I temi classicheggianti dell'estate, del calore, della bellezza, dell'amore, tutti connessi con la figura di Lidia, inducono il poeta ad abbandonarsi ad un'illusione di quiete eterna, destinata però inesorabilmente a dissolversi al contatto con la fredda realtà. L'ode infatti è subordinata a una concezione del tempo che non lascia speranze per l'avvenire: il bene, la serenità sono confinati nel passato, mentre il presente di sofferenza è costretto a cedere il passo ad un incerto (e per questo angosciante) futuro. Non ha senso, pertanto, coltivare illusioni: la stazione è l'anticamera dell'inferno. Ed è talmente evidente che la locomotiva trainerà l'umanità verso il male che «gli sportelli sbattuti al chiudere paion oltraggi: scherno par l'ultimo appello che rapido suona».
Se quindi Lidia è la personificazione di un passato idealizzato, è chiaro che, alla stazione, Carducci sta celebrando il funerale delle proprie illusioni. La risposta emotiva dell'autore è racchiusa in una parola chiave, ripetuta due volte: tedio. Non si tratta, però, della comune noia, e nemmeno della noia di vivere. Al verso 23, dopo aver descritto il lugubre «nero convoglio», il poeta afferma che «di fondo a l'anima un'eco di tedio risponde doloroso, che spasimo pare»: si tratta, in questo caso, di vuoto esistenziale, della sensazione di sgomento provata per il distacco da Lidia, della paura dell'ignoto cui l'umanità, trainata dalla locomotiva-mostro, va incontro.
Ma il tedio più significativo è chiaramente quello dell'ultima strofa: «Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere, meglio quest'ombra, questa caligine: io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito». È questa la vera parola chiave dell'ode. Carducci, siccome è evidente «che per tutto nel mondo è novembre», vorrebbe sprofondare in una eternità assoluta, senza confini; vorrebbe smarrire il senso dell'essere, perdere il triste e amaro privilegio della chiaroveggenza. In definitiva,  sarebbe auspicabile confondersi con la pioggia e la caligine, per non dover più avvertire, con angosciante lucidità, la miseria cui l'uomo sta andando incontro. Il tedio, quindi, non è altro che l'annullamento delle capacità percettive, lo spegnimento della luce dell'intelletto, la soppressione del pensiero. Addolorato per la perdita di Lidia, la cui partenza ha il sapore di un addio; frustrato per il tramontare dello stesso mondo dell'arte e della poesia, destinato a soccombere sotto il peso della modernità; impossibilitato a cogliere, nel futuro, anche solo un barlume di speranza, al poeta non resta che attendere la morte. «Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere»: è in questo grido di dolore che Carducci racchiude il proprio desolato desiderio di ribellione.

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