(articolo apparso su Prima Pagina del 26 ottobre 2013)
Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!
Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.
Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?
Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli anni
dài, gl’istanti gioiti e i ricordi.
Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei
freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.
E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.
Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.
Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.
O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!
Fremea la vita nel tepid’aere,
fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso
in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.
Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.
Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.
Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
La poesia – ode alcaica di quindici
quartine, ciascuna delle quali formata da due quinari doppi, un novenario e un
decasillabo – fu composta da Giosue Carducci in due tempi: abbozzata nel giugno
del 1875, fu portata a termine nel dicembre dell'anno successivo. Come si
ricava dall'epistolario dell'autore, lo spunto venne offerto da un episodio
risalente al 23 ottobre 1873, quando Carducci, in una piovigginosa mattina
autunnale, accompagnò Lidia (nome letterario di Carolina Cristofori Piva,
amante del poeta conosciuta nel 1871) alla stazione di Bologna, dove la donna
era venuta a trovarlo.
L'ode risale a un periodo in cui la
relazione con Lidia era confinata a marginali e fuggevoli incontri. Una lettera
datata proprio 23 ottobre 1873 consente di chiarire le circostanze che
portarono Carducci alla stesura del componimento: «Stamani con l'ultimo rumore
allontanantesi del treno che ti portava, a me pareva che fuggisse
irreparabilmente la visione più dolce della mia vita irrequieta. Parmi che
l'inverno mi circondi». Lidia si era infatti recata a Bologna per salutare il
poeta prima di partire per Civitavecchia, dove avrebbe raggiunto il marito, il
colonnello Domenico Piva, che era stato trasferito in quella città con il suo
reggimento. Il distacco dall'amata alla stazione ferroviaria fece sorgere
nell'animo di Carducci quella sensazione di profonda tristezza che è alla base
dell'ode, composta a distanza di circa due anni dall'avvenimento in essa
descritto. Il paesaggio d'apertura inquadra subito il componimento in un'atmosfera spettrale e buia. La pioggia, il fango, il cielo plumbeo trasmettono un senso di forte frustrazione, quasi d'angoscia, per l'imminente separazione del poeta dalla donna amata. La stazione, del resto, è tutto fuorché un luogo idilliaco, il che, per un maestro di classicismo come Carducci, deve suonare come campanello d'allarme. Il discorso indugia peraltro volutamente su particolari banali e prosaici – che non ci si aspetterebbe di trovare in un'ode –, come il biglietto esibito per il «secco taglio della guardia», gli addetti ai freni che armeggiano con sbarre di ferro, «gli sportelli sbattuti al chiudere» e il richiamo ai passeggeri affinché salgano in carrozza.
L'assenza di elementi aulici è tuttavia funzionale ad affermare un senso di profonda estraneità nei confronti dello squallore della vita moderna, che vanifica ogni desiderio di bellezza e sopprime l'umanità dei rapporti personali. L'atmosfera cupa, caratterizzata dalla predominanza del colore nero, richiama un drammatico senso di morte. La locomotiva, simbolo della tecnica che tutto assorbe, evoca l'immagine del traghettatore Caronte: non è più l'espressione del progresso umano che il primo Carducci, nell'Inno a Satana, aveva esaltato quale prodotto della «forza vindice della ragione»; è ormai un «empio mostro» pronto a completare il tragitto che porta, inesorabile, nel regno dei morti.
Al pari del Frankenstein di Mary Shelley, la macchina è pertanto una creatura dell'uomo che rischia di sfuggire al suo controllo. Il distacco forzato da Lidia, costretta a salire sul treno per prendere la strada di casa, ha la valenza di un distacco ancora più doloroso, quello cioè che priva l'umanità di un mondo che sta scomparendo. L'età moderna è frenetica e sostituisce i rapporti tra uomo e uomo con sempre più articolate interazioni tra uomo e apparati tecnici. Viene meno in sostanza il contatto intimo con le persone, cui subentrano ripetitivi e continui botta e risposta con esseri disumanizzati, come i «vigili» e la «guardia» della stazione, figure infernali addette al controllo del corretto funzionamento della locomotiva-mostro.
Un forte senso d'angoscia risiede altresì nella constatazione che l'uomo sembra ignaro del destino che l'attende. Le due domande che Carducci pone nei versi 9-12 non solo, per i più, non trovano risposta, ma probabilmente non sono nemmeno avvertite come impellenti: «Dove e a che move questa, che affrettasi a' carri foschi, ravvolta e tacita gente? a che ignoti dolori o tormenti di speme lontana?». Sembra di leggere la pagina in cui Heidegger, in un saggio del 1959 intitolato L'abbandono, sottolineava che, più della tecnica, ciò che è davvero inquietante «è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo». E non è preparato poiché la modernità, oggi come ai tempi di Carducci, non si lascia imbrigliare dalle pretese finalistiche di un'umanità che ancora tenta di conferirle uno scopo. La tecnica non ha altro fine se non quello di realizzare il possibile, a prescindere dalle conseguenze. Ma siccome l'uomo vorrebbe a tutti i costi trovare un senso alle sue azioni, finisce inevitabilmente per apparire – come rilevato dal filosofo Günther Anders – inadeguato, ancorato a categorie di pensiero anacronistiche, che non possono più portare conforto. Con largo anticipo rispetto ai due citati pensatori tedeschi, Carducci sembra aver intuito che alla modernità non si può accostare con entusiastica serenità il concetto di progresso. Se quest'ultimo, infatti, deve essere inteso come miglioramento della qualità della vita, l'avanzamento senza freni di una tecnica senza scopi nasconde molteplici insidie, dal momento che spodesta l'uomo, privandolo del suo controllo sul mondo. Il futuro è pertanto una minaccia, in quanto non promette altro che sviluppo, che è ben altra cosa rispetto al progresso.
Contrapposto al fosco paesaggio infernale della stazione – teatro in cui va in scena il trionfo della tecnica – è il mondo dei ricordi, evocati per esorcizzare le forze oscure verso cui conduce l'empio mostro. I temi classicheggianti dell'estate, del calore, della bellezza, dell'amore, tutti connessi con la figura di Lidia, inducono il poeta ad abbandonarsi ad un'illusione di quiete eterna, destinata però inesorabilmente a dissolversi al contatto con la fredda realtà. L'ode infatti è subordinata a una concezione del tempo che non lascia speranze per l'avvenire: il bene, la serenità sono confinati nel passato, mentre il presente di sofferenza è costretto a cedere il passo ad un incerto (e per questo angosciante) futuro. Non ha senso, pertanto, coltivare illusioni: la stazione è l'anticamera dell'inferno. Ed è talmente evidente che la locomotiva trainerà l'umanità verso il male che «gli sportelli sbattuti al chiudere paion oltraggi: scherno par l'ultimo appello che rapido suona».
Se quindi Lidia è la personificazione di un passato idealizzato, è chiaro che, alla stazione, Carducci sta celebrando il funerale delle proprie illusioni. La risposta emotiva dell'autore è racchiusa in una parola chiave, ripetuta due volte: tedio. Non si tratta, però, della comune noia, e nemmeno della noia di vivere. Al verso 23, dopo aver descritto il lugubre «nero convoglio», il poeta afferma che «di fondo a l'anima un'eco di tedio risponde doloroso, che spasimo pare»: si tratta, in questo caso, di vuoto esistenziale, della sensazione di sgomento provata per il distacco da Lidia, della paura dell'ignoto cui l'umanità, trainata dalla locomotiva-mostro, va incontro.
Ma il tedio più significativo è chiaramente quello dell'ultima strofa: «Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere, meglio quest'ombra, questa caligine: io voglio io voglio adagiarmi in un tedio che duri infinito». È questa la vera parola chiave dell'ode. Carducci, siccome è evidente «che per tutto nel mondo è novembre», vorrebbe sprofondare in una eternità assoluta, senza confini; vorrebbe smarrire il senso dell'essere, perdere il triste e amaro privilegio della chiaroveggenza. In definitiva, sarebbe auspicabile confondersi con la pioggia e la caligine, per non dover più avvertire, con angosciante lucidità, la miseria cui l'uomo sta andando incontro. Il tedio, quindi, non è altro che l'annullamento delle capacità percettive, lo spegnimento della luce dell'intelletto, la soppressione del pensiero. Addolorato per la perdita di Lidia, la cui partenza ha il sapore di un addio; frustrato per il tramontare dello stesso mondo dell'arte e della poesia, destinato a soccombere sotto il peso della modernità; impossibilitato a cogliere, nel futuro, anche solo un barlume di speranza, al poeta non resta che attendere la morte. «Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere»: è in questo grido di dolore che Carducci racchiude il proprio desolato desiderio di ribellione.
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