martedì 14 aprile 2015

«I vivi e i morti»: l’ossessione dell’aldilà e la necessità esistenziale di andare oltre le apparenze

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 aprile 2015)

Apparso nel 1923, I vivi e i morti di Giuseppe Antonio Borgese è certamente un romanzo poco conosciuto, di non facile lettura e piuttosto spigoloso in quanto a tematiche affrontate. Alla base della vicenda sta infatti la volontà di regressione del protagonista, Eliseo Gaddi, attratto dalla vita di campagna dopo anni trascorsi in città, determinato a scoprire se stesso per placare un martellante senso di inadeguatezza e di perenne frustrazione esistenziale. In sostanza, I vivi e i morti è la storia di una ricerca tutta interiore, di un percorso introspettivo che individua nella solitudine una provvidenziale via d’uscita per sfuggire alle pastoie del corpo.
Il romanzo si apre con Eliseo che tenta di scrivere le proprie memorie dopo essere tornato a Miriano, nella casa della madre. Ha deciso infatti di lasciare Milano, lui professore e giornalista, per ritirarsi definitivamente in campagna, «ove non è nulla che non ricordi la perpetuità del cielo e il breve tempo d’ogni cosa terrestre». Eliseo è insoddisfatto di se stesso: tenta di scrivere, ma subito realizza che la sua vita precedente – ancorché egli non abbia ancora quarant’anni – non è altro che un lungo «passato senza né filo né segno». Posa la penna. Non può scrivere perché sente di avere condotto un’esistenza vacua, e «ora è tempo finalmente di vivere, non di scrivere».
A Miriano Eliseo intende occuparsi di agricoltura, aiutando la madre e il fratello Michele nella gestione delle proprietà di famiglia. Con quest’ultimo ha però una violenta discussione: si parla della divisione dell’eredità (a Eliseo spetterebbe il podere della Cascinetta, ma il fratello dubita che egli sia in grado di farlo fruttare) e della prospettiva di un’imminente collaborazione. Michele – che giudica Eliseo una persona indolente e non tollera che questi si sia immischiato nei suoi affari – è furente, «gonfio d’ira quasi da goderne»: sotto la grandine, torna a casa turbato da mille pensieri. Nella notte si sente male, cade in preda al delirio e infine spira poco dopo l’alba.
Ricevuta la tragica notizia, Eliseo prova un forte senso di angoscia per non aver avuto occasione di riappacificarsi con Michele. Col tempo, comprende che la presenza del fratello si è fatta paradossalmente più ingombrante dopo la morte, una sorta di ossessione – acuita dal senso di colpa – da cui non sarà facile liberarsi. Eliseo si ritrova quindi ancora più solo con se stesso: vorrebbe essere di sostegno alla madre anziana, già vedova, ma realizza di essere piuttosto lui ad avere bisogno di lei. Tenta di distrarsi supervisionando il lavoro nei campi, si lascia sedurre dal fascino delle speculazioni (che tuttavia lo portano a fare investimenti poco proficui) e infine cerca un po’ di pace e di conforto nello studio di alcuni autori classici, passando da Leopardi a Manzoni.
Trascorrono alcuni mesi e Fiora, la madre, è sempre più in allarme a causa delle stravaganze del figlio, incapace di vincere il rimorso (come provano le sue assidue – ed eccessive – visite al cimitero, sulla tomba di Michele). Finalmente, giunta l’estate, Eliseo si lascia convincere ad abbandonare per qualche tempo la campagna per concedersi una vacanza, dapprima a Milano, poi a Venezia, dove ha modo di riannodare vecchi rapporti di amicizia con la ricca famiglia Leri. Qui si invaghisce, ricambiato, della bella Sofronia Leri, una ragazza affascinante e colta, amante della poesia. Ma persino nell’amore Eliseo palesa tutta la propria inettitudine: incapace di abbandonarsi al sentimento e di immaginare per se stesso (e, di riflesso, per Sofronia) una vita felice, finisce per rimpiangere la passata solitudine, giacché, inesorabilmente, si sente «tratto in opposte direzioni da un impeto di amore e da un inesplicabile sentimento di pietà».
La sola certezza che gli resti è la madre, presso la quale – dopo essersi separato da Sofronia, andata nel frattempo in sposa a un ricco e insignificante borghese – fa ritorno senza più alcuna valida aspettativa per il futuro. Di fatto, Eliseo conduce un’esistenza impalpabile, in apparenza priva di significato, sempre più afflitta da turbamenti psichici e, in definitiva, da «una inestinguibile sete dell’Eterno». La sua vita è come corrosa, giorno dopo giorno, dalla morte, fattasi ossessione anche in conseguenza di un forte senso di estraneità rispetto a un mondo che sta cambiando (da poco è scoppiata la Prima guerra mondiale, ed Eliseo – che afferma di aver sempre preferito «l’essere puri all’essere forti» – è del tutto consapevole della propria inadeguatezza) e sembra non promettere nulla di buono.
Sempre più turbato, Eliseo incomincia ad avere visioni, e si convince di essere in contatto con lo spirito di un vecchio prozio (Alvise), morto assassinato anni addietro. Durante una seduta spiritica subisce però un forte trauma psichico, e finisce per ammalarsi. Solo le cure della madre – incarnazione di quello che potrebbe definirsi un eroico pragmatismo – lo salvano dalla morte, anche se egli potrà dirsi guarito solo dopo la dipartita di Fiora. Rimasto solo, senza genitori, con la sorella e gli amici lontani, il fratello defunto, Eliseo volge continuamente il pensiero a chi ha condiviso le sue sofferenze terrene (ai vivi e ai morti che danno il titolo al romanzo), e nella comunione di spirito con le persone care trova finalmente la tanto agognata pace interiore. «Egli visse ancora tre anni»: così si conclude, laconicamente, la narrazione, come a dire che, dopo aver scoperto Dio attraverso il dolore, l’attesa della fine non è altro che una breve parentesi temporale che separa l’uomo dall’eterno.
Eliseo, quindi, alla fine guarisce. Tutta la sua inettitudine, la sua ostinata introspezione alla ricerca di un senso delle cose, trovano uno sbocco nella contemplazione della morte quale unico rimedio al male di vivere. Tutto nella morte si chiarisce: il perché della sofferenza, il mistero dei legami affettivi, il trauma legato alla scomparsa delle persone care (le quali, seppur dall’aldilà, sono una presenza ingombrante – ma allo stesso tempo decisiva – per i vivi). Dialogando con la madre (che è molto religiosa), Eliseo ha uno sfogo che chiarisce il suo stato d’animo: «Secondo te, questa vita è un passaggio, no? Lo ammetti! Secondo te quella che conta è l’eternità, no? Ma allora, mamma mia, tutto il tempo che abbiamo sulla terra dev’essere dedicato al pensiero dell’eternità. Tutto il tempo che non si pensa alla morte è tempo sperperato, perso. È incredibile come ci se ne possa scordare un solo minuto. Perché il tempo – come dite voialtri? – il tempo è il tesoro dell’eternità».
Il senso di queste parole è evidente. Come si può essere cristiani – il protagonista vive con una madre che va a messa rigorosamente tutte le domeniche, una madre che vive di certezze, di fede, di riti – e allo stesso tempo non interrogarsi sull’aldilà, sulla fine che si trasforma in inizio, sulla morte che diviene rinascita? Eliseo pare inetto, non riesce a vivere come la maggior parte delle persone (cioè libero dall’ansia della riflessione), proprio perché non sa cosa siano la superficialità e la spensieratezza. Per lui tutto deve avere un significato, ogni cosa è in funzione di qualcos’altro. Da qui scaturisce l’insoddisfazione, quell’incapacità di sentirsi appagato che è alla base della sua sofferenza terrena. Ma il dolore – qui risiede la grande intuizione di Borgese – può avere diverse connotazioni e trasformarsi in un formidabile propulsore: «Nella buona stagione, quando la terra è prosperosa e ricca, i suoi sapori ne sorvolano la superficie, e il cielo attenuato da quell’odoroso velame appare estraneo e lontano, con le stelle che brillano piccole e capricciose. Invece, quando giunge l’inverno, sulla terra sfrondata e secca l’aria è tersa, sicché gli astri traspaiono grandi nel limpido etere e gli uomini si sentono figli del cielo. Così è nella vita di ognuno, che le cose sublimi non si vedono altro che dalla desolazione e dal dolore, quando, appassite le speranze, albeggiano le fredde certezze».
Resta dunque da chiedersi cosa trasmetta, oggi come oggi, un romanzo che insiste così a lungo sul tema della morte. Una società come la nostra, così distratta e dinamica, nella quale tutti vanno sempre di fretta, ossessionati dall’imperativo che vuole l’uomo efficiente e produttivo, sano e bello, eternamente giovane e di successo, può trovare risposte in un libro che si intitola I vivi e i morti? Alla domanda risponde Annamaria Cavalli, curatrice della più recente edizione del romanzo: «Non si deve […] escludere che i corsi e i ricorsi della storia possano indurre i lettori a riprendere tra le mani testi per un po’ dimenticati negli scaffali polverosi di una biblioteca, sottraendoli all’ingiurie del tempo e riattualizzandone il senso alla luce di nuove esigenze sociali o di diverse aspirazioni morali. […] Chi potrebbe negare, allora, che il nostro tempo, così affannato nel rincorrere sempre più perfetti prodotti tecnologici, immerso in un mercato vorace, che impone scelte solo materialistiche, non induca, per converso, nei lettori – o almeno in certi lettori – un bisogno, per così dire, ‘di ritorno’, ossia di un romanzo di idee più che di avventure, capace di rispondere ad ansie spirituali e a domande metafisiche […]?».
Eliseo è dunque dotato di una sorta di seconda vista, capace di vedere oltre i limiti tradizionalmente invalicabili per le persone comuni. Egli guarda più avanti, al di là dei confini terreni dell’esistenza: nei suoi occhi è presente «una luce affascinata come se vedesse cose invisibili agli altri». In una realtà come quella odierna, Eliseo può incarnare la necessità – forse non condivisa, o più probabilmente non ancora condivisa dalla maggioranza degli individui – di andare oltre le apparenze. Il suo – se si presta attenzione – è un messaggio di speranza per un mondo sempre più corrotto dall’indifferenza.

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venerdì 3 aprile 2015

«Fontamara»: l’eroismo della ribellione e la nobiltà del sacrificio

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 marzo 2015)

Scritto nel 1930 e apparso per la prima volta tre anni dopo in lingua tedesca, Fontamara riscosse immediatamente un notevole successo in tutta Europa, eccezion fatta per l’Italia, dove uscì solamente nel 1948. Le ragioni di questa discrepanza sono riconducibili, da un lato, all’isolamento culturale della penisola nel corso del Ventennio, giacché il romanzo – oggi considerato il capolavoro di Ignazio Silone (pseudonimo di Ignazio Tranquilli), che lo compose in Svizzera, dove si era rifugiato in esilio in conseguenza di una fervente militanza antifascista – conteneva un manifesto atto di accusa contro la prepotenza del regime di Mussolini. Ma, dall’altro, anche a una certa diffidenza della critica, che impiegò diversi anni per riconoscerne l’assoluto valore, forse convinta che si trattasse di un’opera “vecchia” e poco in sintonia – per via di quello che veniva considerato una sorta di verismo tardivo – con le tematiche più tradizionali della narrativa italiana del dopoguerra.
Fontamara (nome immaginario che Silone attribuisce ad un emblematico «luogo di contadini poveri situato nella Marsica», idealmente somigliante «a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano») è la storia delle lotte combattute dai «cafoni» per riscattarsi dalla miseria e dalle angherie dei nuovi padroni fascisti. Nella Prefazione l’autore immagina che tre di questi contadini (Giuvà, la moglie Matalé e il loro figlio) si siano recati a fargli visita in Svizzera, spinti dal bisogno di raccontare una serie di vicende tanto drammatiche quanto insolite riguardanti il comune paese d’origine. «Quello che han detto, è in questo libro», precisa Silone, che per la narrazione si avvale di una tecnica “a più voci”, alternando le rievocazioni dei tre testimoni.
La vicenda ha inizio il primo giugno di un anno imprecisato (anche se, come emergerà in seguito, siamo in epoca fascista poco dopo la Conciliazione). Fontamara si ritrova al buio, essendo stata sospesa l’erogazione dell’energia elettrica a causa dei ripetuti mancati pagamenti delle bollette. Quella sera – caso insolito per una piccola località di montagna – giunge in paese un forestiero, tal cav. Pelino, che con l’inganno riesce a far firmare una misteriosa petizione a un gruppo di contadini di ritorno dal lavoro. «È finito – egli afferma sibillino – il tempo in cui i cafoni erano ignoranti e disprezzati. Ora ci sono delle nuove autorità che hanno un gran rispetto per i cafoni e vogliono conoscere la loro opinione». Peccato però che le firme siano poste su un foglio bianco, senza ulteriori garanzie, e che la conversazione si chiuda con l’esplicita minaccia del cav. Pelino («Vi prometto che avrete presto notizie di me»), infuriato per via di alcune frasi “sovversive” incautamente pronunciate da uno dei contadini.
Le stranezze si ripetono l’indomani. All’alba, i Fontamaresi si imbattono infatti in alcuni cantonieri provenienti dal capoluogo, intenti a scavare un canale per deviare il corso del ruscello che da secoli fornisce acqua alle terre del paese. A beneficiare dell’intervento (che per gli abitanti di Fontamara costituisce una sorta di sacrilegio: «Sarebbe proprio la fine di tutto, se il capriccio degli uomini cominciasse a influire perfino sugli elementi creati da Dio») è un possidente del capoluogo, tal don Carlo Magna, un noto signorotto senza scrupoli.
Incredule, sconvolte all’idea di vedere compromessi per sempre i raccolti, le donne di Fontamara decidono di recarsi in città per protestare con il sindaco. Al loro arrivo, però, viene loro detto che il sindaco non esiste più e che al suo posto è stato nominato un podestà, un forestiero soprannominato «l’Impresario» per via del suo fiuto per gli affari. È lui, in realtà, il nuovo proprietario delle terre che beneficeranno della deviazione del ruscello, ed è a lui, perciò, che le donne devono presentare le proprie rimostranze. Giunte alla villa dell’Impresario, esse vi trovano i notabili della città riuniti a banchetto. Tra questi è don Circostanza, ex sindaco, detto «l’amico del popolo», che si offre di favorire una mediazione: «Bisogna lasciare al podestà i tre quarti dell’acqua del ruscello e i tre quarti dell’acqua che resta saranno per i Fontamaresi. Così gli uni e gli altri avranno tre quarti».
Seguono giorni di incertezza. I Fontamaresi non sanno in che consista l’accordo, ma sono tutti concordi nel presagire l’ennesima truffa. Il più rassegnato è Berardo Viola, il protagonista della seconda parte del romanzo, un poveraccio ridotto allo stato inferiore di bracciante da una serie di sfortunate avversità. Il suo pensiero è tipico di chi non ha più nulla da perdere: «Mettetegli fuoco alla conceria e vi restituirà l’acqua. E se non capisce l’argomento, mettetegli fuoco al deposito di legnami. […] E se è un idiota e continua a non capire, bruciategli la villa, di notte, quando è a letto con donna Rosalia». I padroni – secondo Berardo – prestano attenzione solo al profitto: ergo, per farsi ascoltare è inutile perdersi in ragionamenti e argomentazioni. Occorre ledere gli interessi materiali di chi, solo, ha il potere di cambiare le cose.
I fatti che seguono, in effetti, sembrano dare ragione a Berardo. A Fontamara sopraggiunge il cursore del comune, Innocenzo La Legge, il quale dispone che per ordine del podestà venga affisso nella cantina del paese un cartello recante la scritta «In questo locale è proibito parlare di politica», subito corretta – per via dell’ignoranza dei Fontamaresi, che non sanno distinguere cosa sia politica e cosa invece no – in «Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti». I contadini non hanno idea del perché del provvedimento, ma è evidente che Fontamara è finita nel mirino delle autorità quale presunto focolaio di sovversione.
Tutto risulta ad ogni modo più chiaro allorché, qualche tempo dopo, i cafoni di Fontamara sono invitati a prendere parte a una manifestazione ad Avezzano, dove le autorità – così viene fatto loro credere – intendono discutere di una nuova spartizione delle terre del Fucino. Prima di salire sul camion che li porterà in città, ai contadini viene chiesto di munirsi del gagliardetto, ma essi, ignorando del tutto cosa sia, portano con sé lo stendardo di San Rocco, patrono del paese. All’arrivo ad Avezzano, i Fontamaresi sono accolti con disprezzo dalle autorità fasciste e persino dal prete; sono poi condotti nella piazza centrale, con l’istruzione di gridare «Evviva» al passaggio delle personalità (tra cui il ministro) che sfilano in successione. Terminata la manifestazione, nessuno sembra disposto a dare udienza alla delegazione dei Fontamaresi: la loro presenza è infatti servita solo per ingrossare la folla plaudente. Come sempre i contadini protestano, chiedono di essere ricevuti dal ministro, ma infine don Circostanza spiega loro che le terre sono state assegnate a chi ha i capitali per farle fruttare al meglio. Prima di rientrare a Fontamara – nel frattempo si è fatto tardi e il camion è partito senza aspettarli –, i cafoni sono avvicinati da un presunto «nemico del Governo» (che in realtà è un poliziotto in incognito), ma sono messi in guardia da un ragazzo e riprendono a piedi la via di casa.
Nei giorni seguenti si verificano però altre stranezze. Su ordine dell’Impresario viene costruita una staccionata di legno per recintare un «pezzo di tratturo», una fascia di suolo pubblico adibita al transito delle greggi. Per i Fontamaresi è l’ennesima beffa, e infatti la staccionata viene data due volte alle fiamme. Ma le autorità non si lasciano certo intimidire, e anzi reagiscono con una spedizione punitiva di camicie nere che si abbatte sulle donne inermi del paese. Nel frattempo il ruscello viene deviato (a Fontamara non resta che un rigagnolo), col risultato che la popolazione sprofonda ancor più nella miseria. Berardo Viola sembra il solo determinato a reagire: avute cento lire in prestito da Giuvà, lascia il paese in compagnia del figlio di quest’ultimo per recarsi a Roma in cerca di lavoro. Vuole infatti mettere da parte qualche lira per acquistare un po’ di terra da coltivare a Fontamara e potere finalmente sposare Elvira, la ragazza di cui è da sempre innamorato.
Nella capitale, però, i due Fontamaresi sono nuovamente truffati e sballottati da un ufficio all’altro: dopo tante rassicurazioni, vengono infine respinti in quanto il certificato rilasciato dal podestà per Berardo reca la dicitura «condotta pessima da punto di vista nazionale». Sembra la fine di tutto, ma poco prima di salire sul treno di ritorno i due cafoni sono avvicinati da un sovversivo (che è lo stesso ragazzo che li aveva messi in guardia ad Avezzano) e convinti ad entrare in una taverna per mangiare un boccone. Qui però, con un pretesto (viene trovato un pacco di giornali contrari al regime), sono arrestati e tradotti in carcere.
Nella notte in cella Berardo stringe amicizia con il ragazzo, e l’indomani – tra lo stupore generale – si autoaccusa di essere il «Solito Sconosciuto», ovvero lo stampatore anonimo e ricercatissimo responsabile della diffusione della stampa clandestina. Torturato dai carcerieri, Berardo viene a sapere che il giovane avezzanese (che l’ha convinto a schierarsi apertamente contro il fascismo) è stato liberato. Sta per cedere, quando gli mostrano un giornaletto con la scritta «Viva Berardo Viola», il racconto di tutti i soprusi subiti dagli abitanti di Fontamara e la tragica notizia della morte di Elvira. A quel punto non ha più dubbi: sarà «il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri».
Pochi giorni dopo il corpo di Berardo viene trovato appeso all’inferriata della sua cella (suicidio inscenato), e il figlio di Giuvà è rimesso in libertà. Nel frattempo a Fontamara tutti sanno della sorte di Berardo grazie alle notizie fatte trapelare dal Solito Sconosciuto. Su indicazione di quest’ultimo viene dato alle stampe e distribuito un foglio di battaglia dal titolo «Che fare?», che deve essere «il giornale dei cafoni, anzi, il primo giornale dei cafoni». Si tratta del primo passo verso la maturazione politica di un’intera comunità: un passo che tuttavia costa a Fontamara un nuovo, mortale assalto delle squadre fasciste. Si salvano solo in pochi, tra cui i tre narratori, decisi a offrire la propria drammatica testimonianza. Nel loro bisogno di raccontare si rinfocola l’altruismo di Berardo, autore di un gesto estremo, disperato, folle, che consente ai sopravvissuti di acquisire piena coscienza della propria dignità.

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mercoledì 25 marzo 2015

Fernando Losavio: intellettuale poliedrico, integralista della poesia

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 marzo 2015)

Fernando Losavio è certamente un autore non troppo noto al grande pubblico. Di padre pugliese e di madre lombarda, nasce il 22 maggio 1896 a Milano e si laurea a Pavia nel 1919 con una tesi sul movimento artistico-letterario della Scapigliatura. Divenuto insegnante, nel 1924 ottiene una cattedra di Lettere presso il Liceo Scientifico Alessandro Tassoni di Modena, capoluogo nel quale si stabilisce definitivamente (e dove sposa nel 1930 Elvira Sabbatini) sino alla morte, sopraggiunta il 2 febbraio 1979.
Losavio è essenzialmente un poeta con la passione per la critica: ama cioè la composizione in versi (in tutto, tra il 1932 e il 1965 pubblica ben sette raccolte di poesie), ma firma anche numerosi articoli e recensioni – nei quali dà prova di acume e originalità –, oltre a tenere una fitta corrispondenza con esponenti di spicco del mondo della cultura. Egli è quindi, a tutti gli effetti, un intellettuale poliedrico, dai mille interessi, capace di suggerire diversi spunti di riflessione.
Al riguardo, è senz’altro meritorio un recente volume intitolato Le voci della poesia. Versi e pagine critiche (a cura di Jean Robaey, Edizioni Artestampa 2014), che – si legge sulla quarta di copertina – «ospita una larga scelta, in parte inedita, di poesie, interventi critici, prose e lettere di Fernando Losavio». Si tratta di una raccolta che intende sostanzialmente presentare il curriculum letterario di un autore di cui – è facile presumere – i più conoscono a malapena il nome. Non siamo quindi di fronte ad un percorso lineare: dalle pagine curate da Robaey emerge infatti un Losavio dai mille volti, che alterna componimenti in versi, riflessioni su Dante, Foscolo e Pascoli, ricordi e brevi prose contenenti dichiarazioni di poetica.
Conviene ora passare alla lettura di qualche pagina. Ed essendo Losavio principalmente un poeta, pare logico partire da una poesia. A modesto parere di chi scrive, uno dei componimenti più riusciti è Morte in vita: «Due volte io dovrò morire. / La prima volta, quando / si spegneranno i canti entro di me; / la seconda col rantolo e coi moti / delle mani a respingere la coltre. / Tra due morti sarà la morte in vita».
La poesia è chiaramente divisibile in due parti. Alla premessa (nella quale l’autore precisa cosa intenda per doppia morte: in un caso la fine dell’ispirazione poetica, nell’altro la fine della vita) segue una conclusione di non immediata lettura. Cosa vuole dire, infatti, Losavio, quando scrive che «Tra due morti sarà la morte in vita»? Le interpretazioni possibili sono molteplici. La più ovvia suggerisce che un’esistenza priva di poesia sarebbe del tutto mortificante, al pari di una vita che non merita di essere vissuta. Ma c’è dell’altro. Losavio si dice infatti certo della fine – non si sa quanto prossima – della propria ispirazione poetica: «dovrò morire», non ci sono cioè speranze di evitare questo destino. Il che equivale, in sostanza, a dire che si vive poeti (anche perché, verrebbe da aggiungere, la poesia aiuta a vivere meglio) e si muore uomini, senza possibilità di scorgere nel momento estremo altro che non sia un senso di vuoto (il nulla?).
Losavio, a ben vedere, sta parlando anche della sua solitudine, giacché la morte è l’esperienza più individuale che si possa contemplare. Dinanzi al baratro della fine, l’uomo è solo con se stesso (al riguardo, si legga questo brevissimo componimento, intitolato Or m’è caduto: «Sul ciglio d’un burrone son vissuto; / le lusinghe del cielo e della terra / accogliendo nell’anima sognante. / Or m’è caduto l’occhio sul burrone»). Nulla di strano, perciò, se la poesia – che è prima di tutto sentimento – coincide con un impietoso sguardo interiore che va alla ricerca di ciò che è fonte di turbamento e mette a nudo ogni umana fragilità.
Si consideri un’altra poesia (Vicino): «Ho conosciuto un uomo, / che usciva – falce in pugno – nella notte, / nel più bel lume di luna sul mondo / e raggiungeva il campo tutto solo. / Poi, chinato sul folto delle spighe, / aggrediva muraglia delle spighe / e falciava falciava tutto solo / nel più bel lume di luna sul mondo. / Per risparmiare sulla mano d’opera / si dannava al lavoro. / E rientrava in casa a notte fonda, / prostrato – e nell’anima e nel corpo. / Chi risolleva quel fantasma in me? / Stanchezza va a la cerca di stanchezza. / Dolore chiama dolore. / Solitudine invoca solitudine. / Io mi sento vicino / al mio massaro / che falcia nella notte».
C’è un forte senso di spossatezza in questi versi. Il poeta si paragona al massaro che di notte «si dannava al lavoro», e avverte su di sé il peso di un’esistenza che tende a farsi sempre più ingombrante, faticosa. Stanchezza, solitudine e dolore: tre parole per esprimere la frustrazione che scaturisce dalla ripetizione meccanica di gesti ordinari, perché la vita spesso si riduce a questo, alla costante e snervante riproposizione di gesti rituali, di per sé insignificanti. Come un massaro che nella notte, solo, aggredisce ripetutamente «la muraglia delle spighe» e prima o poi sarà sopraffatto dal proprio lavoro, così il poeta è consapevole che anche il mestiere di scrivere potrà diventare, un giorno, alienante. Forse egli, in questi versi, realizza di aver scritto troppo, di avere ceduto incondizionatamente al desiderio di riempire pagine su pagine, di non essere stato in grado di porsi un limite. E si sente inevitabilmente oppresso dal suo mondo interiore, che sta fagocitando quello esteriore.
La poesia appena letta consente di porre l’accento su una peculiarità piuttosto evidente dell’opera di Losavio: i suoi componimenti tendono cioè a concludersi con uno o più versi che rompono l’armonia e la linearità di quelli precedenti. La poesia segue un percorso perfettamente razionale, ma poi termina in modo brusco, come se volesse colpire il lettore con una sferzata. «Io mi sento vicino / al mio massaro / che falcia nella notte»: sono i tre versi decisivi, che danno il senso dell’intero componimento; ma sono anche quelli più ostici, difficili da decifrare. Sembra quasi che Losavio non voglia dare sicuri punti di riferimento. E probabilmente è proprio così, come risulta dalla lettura di un passo critico (riguardante i Sepolcri del Foscolo), nel quale egli sostiene che «una poesia che è compresa da molti, che è compresa da tutti, alla fin fine poesia non può essere».
La poesia, in altre parole, non deve fare troppe concessioni all’oratoria (che abbonda, invece, nei Sepolcri, giudicati per questo da Losavio «un’opera [non] di alta poesia»), e – paradossalmente – se vuole essere poesia di qualcosa, se vuole comunicare, deve confondere, porre interrogativi, lasciare dei dubbi. Il che, si badi, non significa abbandonarsi all’irrazionale – giacché la poesia, al contrario, è profonda riflessione –, bensì accettare la sfida di provare a cogliere tutti i possibili significati che si celano dietro un verso. Losavio, del resto, è convinto che la poesia sia «estatica contemplazione estranea ai fanciulli, i quali sono dotati di immaginazione, che è facoltà inventiva, e non di fantasia che è facoltà creativa». La poesia, dunque, è destinata alle menti che accettano di mettersi in gioco, a coloro che non hanno certezze e che sono consapevoli che «la fantasia non è dei fanciulli, è delle persone adulte».
Solo in questo modo, a ben vedere, la poesia acquista una sua indipendenza rispetto all’autore. Un verso ben scritto, capace di stimolare, emozionare o provocare, resiste a tutto, alla morte dello scrittore, ai cambiamenti sociali e alle mode. Losavio esprime questo concetto in due brevi componimenti, intitolati rispettivamente Di non so dove («I canti degli uccelli / son voci scorporate, / balenanti ne l’aria / di non so dove giunti. / Così vorrei che fossero / i miei canti. La mia / persona dileguata; / solo insistente il canto / di non so dove sorto») e Godo («Godo che l’arte mia / si faccia sempre più – / – squallida e sola»). Il senso di queste parole è chiaro: come precisa in una prosa a proposito di Leopardi, per Losavio «il poeta è tutto nel suo canto». Nulla ha valore al di fuori del verso, il quale – al pari del canto di un uccello – deve provenire da un soggetto che non si mostra, che si eclissa per lasciar posto alla sola sua voce.
Con tutta evidenza, siamo di fronte ad una ben precisa e impegnativa dichiarazione di poetica. Dichiarazione che è precisata da queste significative parole: «Io ho sempre considerato fortunatissimi quei poeti della cui vita non si sa nulla, assolutamente nulla, e fortunato in modo particolare Omero, di cui si può mettere in dubbio perfino l’esistenza, ma non quella dei due poemi attribuitigli». Losavio è quindi sostanzialmente un integralista della poesia, per il quale il mondo che sta alle spalle del verso è destinato inesorabilmente a dissolversi. La poesia, e solo la poesia, è per lui la più autentica forma d’arte che possa prendere consistenza su una pagina.

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lunedì 9 marzo 2015

«I morti»: l’effetto paralizzante delle convenzioni sociali e l’importanza di ragionare fuori dagli schemi

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 marzo 2015)

I morti è l’ultimo racconto di Gente di Dublino, celebre raccolta di novelle che James Joyce pubblicò nel 1914. Si tratta, in sostanza, della storia di un’epifania: ciò che dapprima appare reale, consolidato ed immutabile, viene stravolto da una sconcertante rivelazione, che schiude gli occhi – fino ad allora incapaci di vedere oltre le confortanti apparenze – dell’ignaro (e per certi versi colpevole) protagonista. Alla fine, nulla è come sembra, e l’irrompere improvviso della verità altro non è che il preludio a un implacabile destino di morte.
La vicenda si svolge nel corso delle feste natalizie: le sorelle Morkan (Julia e Kate), che vivono a Dublino in compagnia della nipote Mary Jane, hanno organizzato – come da tradizione – una sontuosa cena unita al consueto ballo annuale, invitando amici e parenti. Tra questi spicca Gabriel Conroy, altro nipote delle padrone di casa, accompagnato dalla moglie Gretta: egli è, di fatto, il protagonista della serata, cui spetta tra l’altro (oltre a quello di controllare che Freddie Malins, un invitato con il vizio del bere, non alzi troppo il gomito) il prestigioso compito di tagliare l’oca e di tenere il discorso conclusivo, di commiato e di ringraziamento.
Al suo arrivo, Gabriel è accolto da Lily, la figlia del custode: si tratta di una ragazza all’apparenza insignificante, eppure, nell’economia del racconto, svolge l’importante funzione di aprire simbolicamente le porte di un secondo mondo, diverso da quello di tutti i giorni e senza dubbio più minaccioso. Sin dalle prime pagine, infatti, è evidente il disagio di Gabriel, costretto ad avvertire se stesso come un estraneo, incapace di farsi coinvolgere dall’apparente spensieratezza della festa. A Lily, che gli dice di aver da poco terminato gli studi, egli domanda se si senta ormai prossima alle nozze; ma la ragazza lo spiazza («Gli uomini di adesso fanno tante promesse, ma mirano solo ad approfittarsene»), arrecandogli un profondo senso di tristezza, da cui non riuscirà più a liberarsi per tutto il resto della serata. Le parole della giovane – dure e inaspettate – fungono di fatto da anticipazione del drammatico epilogo, nel quale l’inadeguatezza di Gabriel (in primis come marito, ma in definitiva come persona) si manifesterà in modo altrettanto inatteso.
L’intero racconto, a ben vedere, si svolge secondo questo sottile gioco di rimandi e allusioni, al punto che quasi sempre la descrizione di alcuni vezzi del protagonista finisce per acquisire un preciso significato simbolico. In quest’ottica, Gabriel appare spesso come una sorta di pesce fuor d’acqua, il che è confermato anche dal suo bizzarro modo di vestire. «Non indovinereste mai cosa mi fa portare adesso!», protesta scherzosamente Gretta, parlando con le zie del marito: «Le galosce! […] Questa è la sua ultima trovata. Non appena c’è un po’ di bagnato per terra, mi obbliga a metterle. Anche stasera voleva che me le mettessi, ma io mi sono rifiutata. Scommetto che tra un po’ mi comprerà anche una tuta da palombaro».
Anche in quella che sembrerebbe una normale scaramuccia tra marito e moglie Joyce vuole seminare un indizio: tra i due, cioè, l’armonia è solo di facciata, giacché Gabriel e Gretta sono incapaci di comunicare tra loro, si comportano in tutto e per tutto come attori. La cena stessa, del resto, è una grande recita, nella quale ogni commensale deve attenersi alla sua parte, curandosi di non uscire dagli schemi dettati dalle rigide convenzioni sociali. Il ballo, il rito del taglio dell’oca, il discorso: tutto è studiato secondo un copione, all’interno del quale, però, riescono ad insinuarsi alcuni elementi di disturbo. Il più evidente è rappresentato senz’altro dall’ingombrante figura di Miss Ivors, una fervente nazionalista che prima critica aspramente Gabriel per il fatto che egli tenga una rubrica letteraria sul «Daily Express» (giornale filo-inglese), poi avventatamente propone a Gretta di unirsi a lei per un viaggio nelle isole Aran (luogo simbolo di “irlandesità”), creando un po’ di imbarazzo poiché, a fronte del favore che incontra presso la signora Conroy, la proposta non entusiasma affatto Gabriel, decisamente più attratto dall’Europa continentale.
Con tutta evidenza, in questa immagine dell’intellettuale che mal sopporta una certa mentalità – gretta, chiusa in se stessa, nazionalistica nel senso più banale e riduttivo del termine – largamente diffusa nel proprio paese c’è molto di Joyce, il quale intende appunto soffermarsi sul senso di fastidio che Gabriel avverte ogniqualvolta si trova costretto ad ammettere (prima di tutto a se stesso) la propria incompatibilità con il mondo che lo circonda. Il punto infatti è questo: in che misura una vita può dirsi autentica, se non è condivisa intimamente con nessuno? Gabriel ancora non si rende pienamente conto della profonda solitudine che lo attanaglia, e per questo – a dispetto dei continui segnali che riceve da più parti – ignora, o forse finge di non vedere, la drammatica insignificanza della sua esistenza.
Per il lettore, tuttavia, è tutto molto diverso, giacché nel corso del racconto i riferimenti al concetto della morte – preludio, s’intende, alla disgregazione dell’identità del protagonista – sono numerosi. Si pensi infatti al quadro raffigurante Romeo e Giulietta che adorna la parete sopra il pianoforte, oppure alla canzone Ornata per le nozze intonata dall’anziana zia Julia (immagine, questa, che alla fine della novella farà riflettere Gabriel, il quale, ripensando alla serata appena trascorsa, commenterà: «Povera zia Julia! Anche lei sarebbe presto diventata un’ombra»), o ancora alla rievocazione dei cantanti defunti: ogni singolo dettaglio sembra caricarsi di un significato che travalica il senso letterale della narrazione. Lo stesso discorso conclusivo di Gabriel (retorico ed incentrato sulla lode – scontata – dell’ospitalità delle padrone di casa) affronta, tra le altre cose, il tema della morte: «In riunioni come questa, ritornano sempre alla memoria anche i ricordi più tristi: ricordi del passato, della giovinezza, dei mutamenti e dei visi delle persone scomparse di cui sentiamo stasera la mancanza».
Giunto il momento dei saluti, Gabriel è come folgorato da una visione: Gretta si trova in cima alle scale, e pare rapita da una melodia che proviene dalla stanza del pianoforte, dove un ospite sta infatti intonando una vecchia canzone irlandese. «Vi era della grazia e del mistero in quel suo atteggiamento, come fosse un simbolo di qualcosa. E si domandò che simbolo poteva essere quello di una donna in piedi sulle scale in ombra, intenta ad ascoltare una musica lontana. Se fosse stato un pittore l’avrebbe ritratta in quella posizione».
Rientrati in albergo, però, i coniugi Conroy provano un forte senso di reciproco disagio. Gabriel desidererebbe la moglie, ma Gretta si tiene a distanza, e infine scoppia in lacrime. Non riesce a togliersi dalla mente la canzone che ha udito alla festa: una canzone (intitolata La fanciulla di Aughrim) che le ricorda un ragazzo conosciuto anni addietro, quando ancora era una ragazza e viveva con sua nonna a Galway. Alla rivelazione della moglie, Gabriel rimane impietrito, roso com’è dalla gelosia. Ma Gretta subito chiarisce: il ragazzo, di nome Michael Furey, è morto di malattia in giovane età, anche se la donna si sente responsabile della sua fine («Credo che sia morto per me»).
Gabriel, che si sente oramai sconfitto, vuole sapere di più. E la moglie lo accontenta, raccontando che la sera prima di partire per Dublino il ragazzo le aveva fatto visita pur essendo molto malato, sfidando la pioggia. «Lo implorai di tornare subito a casa e gli dissi che sarebbe morto con quella pioggia. Ma lui disse che non voleva più vivere. […] una settimana dopo il mio arrivo in collegio venni a sapere che era morto».
Terminato il drammatico sfogo, Gretta si addormenta, lasciando Gabriel solo con i suoi pensieri. Egli comprende che l’intera sua vita non è stata altro che un’illusione, una menzogna, una commedia nella quale nemmeno la moglie ha rinunciato a recitare la propria parte. Gabriel è cioè a tutti gli effetti un morto, un’identità che si è sgretolata per sempre. «E pian piano l’anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo e stancamente cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e tutti i morti».
Il paradosso, per Gabriel, è che agli occhi della moglie egli si scopre più morto di un defunto. Michael Furey, infatti, sopravvive poiché ha vissuto una vita autentica e ha saputo donare se stesso, condividendo i propri sentimenti con la persona che amava. Con tutta evidenza, quello di Joyce è un duro attacco alle convenzioni sociali, che rischiano di trascinare gli uomini in un mondo dominato dalle formalità, impalpabile come la neve che cade indistintamente sui vivi e sui morti. Quante volte, infatti, ci si sforza di assumere pose artefatte solo per assecondare un ben definito e preordinato modo di essere. Vale la pena vivere così? Chiudersi in se stessi e fingere di poter fare a meno della spontaneità, un po’ come accade quando si prende parte a una cena elegante? Gabriel, alla fine, è costretto ad ammettere che tutta la sua vita è stata un fallimento: egli si è sempre frenato (ed è significativo che tra i suoi compiti alla festa vi sia proprio quello di contenere l’esuberanza di Freddie Malins), non ha mai ragionato fuori dagli schemi. Ed è diventato una squallida marionetta.

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mercoledì 4 marzo 2015

«Il visconte dimezzato», l’illusione della completezza dell’animo umano

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° marzo 2015)

«Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra».
Con queste parole Italo Calvino presentava il suo romanzo a trent’anni di distanza dalla prima edizione: era infatti il 1983, e lo scrittore ligure rilasciava un’intervista nella quale intendeva fornire una chiave di lettura de Il visconte dimezzato, uscito presso Einaudi nel 1952 e nel frattempo divenuto celebre. In sostanza, Calvino è affascinato dal tema del doppio, dall’idea cioè – che si lega a una ben delineata tradizione letteraria, facente capo per lo più a Lo strano caso del dr. Jekyll e di Mr. Hyde di Stevenson – che in ogni uomo coesistano due nature, tra loro antitetiche ma imprescindibili l’una per l’altra. Il romanzo, però, non è una trattazione scientifica, e quindi occorre tenere ben presenti le legittime aspettative del lettore, che desidera “divertirsi” pagina dopo pagina, a prescindere dal significato più profondo che l’autore intende trasmettere. «Io penso che il divertimento sia una cosa seria», conclude Calvino, sottintendendo con ciò che compito della narrativa è far riflettere attraverso il racconto di una storia, fermo restando che i livelli di lettura sono di fatto soggettivi. 
Il romanzo si apre con una scena militare: accompagnato dal suo scudiero Curzio, il visconte Medardo di Terralba giunge all’accampamento cristiano in Boemia, nel corso di una guerra contro i turchi. L’indomani, allorché prende parte alla sua prima battaglia, viene colpito in pieno petto da una palla di cannone, restando in terra «orrendamente mutilato». Del visconte resta intatta una sola metà del corpo (la destra), prontamente medicata, fasciata e ricucita dai medici dell’ospedale da campo. «Adesso era vivo e dimezzato», conclude il narratore – ovvero un giovane nipote di Medardo, di cui non viene rivelato il nome –, sancendo di fatto il passaggio ad un racconto di tipo fiabesco, caratterizzato dalla libera fusione di elementi realistici e fatti inverosimili.
Il racconto riprende con il ritorno del visconte a Terralba. Ma il Medardo rientrato dalla guerra non è quello che la gente ricorda. In breve, i sudditi sono costretti a prendere atto del fatto che del loro signore è sopravvissuta solo la parte malvagia, che ama sbizzarrirsi perpetrando le più assurde nefandezze. Racconta infatti il nipote narratore: «Dove si sentiva il rumor di zoccoli del suo cavallo tutti scappavano […] e portavano via i bambini e gli animali, e temevano per le piante, perché la cattiveria del visconte non risparmiava nessuno e poteva scatenarsi da un momento all’altro nelle azioni più impreviste e incomprensibili». Medardo, in effetti, è irriconoscibile: dapprima taglia in due un’averla inviatagli dal padre – che l’aveva addestrata a volare nelle stanze del figlio –, causando la morte di crepacuore dell’anziano genitore; poi offre funghi velenosi al nipote, taglia a metà piante e animali, fa costruire una sofisticata forca multipla per l’impiccagione di semplici bracconieri e «per appender dieci gatti alternati ogni due rei», appicca il fuoco a fienili e abitazioni, opprime gli ugonotti residenti a Col Gerbido e condanna la vecchia balia Sebastiana – colpevole di averlo più volte rimproverato – all’esilio tra i lebbrosi, nella comunità di Pratofungo.
Nel frattempo il nipote del visconte – che ha pure trovato modo di fare visita a Sebastiana, scampata al contagio grazie alla perfetta conoscenza delle erbe curative – trascorre buona parte delle sue giornate in compagnia del dottor Trelawney, un medico inglese naufragato nei pressi di Terralba dopo essere stato a lungo membro dell’equipaggio dell’esploratore James Cook. I due conducono stravaganti ricerche sui fuochi fatui, appostandosi di notte nei cimiteri e girovagando tra i boschi: di fatto, si interessano di tutto meno che della medicina e dei metodi per curare gli esseri umani, e sono ben consapevoli di dover mantenere il più possibile le distanze dal visconte.
Questi è ormai per tutti una seria minaccia. E quando si invaghisce della pastorella Pamela, la giovane è ben consapevole del pericolo che corre, e lo respinge. Per tutta risposta, Medardo infierisce sui suoi genitori, convincendoli a concedere la mano della figlia: ma Pamela, determinata a tenere duro, abbandona la famiglia e fugge nei boschi.
Poco dopo avviene il colpo di scena: nei pressi di Pratofungo, il visconte fa visita al nipote, intento a pescare anguille, e lo salva dal morso di un ragno velenoso. In breve, i gesti magnanimi di Medardo si moltiplicano (aiuta bambini e povere vedove, elargisce doni, si prende cura degli animali, soccorre i lebbrosi…), finché gli abitanti di Terralba non realizzano che del visconte è ritornata anche la metà buona (la parte sinistra), anch’essa evidentemente salvatasi per miracolo in terra di Boemia. Il risultato è che ora esistono due versioni di Medardo: il Gramo, responsabile degli atti di malvagità, e il Buono, altruista fin all’eccesso.
Per ironia della sorte, anche quest’ultimo si innamora di Pamela, ma al pari del Gramo è respinto. Alla fine, tuttavia, l’insistenza ostinata delle due metà del visconte ha la meglio sulla resistenza della ragazza, la quale acconsente al matrimonio, pur prendendosi gioco dei maldestri tentativi dei due Medardo (il Gramo, infatti, aveva fatto pressioni sulla madre di Pamela perché convincesse la figlia a sposare il Buono, con l’intento poi di rivendicare come propria la futura moglie di Medardo di Terralba; il Buono aveva invece confessato al padre di lei di voler abbandonare le proprie terre, così che Pamela potesse sposare il Gramo. Risultato: quest’ultimo si convince di poter sposare direttamente Pamela, senza ricorrere al suo iniziale stratagemma, mentre il Buono – rincuorato dalla giovane, che gli assicura di volerlo come marito – ritorna sulla sua decisione per non farle un torto). L’equivoco si scioglie ovviamente il giorno delle nozze: indispettito, il Gramo sfida il Buono a duello, ma entrambi si feriscono nel punto in cui erano stati suturati dopo l’incidente della palla di cannone. Solo l’intervento provvidenziale del dottor Trelawney salva il visconte, le cui metà vengono ricucite e fasciate in modo da combaciare nuovamente l’una con l’altra. «Finalmente avrò uno sposo con tutti gli attributi», commenta infine soddisfatta Pamela.
Il romanzo si chiude con l’addio del dottor Trelawney, che riprende il suo posto nell’equipaggio di James Cook senza aver avuto modo di salutare il nipote di Medardo, distrattosi nei boschi. Queste le parole conclusive del giovane narratore: «Lo seppi troppo tardi e presi a correre verso la marina, gridando: “Dottore! Dottor Trelawney! Mi prenda con sé! Non può lasciarmi qui, dottore!”. Ma già le navi stavano scomparendo all’orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui».
L’aspetto più interessante del romanzo di Calvino è il giudizio, sostanzialmente negativo, che il narratore dà del Buono: «Con questo esile figuro ritto su una gamba sola, nerovestito, cerimonioso e sputasentenze, nessuno poteva fare il piacer suo senz’essere recriminato in piazza suscitando malignità e ripicche». Il senso di questa presa di posizione non è immediato: perché mai, infatti, gli abitanti di Terralba dovrebbero mal sopportare una persona che sa dire e fare esclusivamente del bene, tanto da convincersi – come si comincia a dire in paese – che «delle due metà è peggio la buona della grama»? A pensarci bene, il motivo è ovvio: siccome non esistono persone a lui simili, il Buono è una presenza ingombrante, in quanto funge da specchio che riflette in continuazione il male che è radicato in ogni essere umano. Ben diversa, infatti, è la condizione del Gramo, il quale è sì l’incarnazione di tutto ciò che spaventa, ma proprio per questo è tenuto a distanza, non penetra nelle coscienze. Delle due metà del visconte, una incute timore per il male che può portare dall’esterno, l’altra terrorizza per il male che disvela all’interno di ogni singolo individuo.
Calvino, in altre parole, ci sta dicendo che nell’animo umano convivono opposte nature, compresa una componente maligna che è bene esplorare a fondo, se vogliamo realmente capire chi siamo. Nessuno sarà mai un intero, non esistono Grami e Buoni, giacché in ogni persona il tendere al bene o al male sarà sempre imperfetto, incompleto, incompiuto. Anche la metà buona di Medardo ne è consapevole, come sottolinea in occasione di un colloquio con la futura moglie: «O Pamela, questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro».
Al riguardo, il finale del romanzo è significativo. Anche il narratore, osservatore distaccato delle disavventure dello zio, si ritrova dimezzato («Io invece, in mezzo a tanto fervore d’interezza, mi sentivo sempre più triste e manchevole. Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane»), abbandonato dall’amico dottor Trelawney, costretto a vivere in un mondo non più fiabesco – fatto di illusioni (si noti che le ultime due parole del romanzo sono «fuochi fatui») e di responsabilità –, dove tutto è incompleto e niente dà certezze.

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domenica 22 febbraio 2015

«Tre croci»: l’alto valore simbolico di un gesto di pietà

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 febbraio 2015)

Federigo Tozzi scrisse Tre croci di getto, in poco più di due settimane, nell’autunno del 1918. Il romanzo uscì tuttavia due anni dopo – proprio nei giorni della morte dell’autore (che nel 1920 aveva appena trentasette anni), occorsa a causa di una forte polmonite – e riscosse subito un notevole successo, tagliando in breve il traguardo delle diecimila copie vendute. Oggi di quella favorevole accoglienza da parte del pubblico dei lettori resta assai poco, ed è sufficiente sfogliare una qualsiasi storia della letteratura per constatare che a Tozzi sono dedicate poche pagine (davvero troppo poche, verrebbe da aggiungere). A cosa è dovuta questa sostanziale caduta nell’oblio?
Carlo Cassola – che a Tozzi ha dedicato pagine bellissime – pone l’accento in particolare sul presunto regionalismo dello scrittore senese, amante in effetti dei toscanismi e spesso legato a un mondo (quello della sua città natale) da più parti considerato angusto, chiuso in se stesso. Ma la verità è che «Tozzi vede la condizione umana al di fuori di ogni schema» e «ha la vista troppo più acuta di quella degli uomini di cultura». Nelle sue pagine ogni aspetto dell’esistenza diviene problematico, in una perenne tensione – si potrebbe dire – tra l’essere, il dover essere e il voler essere che fa dei personaggi uno strumento perfetto per indagare «la verità sulla vita».
Tre croci è la storia dei tre fratelli Gambi – Giulio, Niccolò ed Enrico –, proprietari di una libreria a Siena che, aperta in origine dal padre, ormai da tempo non frutta più alcun guadagno. Rosi dall’abulia, malati di gotta e incapaci di risollevarsi economicamente, per scongiurare il fallimento essi hanno architettato una truffa ai danni del cavalier Nicchioli (loro amico e cliente), falsificando la sua firma su diverse cambiali. A orchestrare il tutto è Giulio, il più intelligente dei tre fratelli, per il quale, col tempo, l’odioso stratagemma finisce per diventare un’abitudine, tanto che – scrive Tozzi – «lo preoccupava piuttosto per la puntualità che ci voleva». Seppur profondamente turbato dalla propria condotta, egli pareva «perfino lusingato che ormai da tre anni la cosa andasse bene: avevano preso più di cinquantamila lire senza destare alcun sospetto, e il cavaliere Orazio Nicchioli, che aveva fatto da vero il favore di firmare qualche cambiale, non indovinava ancora niente. Seguitava sempre ad essere il loro amico, e ad andare alla libreria tutte le sere; a fare la chiacchierata».
Pur non avendo il denaro per estinguere il debito, i tre fratelli si sforzano di vivere come se il problema non esistesse, e non confessano nulla alla moglie di Niccolò (Modesta) e alle loro due nipoti (Lola e Chiarina). Di fatto, però, essi conducono un’esistenza passiva, nella lunga, snervante attesa che accada l’inevitabile e il male trascini tutti nel baratro. Più che vivere, i Gambi sopravvivono, tirano avanti nauseati da tutto ciò che li circonda, incuranti del rischio di venire travolti dallo scandalo che si diffonderebbe se venisse scoperta la loro truffa. Il risultato è che le giornate trascorrono nella più totale indifferenza, con Giulio che conversa educatamente con gli studiosi che frequentano la libreria e dà a tutti l’impressione di avere la testa sulle spalle; con Niccolò che, stravagante e imprevedibile, soggetto a frequenti scatti d’ira eppure incline alle burle, si distrae godendosi pasti raffinati; ed Enrico che, inetto, burbero e abituale frequentatore dell’osteria, trascorre in bottega (una legatoria posta accanto alla libreria di famiglia) il minor tempo possibile poiché, anche se non lo ammette apertamente, detesta il suo lavoro.
Il dramma dell’intera famiglia Gambi consiste nell’impossibilità di vivere in libertà, giacché tutti e tre i fratelli sono inesorabilmente prigionieri della menzogna di cui sono gli unici responsabili. Giulio, preso dallo sconforto per una situazione fattasi insostenibile, si rende conto di tutto ciò quando, nella seconda parte del romanzo, inizia a pensare alla morte come al solo rimedio: «La paura che io ho di sbagliare a prendere qualche decisione, l’impossibilità anzi di prenderla, è la causa della mia indifferenza». L’abbandono della speranza e la consapevolezza di doversi fare carico di una sofferenza non più evitabile sono all’origine di un’apatia che è sinonimo di rassegnazione. È solo questione di tempo, in altre parole, perché la catastrofe arrivi. Non c’è scampo. E infatti è sufficiente che un impiegato della banca, insospettitosi di fronte all’ennesima cambiale, avvisi il Nicchioli, per far sì che ai Gambi crolli il mondo sotto i piedi.
Giulio, incapace di portare il peso della pubblica umiliazione, si impicca, sacrificando se stesso e facendo ricadere su di sé ogni responsabilità («Se io accettassi di vivere, giacché non mi sento per ora nessun male, sarebbe lo stesso io trovassi gusto a farmi martoriare»). Niccolò ed Enrico – che pure vengono assolti al processo, scaricando la colpa sul fratello defunto – sono anch’essi impossibilitati a scrollarsi di dosso il peso della tragedia: il primo, dopo avere trovato impiego come agente d’assicurazione, muore in breve tempo per un colpo di apoplessia; il secondo, ridotto in miseria e costretto all’accattonaggio, finisce miseramente i suoi giorni nell’Ospizio di Mendicità, in completa solitudine. Alla morte del terzo fratello (stroncato da «una nuova crisi di gotta»), Lola e Chiarina, mosse a compassione, rompono il salvadanaio per comprare tre croci uguali, da collocare nel cimitero in corrispondenza delle tombe degli zii.
A proposito del finale del romanzo, vale la pena citare il commento di Cassola: «Enrico, Niccolò, Giulio, sono finiti male; ma non sono vissuti invano, ce lo dice l’estremo atto di pietà delle nipoti […]. Anche questa etichetta appiccicata a Tozzi, d’essere un pessimista, […] si rivela una formula di comodo». Il gesto di Lola e Chiarina, infatti, riabilita la memoria degli zii e offre al lettore una possibile via d’uscita dalla cupa atmosfera di morte che domina l’intera vicenda. Ha ragione infatti Cassola: i tre fratelli non sono vissuti invano, se non altro perché ci sono persone (Modesta e le nipoti) cui sta a cuore il loro destino.
Il finale stravolge il senso di tutto il romanzo, che di colpo (e inaspettatamente) viene ricalibrato secondo una prospettiva chiaramente cristiana. La morte, in altre parole, non è il solo esito possibile di fronte al fallimento: ciò che può sembrare ineluttabile – ovvero il suicidio di Giulio, innesco di una reazione a catena che pare inarrestabile – è in realtà la conseguenza di una libera volontà. Non c’è nulla di prestabilito o di preordinato: ogni uomo, per quanto afflitto e devastato dal dolore, è arbitro del proprio destino, e può sempre trovare il modo per riscattarsi, anche quando tutto sembra perduto. A uccidere i tre fratelli non è, in definitiva, il dissesto finanziario, ma l’assenza di fede, che si palesa nel momento in cui avviene la dissoluzione dell’unico mondo – superficiale, fatto di convenzioni sociali e di rapporti del tutto impersonali – che i Gambi conoscono. Giulio, Niccolò ed Enrico vivono, in sostanza, con gli occhi chiusi (si ricordi che Con gli occhi chiusi è il titolo del più celebre romanzo di Tozzi), non sono cioè in grado di scorgere nulla al di là delle loro piatte esistenze ossessionate dai beni materiali. Dal loro punto di vista, la perdita della rispettabilità sociale è un ostacolo troppo grande da superare, col risultato che essi in pratica decidono di autoannientarsi, essendo venuta a mancare una qualsiasi valida ragione di vita.
L’unico che parzialmente riesce a riscattarsi prima di morire è Enrico, il quale, durante la sua permanenza all’Ospizio di Mendicità, trova la forza di andare avanti pensando costantemente alle nipoti: «Una mattina, mentre raccattava le potature, disse a quelli come lui: “Se io muoio presto, vi prego di dire alle mie due nipoti, che verranno a vedermi, che io mi ero messo a lavorare”. Gli altri alzarono gli occhi da terra; e lo guardarono, senza rispondergli. Allora, egli si spiegò: “Anch’io ho un briciolo di coscienza. E soltanto quelle bambine capiscono che è vero”».
In queste parole è racchiusa tutta la profonda umanità dello scrittore, per il quale basta davvero poco per vincere il desiderio di lasciarsi andare. Enrico, cioè, a rigor di logica – la logica, s’intende, sottesa a tutto il resto del racconto – dovrebbe auspicare la propria morte, dal momento che ha perso tutto, beni materiali, rispettabilità e credibilità. Eppure, proprio prima di abbandonare questa vita, ha un sussulto e si impegna per far sì che le nipoti possano conservare di lui un ultimo, positivo ricordo (in quest’ottica, le tre croci sono la prova che egli alla fine riesce nel suo intento). Dopo tanta desolazione, lo scritto di Tozzi si conclude con un piccolo, grande gesto d’amore: e il romanzo acquista tutto un altro sapore.

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«Il sentiero dei nidi di ragno»: la guerra civile vista attraverso gli occhi di un bambino

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 febbraio 2015)

Uscito nel 1947, Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino è senza dubbio uno dei romanzi più riusciti nel vasto panorama della cosiddetta letteratura resistenziale. I suoi pregi fondamentali sono essenzialmente due: da un lato la totale assenza di pagine celebrative o caratterizzate da un tono didascalico; dall’altro la scelta di raccontare la vicenda attraverso il punto di vista straniante e deformante del protagonista Pin, un bambino trascinato a forza nel mondo dei grandi e costretto a vivere una guerra che ai suoi occhi pare un gioco al contempo minaccioso ed entusiasmante.
Pin è un bambino orfano di madre, abbandonato dal padre marinaio e affidato alle cure della sorella prostituta, che lo cresce con la più totale trascuratezza. I due vivono a San Remo, sulla riviera ligure, abbandonati a se stessi e costretti ad arrangiarsi come possono nel tragico contesto della guerra civile, dopo l’8 settembre 1943.
A dispetto della sua giovane età, Pin fa già parte del mondo degli adulti. Frequenta l’osteria, dove intrattiene gli avventori con canzonacce e battute volgari, e più in generale conduce un’esistenza sbandata scorrazzando per i vicoli degli ambienti malfamati della città. Dal suo punto di vista, gli uomini sono esseri privi di logica, inspiegabilmente attratti dall’altro sesso e incapaci di comportarsi con un minimo di coerenza. Per Pin, infatti, l’esigenza primaria è quella di farsi pienamente accettare da un mondo dal quale si sente respinto, emarginato in quanto bambino: ma ogni tentativo che fa in questa direzione è frustrato dall’inaffidabilità degli adulti, che prima lo illudono, poi si prendono gioco di lui.
Per questo Pin ama farsi beffe dei grandi, anche se farebbe di tutto pur di compiacerli. Così, quando all’osteria gli chiedono di rubare la pistola P38 in dotazione al marinaio tedesco che abitualmente fa visita a sua sorella, egli non si tira indietro e porta a termine con successo la “missione”. Si aspetterebbe un premio per il suo atto di lealtà e coraggio, ma al suo ritorno è accolto con freddezza, quasi con indifferenza. Nessuno, infatti, fa caso alla pistola che nasconde sotto la giacchetta; il che significa che nessuno – realizza prontamente il ragazzo – lo aveva realmente creduto all’altezza del compito assegnatogli.   
Pin si sente tradito e umiliato. Decide pertanto di tenere per sé la pistola, e per evitare di essere scoperto va a seppellirla nei campi in un posto segreto – che solo lui conosce –, «dove fanno il nido i ragni». Scoperto dai tedeschi – che lo trovano con il cinturone, ma senza la fondina della pistola –, il ragazzo è condotto in prigione, ma riesce ad evadere con l’aiuto di Lupo Rosso, un giovane ed audace partigiano. Una volta fuori, però, i due si separano, e Pin si ritrova a girovagare solitario per i boschi, finché non si imbatte in Cugino, un omone dall’aria mite che lo conduce al suo distaccamento di partigiani. La formazione è sotto il comando di un certo Dritto ed è composta da uomini ritenuti poco affidabili. «Nel distaccamento del Dritto ci mandano le carogne, i più scalcinati della brigata», dirà in seguito Lupo Rosso, in occasione di un fortuito incontro con il piccolo vecchio compagno di prigionia.
A Pin viene assegnato il ruolo di aiuto-cuciniere, in quello che a lui sembra un grande fantastico gioco fatto di armi, di spedizioni, di prigionieri e di tedeschi dalla parlata incomprensibile. La formazione è però realmente sgangherata: in pratica vi succede di tutto, con il Dritto che inavvertitamente dà fuoco all’accampamento, litiga con Pelle causandone indirettamente il tradimento e intrattiene una relazione clandestina con Giglia, moglie di Mancino (il cuoco). Di fatto, sarà proprio l’atto di denuncia dei due amanti la causa dell’allontanamento di Pin (il quale, naturalmente, crede di scherzare quando racconta ciò che ha visto e apostrofa Mancino dandogli del cornuto). Disgustato dal mondo degli adulti, il ragazzo abbandona il distaccamento e si rifugia nel suo luogo segreto: ma quando vi giunge, scopre che il terreno è stato smosso e la P38 è sparita. Pin non ha dubbi: è stato Pelle – che gli aveva detto di sapere dove vanno a fare il nido i ragni – a sottrargli la pistola, un oggetto cui lui, bambino sognatore, si era affezionato in quanto sinonimo di indipendenza e di potere sugli uomini.
Sconsolato, Pin fa ritorno a casa. Vi ritrova la sorella, nel frattempo divenuta spia dei tedeschi, e per coincidenza recupera la pistola, donata alla donna proprio da Pelle, che era stato suo cliente. Lasciata l’abitazione, il ragazzo si ritira nei boschi, dove per caso incontra Cugino, «col mitra e il berrettino di lana». Il partigiano è un tipo scontroso e solitario, ma è l’unico che tratta Pin con umanità («Ha trovato Cugino, e Cugino è il grande amico tanto cercato, quello che s’interessa dei nidi di ragno»). D’un tratto, però, rivolge al ragazzo una domanda inattesa: «Vedi: son già mesi e mesi che non vado con una donna… Tu capisci queste cose». Pin è lusingato poiché si sente di nuovo importante, anche se avrebbe preferito che Cugino non fosse come tutti gli altri adulti, con quella loro incomprensibile attrazione per l’altro sesso. Ad ogni modo, dà istruzioni su come trovare la sorella, e i due si separano. Poco dopo, dalla città giunge il rumore di alcuni spari. Pin teme per la vita di Cugino, ma questi sbuca nuovamente dall’ombra: «Sai, m’è venuto schifo e me ne sono andato senza far niente».
A questo punto è evidente che il vero, grande amico di Pin altri non può essere che il partigiano che si interessa dei nidi di ragno. Il romanzo si conclude con la descrizione dei due che si allontanano: «E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano».
Calvino, giacché adotta il punto di vista del ragazzo, non dice apertamente ciò che tuttavia è quantomeno lecito arguire: Cugino ha dovuto eseguire la condanna della sorella di Pin, spia dei tedeschi. C’è un forte senso di pietà nel suo comportamento, una umanità – come notò Cesare Pavese – acuita dal marcato tono fiabesco con cui è narrata l’intera vicenda. La guerra impone infatti delle scelte drastiche – e ci sono cose che vanno fatte, senza esitare –, ma ciò deve spingere i sopravvissuti a trovare un punto d’incontro nella solidarietà, un comune senso di appartenenza nella volontaria sottomissione a un ideale di giustizia.
Calvino non ha dubbi su chi siano i giusti, e nella Presentazione scritta appositamente per l’edizione del 1964 si rivolge provocatoriamente ai detrattori della Resistenza con queste parole: «D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi, che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai sognarvi di essere».
Eppure c’è qualcosa di ben più complesso nel romanzo, qualcosa di sottinteso, forse anche per una questione di pudore. È sempre la Presentazione a fare un po’ di chiarezza. Calvino afferma di sentire il peso della responsabilità di doversi fare testimone di un’epoca e di un’esperienza vissuta tra mille incertezze; ma percepisce se stesso come inadeguato, in quanto partigiano borghese, certo un po’ atipico, che inizialmente «aveva preso la guerra come un alibi». Ecco allora che lo sguardo di Pin diventa quello dello scrittore, che si accosta ad un mondo da cui si sente al contempo attratto e respinto, un mondo affascinante ma distante per ideologia e cultura. Calvino avverte cioè l’esigenza di fare qualcosa nel drammatico contesto della guerra civile, ma nel momento in cui si risolve a fare una scelta di campo non è sostenuto da granitiche certezze, bensì solo da un indefinito (e indefinibile) senso del dovere: «La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” […]. Ma soprattutto sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione».
Con tutta evidenza, siamo ben distanti da qualunque intento celebrativo della Resistenza, che per Calvino il più delle volte non è altro che il frutto di un’istintiva ribellione a un mondo minaccioso, mai rassicurante, ma sostanzialmente indecifrabile. Cosa spinge dunque poveracci, sbandati e intellettuali delusi a imbracciare il fucile? Cosa possono avere in comune categorie sociali tra loro così distanti? Probabilmente – si legge nel capitolo IX, dedicato alle riflessioni più propriamente politiche – il coraggio, il furore che impone di desiderare un cambiamento, anche se non si sa bene di che genere. A fare la differenza è «l’offesa della loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi. E basta un nulla, un passo falso, un impedimento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso».
Detto altrimenti, la guerra obnubila le menti, ed è troppo facile, dopo, fare retorica, come se tutto fosse stato chiaro sin dal primo giorno. Poi, certo: c’è la storia. E «noi [i partigiani], nella storia, siamo dalla parte del riscatto», dalla parte del cambiamento che trionfa sul tentativo di fossilizzare la realtà in un eterno presente. Calvino sa di aver fatto la scelta giusta, anche se non sa spiegare fino in fondo perché l’ha fatta. Come un bambino che vaga solitario per i boschi, respinto dall’ostile mondo dei grandi, anch’egli avrebbe bisogno di essere preso per mano.

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I torti del fratello maggiore: la parabola del figliol prodigo nelle pagine de «La più bella avventura» di don Mazzolari

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° febbraio 2015)

Pubblicata nel 1934 dopo avere ricevuto l’imprimatur della curia bresciana, La più bella avventura di don Primo Mazzolari – originale rilettura della parabola del figliol prodigo – venne condannata l’anno seguente dal Sant’Uffizio, in quanto ritenuta opera dal contenuto «erroneo». Immediatamente, lo scritto venne ritirato dal commercio, con grande imbarazzo e sconcerto del suo autore, che tutto si aspettava fuorché di andare incontro a una così esemplare e categorica punizione.
Oggi il motivo della condanna pare più facilmente comprensibile: focalizzando l’attenzione sulla figura del fratello maggiore – giudicato severamente «un infingardo: uno che non ha fatto per paura di far male» –, Mazzolari aveva inteso «gettare un ponte ai lontani», convinto che la Chiesa (ovvero, metaforicamente, la casa del padre nella parabola del Vangelo di Luca) non potesse chiudersi in se stessa, escludere i reprobi e trasformarsi in una sorta di «club della gente onesta». Egli però fu frainteso: troppo rischioso – gli risposero da Roma – spendere così tante energie per recuperare chi deliberatamente non vuole avere più nulla a che fare con la Chiesa. Meglio concentrarsi su chi sta dentro, su chi merita cioè (al pari del fratello maggiore) più alta considerazione e riconoscenza.
Per Mazzolari, tuttavia, questo non è il modo corretto di leggere la parabola. Gesù – afferma – è venuto per tutti, non solo per i giusti. Anzi: per assurdo, questi ultimi hanno meno bisogno di lui rispetto ai peccatori, i quali sono i veri destinatari del messaggio evangelico. Anche perché tutti sono peccatori, e Gesù diviene fonte di conforto proprio quando sopraggiunge l’errore, la debolezza, il dolore. Qui non si tratta di avere torto o ragione. Non c’è dubbio, infatti, che il prodigo pecchi nei confronti del padre: «Il maggiore – scrive Mazzolari – ha ragione: fin troppo ragione; vede chiaro, fin troppo chiaro. Non è la verità che manca. Egli conosce la Legge, tanto che non ha mai trasgredito nessun comandamento. Sa che fuori di casa ci sono le meretrici che divorano giovinezza e ricchezza». Ciò che invece non coglie è la presenza dell’amore, di quell’amore che fa sì che il padre veda sempre suo figlio nello scapestrato che si è ridotto a contendere le carrube ai porci, dopo aver scialacquato le sue sostanze. «Il cuore di Cristo non ha scompartimenti», prosegue Mazzolari: non divide i giusti dai peccatori.
Il fratello maggiore non conosce il perdono. Dipendesse da lui, il prodigo non sarebbe riaccolto nella casa del padre: troppo grave la sua colpa, troppo comodo pentirsi dopo che si è perso tutto. Dal suo punto di vista, il peccato è come un marchio a fuoco: indelebile! Le sue parole sono inequivocabili: «Dacché è tornato questo tuo figlio…». Per il maggiore, il prodigo non è più nemmeno un fratello, non è più suo, ma del padre. È divenuto a tutti gli effetti un estraneo. Tutto sta però nel chiedersi cosa significa perdonare. E, con l’aiuto dell’etimologia, è facile darsi una risposta: perdonare significa offrire in dono la remissione di una colpa. Non c’è nulla di razionale in questo: il perdono va al di là della ragione, non può essere imposto da nessuna legge, dal momento che non ha alcun senso, non è né giusto né sbagliato. In quanto dono, esso è un gesto d’amore che non risponde ad una precisa necessità, non presuppone alcun fine terreno. In altre parole, è assurdo domandare perché si perdona, giacché, se si tentasse di rispondere, non si troverebbero che buone ragioni per non giustificare il perdono stesso.
Mazzolari insiste a lungo su quella che egli definisce «la pretesa del privilegio». La rettitudine deve cioè avere valore in se stessa: non può diventare uno scudo per proteggersi dal rischio di contaminazione con chi si è smarrito. A chi può giovare, infatti, una tale visione manichea dell’esistenza, se non a coloro che non hanno alcun bisogno di aiuto? Il Vangelo, sottolinea il prete cremonese, è pieno di figure che pretendono di erigere barriere per tenere separati i giusti dagli improbi: «Le parabole del Signore si completano l’un l’altra. Certi personaggi ritornano con nomi diversi. […] Il maggiore lo si può facilmente riconoscere sotto le spoglie non mentite dell’infingardo nella parabola dei talenti, nella preghiera del fariseo al tempio, nel servo spietato che, perdonato, non perdona, nel sacerdote e nel levita che tirano dritto, nel figliuolo che dice di sì e poi non va, nel lavoratore della vigna che contratta la giornata e poi si lamenta della generosità del padrone verso quelli dell’ultima ora».
È interessante questo confronto, soprattutto perché mette in evidenza la complessità del messaggio evangelico. Gesù, in sostanza, non è stato capito se non da pochi. Le sue azioni e la sua parola, infatti, tendono a scandalizzare, proprio perché privilegiano gli ultimi, gli emarginati, gli esclusi. Il senso del suo agire è tanto semplice quanto difficile da accettare: ed è che nessuno può mai dirsi del tutto perduto, che esiste sempre la possibilità della conversione. Spesso anzi la pace interiore si conquista proprio attraverso l’inquietudine, la quale, di per sé, non è necessariamente un male. Scrive al riguardo Mazzolari: «L’insoddisfazione non è una colpa. Qualora non si riduca a compiacenza, l’inquietudine è una distinzione spirituale, un preannuncio di grazia. Essa è l’intuito doloroso del limite e dell’insufficienza che vi è nelle creature e in noi, per cui subito intelligenza e cuore se ne ritraggono delusi e contristati. […] L’anima insoddisfatta cerca, s’avvia, si ritrova. Le più belle pagine della chiesa furono scritte dalle anime inquiete».
Al contrario del prodigo – prosegue Mazzolari –, il fratello maggiore pecca di «quietudine». Entrambi sono egoisti, ma mentre per il primo il chiudersi in se stesso è «un punto di partenza», per il secondo è «un punto di approdo». La conversione, del resto, più che un ritorno è una rinascita, nel senso che per accogliere Dio dopo un periodo di perdizione è necessario risorgere a nuova vita. Le parole che il padre rivolge al figlio maggiore sono al riguardo molto eloquenti: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto e si è ritrovato». Chi può sfuggire a questo destino? Nessuno, a parere di Mazzolari: «Ogni uomo ha la sua conversione la quale, in un momento lunghissimo di essa, è una dispersione, che segna l’ordinario trapasso tra la presenza inconsapevole e l’accoglienza, consapevole e devota fino all’ultima divina esigenza. Il prodigo incomincia a convertirsi quando incomincia a staccarsi dalla casa. L’allontanamento può essere l’indizio di una lenta e pericolosa, ma provvidenziale elaborazione di un nuovo rapporto tra il Padre e il minore: il vero rapporto religioso».
Il principale torto del maggiore è pertanto quello di accontentarsi del quieto vivere, di non avvertire alcuna esigenza di confrontarsi con se stesso, con i propri dubbi e con le proprie paure. Egli crede di rispettare il genitore semplicemente perché non trasgredisce i suoi comandi, ma nel momento in cui viene messo alla prova dimostra di essere sostanzialmente un vile roso dall’invidia per il fratello. Non è certo un caso, infatti, che nel replicare alle rimostranze del figlio il padre evochi il concetto di giustizia: «Era giusto fare un banchetto e rallegrarsi…». Il maggiore, cioè, ragiona secondo il principio della giustizia distributiva, ovvero: mi sono comportato bene, quindi mi spetta un premio. Ma la giustizia di Dio tiene conto del cuore, non delle opere in quanto tali. A fare la differenza è l’animo – che deve essere mosso dall’amore –, non certo il risultato concreto di un’azione, ancorché buona. Ed è evidente che mentre il prodigo, recitando il suo confiteor, riesce finalmente a trovare Dio dentro di sé, il maggiore sprofonda in un cupo turbamento, che gli impedisce persino di rallegrarsi per il ritorno del fratello.
Siamo di fronte – è chiaro – a un messaggio non facile da accettare. Capita spesso, infatti, che il desiderio di veder punito chi sbaglia non sia accompagnato dalla volontà di correggerne gli errori. Reprimere al solo scopo di dividere il mondo tra buoni e cattivi può essere un modo rassicurante di gestire le difficoltà della vita, ma non è certo la via che dovrebbe imboccare il credente. «Non si vuol negare – conclude Mazzolari – la lotta tra il bene e il male. È un fatto. C’è di più: è un dovere. Si vuol negare la confusione troppo facile tra il male e coloro che al momento ne sono degli strumenti sia pure responsabili, costituendo in tal modo tra noi e loro una separazione in luogo di un’amorosa, sofferente fraternità».

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