(articolo apparso su Prima Pagina del 1° febbraio 2015)
Pubblicata nel 1934 dopo avere ricevuto l’imprimatur della curia bresciana, La più bella avventura di don Primo
Mazzolari – originale rilettura della parabola del figliol prodigo – venne
condannata l’anno seguente dal Sant’Uffizio, in quanto ritenuta opera dal
contenuto «erroneo». Immediatamente, lo scritto venne ritirato dal commercio,
con grande imbarazzo e sconcerto del suo autore, che tutto si aspettava fuorché
di andare incontro a una così esemplare e categorica punizione.
Oggi il motivo della condanna pare più facilmente
comprensibile: focalizzando l’attenzione sulla figura del fratello maggiore –
giudicato severamente «un infingardo: uno che non ha fatto per paura di far
male» –, Mazzolari aveva inteso «gettare un ponte ai lontani», convinto che la
Chiesa (ovvero, metaforicamente, la casa del padre nella parabola del Vangelo
di Luca) non potesse chiudersi in se stessa, escludere i reprobi e trasformarsi
in una sorta di «club della gente onesta». Egli però fu frainteso: troppo
rischioso – gli risposero da Roma – spendere così tante energie per recuperare
chi deliberatamente non vuole avere più nulla a che fare con la Chiesa. Meglio
concentrarsi su chi sta dentro, su chi merita cioè (al pari del fratello
maggiore) più alta considerazione e riconoscenza.
Per Mazzolari, tuttavia, questo non è il modo corretto di
leggere la parabola. Gesù – afferma – è venuto per tutti, non solo per i
giusti. Anzi: per assurdo, questi ultimi hanno meno bisogno di lui rispetto ai
peccatori, i quali sono i veri destinatari del messaggio evangelico. Anche
perché tutti sono peccatori, e Gesù diviene fonte di conforto proprio quando
sopraggiunge l’errore, la debolezza, il dolore. Qui non si tratta di avere
torto o ragione. Non c’è dubbio, infatti, che il prodigo pecchi nei confronti
del padre: «Il maggiore – scrive Mazzolari – ha ragione: fin troppo ragione;
vede chiaro, fin troppo chiaro. Non è la verità che manca. Egli conosce la
Legge, tanto che non ha mai trasgredito nessun comandamento. Sa che fuori di
casa ci sono le meretrici che divorano giovinezza e ricchezza». Ciò che invece
non coglie è la presenza dell’amore, di quell’amore che fa sì che il padre veda
sempre suo figlio nello scapestrato che si è ridotto a contendere le carrube ai
porci, dopo aver scialacquato le sue sostanze. «Il cuore di Cristo non ha
scompartimenti», prosegue Mazzolari: non divide i giusti dai peccatori.
Il fratello maggiore non conosce il perdono. Dipendesse
da lui, il prodigo non sarebbe riaccolto nella casa del padre: troppo grave la
sua colpa, troppo comodo pentirsi dopo che si è perso tutto. Dal suo punto di
vista, il peccato è come un marchio a fuoco: indelebile! Le sue parole sono inequivocabili:
«Dacché è tornato questo tuo figlio…».
Per il maggiore, il prodigo non è più nemmeno un fratello, non è più suo, ma del padre. È divenuto a tutti
gli effetti un estraneo. Tutto sta però nel chiedersi cosa significa perdonare.
E, con l’aiuto dell’etimologia, è facile darsi una risposta: perdonare
significa offrire in dono la remissione di una colpa. Non c’è nulla di
razionale in questo: il perdono va al di là della ragione, non può essere
imposto da nessuna legge, dal momento che non ha alcun senso, non è né giusto
né sbagliato. In quanto dono, esso è un gesto d’amore che non risponde ad una
precisa necessità, non presuppone alcun fine terreno. In altre parole, è assurdo
domandare perché si perdona, giacché, se si tentasse di rispondere, non si
troverebbero che buone ragioni per non giustificare il perdono stesso.
Mazzolari insiste a lungo su quella che egli definisce
«la pretesa del privilegio». La rettitudine deve cioè avere valore in se
stessa: non può diventare uno scudo per proteggersi dal rischio di
contaminazione con chi si è smarrito. A chi può giovare, infatti, una tale
visione manichea dell’esistenza, se non a coloro che non hanno alcun bisogno di
aiuto? Il Vangelo, sottolinea il prete cremonese, è pieno di figure che
pretendono di erigere barriere per tenere separati i giusti dagli improbi: «Le
parabole del Signore si completano l’un l’altra. Certi personaggi ritornano con
nomi diversi. […] Il maggiore lo si può facilmente riconoscere sotto le spoglie
non mentite dell’infingardo nella parabola dei talenti, nella preghiera del
fariseo al tempio, nel servo spietato che, perdonato, non perdona, nel
sacerdote e nel levita che tirano dritto, nel figliuolo che dice di sì e poi
non va, nel lavoratore della vigna che contratta la giornata e poi si lamenta
della generosità del padrone verso quelli dell’ultima ora».
È interessante questo confronto, soprattutto perché mette
in evidenza la complessità del messaggio evangelico. Gesù, in sostanza, non è
stato capito se non da pochi. Le sue azioni e la sua parola, infatti, tendono a
scandalizzare, proprio perché privilegiano gli ultimi, gli emarginati, gli esclusi.
Il senso del suo agire è tanto semplice quanto difficile da accettare: ed è che
nessuno può mai dirsi del tutto perduto, che esiste sempre la possibilità della
conversione. Spesso anzi la pace interiore si conquista proprio attraverso
l’inquietudine, la quale, di per sé, non è necessariamente un male. Scrive al
riguardo Mazzolari: «L’insoddisfazione non è una colpa. Qualora non si riduca a
compiacenza, l’inquietudine è una distinzione spirituale, un preannuncio di
grazia. Essa è l’intuito doloroso del limite e dell’insufficienza che vi è
nelle creature e in noi, per cui subito intelligenza e cuore se ne ritraggono
delusi e contristati. […] L’anima insoddisfatta cerca, s’avvia, si ritrova. Le
più belle pagine della chiesa furono scritte dalle anime inquiete».
Al contrario del prodigo – prosegue Mazzolari –, il
fratello maggiore pecca di «quietudine». Entrambi sono egoisti, ma mentre per
il primo il chiudersi in se stesso è «un punto di partenza», per il secondo è
«un punto di approdo». La conversione, del resto, più che un ritorno è una
rinascita, nel senso che per accogliere Dio dopo un periodo di perdizione è
necessario risorgere a nuova vita. Le parole che il padre rivolge al figlio
maggiore sono al riguardo molto eloquenti: «Questo tuo fratello era morto ed è
tornato in vita; era perduto e si è ritrovato». Chi può sfuggire a questo destino?
Nessuno, a parere di Mazzolari: «Ogni uomo ha la sua conversione la quale, in un momento lunghissimo di essa, è una dispersione, che segna l’ordinario
trapasso tra la presenza inconsapevole e l’accoglienza, consapevole e devota
fino all’ultima divina esigenza. Il prodigo incomincia a convertirsi quando
incomincia a staccarsi dalla casa. L’allontanamento può essere l’indizio di una
lenta e pericolosa, ma provvidenziale elaborazione di un nuovo rapporto tra il
Padre e il minore: il vero rapporto religioso».
Il principale torto del maggiore è pertanto quello di
accontentarsi del quieto vivere, di non avvertire alcuna esigenza di
confrontarsi con se stesso, con i propri dubbi e con le proprie paure. Egli
crede di rispettare il genitore semplicemente perché non trasgredisce i suoi
comandi, ma nel momento in cui viene messo alla prova dimostra di essere
sostanzialmente un vile roso dall’invidia per il fratello. Non è certo un caso,
infatti, che nel replicare alle rimostranze del figlio il padre evochi il
concetto di giustizia: «Era giusto fare un banchetto e rallegrarsi…». Il
maggiore, cioè, ragiona secondo il principio della giustizia distributiva,
ovvero: mi sono comportato bene, quindi mi spetta un premio. Ma la giustizia di
Dio tiene conto del cuore, non delle opere in quanto tali. A fare la differenza
è l’animo – che deve essere mosso dall’amore –, non certo il risultato concreto
di un’azione, ancorché buona. Ed è evidente che mentre il prodigo, recitando il
suo confiteor, riesce finalmente a
trovare Dio dentro di sé, il maggiore sprofonda in un cupo turbamento, che gli
impedisce persino di rallegrarsi per il ritorno del fratello.
Siamo di fronte – è chiaro – a un messaggio non facile da
accettare. Capita spesso, infatti, che il desiderio di veder punito chi sbaglia
non sia accompagnato dalla volontà di correggerne gli errori. Reprimere al solo
scopo di dividere il mondo tra buoni e cattivi può essere un modo rassicurante
di gestire le difficoltà della vita, ma non è certo la via che dovrebbe
imboccare il credente. «Non si vuol negare – conclude Mazzolari – la lotta tra
il bene e il male. È un fatto. C’è di più: è un dovere. Si vuol negare la
confusione troppo facile tra il male e coloro che al momento ne sono degli strumenti
sia pure responsabili, costituendo in tal modo tra noi e loro una separazione
in luogo di un’amorosa, sofferente fraternità».
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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