domenica 22 febbraio 2015

I torti del fratello maggiore: la parabola del figliol prodigo nelle pagine de «La più bella avventura» di don Mazzolari

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° febbraio 2015)

Pubblicata nel 1934 dopo avere ricevuto l’imprimatur della curia bresciana, La più bella avventura di don Primo Mazzolari – originale rilettura della parabola del figliol prodigo – venne condannata l’anno seguente dal Sant’Uffizio, in quanto ritenuta opera dal contenuto «erroneo». Immediatamente, lo scritto venne ritirato dal commercio, con grande imbarazzo e sconcerto del suo autore, che tutto si aspettava fuorché di andare incontro a una così esemplare e categorica punizione.
Oggi il motivo della condanna pare più facilmente comprensibile: focalizzando l’attenzione sulla figura del fratello maggiore – giudicato severamente «un infingardo: uno che non ha fatto per paura di far male» –, Mazzolari aveva inteso «gettare un ponte ai lontani», convinto che la Chiesa (ovvero, metaforicamente, la casa del padre nella parabola del Vangelo di Luca) non potesse chiudersi in se stessa, escludere i reprobi e trasformarsi in una sorta di «club della gente onesta». Egli però fu frainteso: troppo rischioso – gli risposero da Roma – spendere così tante energie per recuperare chi deliberatamente non vuole avere più nulla a che fare con la Chiesa. Meglio concentrarsi su chi sta dentro, su chi merita cioè (al pari del fratello maggiore) più alta considerazione e riconoscenza.
Per Mazzolari, tuttavia, questo non è il modo corretto di leggere la parabola. Gesù – afferma – è venuto per tutti, non solo per i giusti. Anzi: per assurdo, questi ultimi hanno meno bisogno di lui rispetto ai peccatori, i quali sono i veri destinatari del messaggio evangelico. Anche perché tutti sono peccatori, e Gesù diviene fonte di conforto proprio quando sopraggiunge l’errore, la debolezza, il dolore. Qui non si tratta di avere torto o ragione. Non c’è dubbio, infatti, che il prodigo pecchi nei confronti del padre: «Il maggiore – scrive Mazzolari – ha ragione: fin troppo ragione; vede chiaro, fin troppo chiaro. Non è la verità che manca. Egli conosce la Legge, tanto che non ha mai trasgredito nessun comandamento. Sa che fuori di casa ci sono le meretrici che divorano giovinezza e ricchezza». Ciò che invece non coglie è la presenza dell’amore, di quell’amore che fa sì che il padre veda sempre suo figlio nello scapestrato che si è ridotto a contendere le carrube ai porci, dopo aver scialacquato le sue sostanze. «Il cuore di Cristo non ha scompartimenti», prosegue Mazzolari: non divide i giusti dai peccatori.
Il fratello maggiore non conosce il perdono. Dipendesse da lui, il prodigo non sarebbe riaccolto nella casa del padre: troppo grave la sua colpa, troppo comodo pentirsi dopo che si è perso tutto. Dal suo punto di vista, il peccato è come un marchio a fuoco: indelebile! Le sue parole sono inequivocabili: «Dacché è tornato questo tuo figlio…». Per il maggiore, il prodigo non è più nemmeno un fratello, non è più suo, ma del padre. È divenuto a tutti gli effetti un estraneo. Tutto sta però nel chiedersi cosa significa perdonare. E, con l’aiuto dell’etimologia, è facile darsi una risposta: perdonare significa offrire in dono la remissione di una colpa. Non c’è nulla di razionale in questo: il perdono va al di là della ragione, non può essere imposto da nessuna legge, dal momento che non ha alcun senso, non è né giusto né sbagliato. In quanto dono, esso è un gesto d’amore che non risponde ad una precisa necessità, non presuppone alcun fine terreno. In altre parole, è assurdo domandare perché si perdona, giacché, se si tentasse di rispondere, non si troverebbero che buone ragioni per non giustificare il perdono stesso.
Mazzolari insiste a lungo su quella che egli definisce «la pretesa del privilegio». La rettitudine deve cioè avere valore in se stessa: non può diventare uno scudo per proteggersi dal rischio di contaminazione con chi si è smarrito. A chi può giovare, infatti, una tale visione manichea dell’esistenza, se non a coloro che non hanno alcun bisogno di aiuto? Il Vangelo, sottolinea il prete cremonese, è pieno di figure che pretendono di erigere barriere per tenere separati i giusti dagli improbi: «Le parabole del Signore si completano l’un l’altra. Certi personaggi ritornano con nomi diversi. […] Il maggiore lo si può facilmente riconoscere sotto le spoglie non mentite dell’infingardo nella parabola dei talenti, nella preghiera del fariseo al tempio, nel servo spietato che, perdonato, non perdona, nel sacerdote e nel levita che tirano dritto, nel figliuolo che dice di sì e poi non va, nel lavoratore della vigna che contratta la giornata e poi si lamenta della generosità del padrone verso quelli dell’ultima ora».
È interessante questo confronto, soprattutto perché mette in evidenza la complessità del messaggio evangelico. Gesù, in sostanza, non è stato capito se non da pochi. Le sue azioni e la sua parola, infatti, tendono a scandalizzare, proprio perché privilegiano gli ultimi, gli emarginati, gli esclusi. Il senso del suo agire è tanto semplice quanto difficile da accettare: ed è che nessuno può mai dirsi del tutto perduto, che esiste sempre la possibilità della conversione. Spesso anzi la pace interiore si conquista proprio attraverso l’inquietudine, la quale, di per sé, non è necessariamente un male. Scrive al riguardo Mazzolari: «L’insoddisfazione non è una colpa. Qualora non si riduca a compiacenza, l’inquietudine è una distinzione spirituale, un preannuncio di grazia. Essa è l’intuito doloroso del limite e dell’insufficienza che vi è nelle creature e in noi, per cui subito intelligenza e cuore se ne ritraggono delusi e contristati. […] L’anima insoddisfatta cerca, s’avvia, si ritrova. Le più belle pagine della chiesa furono scritte dalle anime inquiete».
Al contrario del prodigo – prosegue Mazzolari –, il fratello maggiore pecca di «quietudine». Entrambi sono egoisti, ma mentre per il primo il chiudersi in se stesso è «un punto di partenza», per il secondo è «un punto di approdo». La conversione, del resto, più che un ritorno è una rinascita, nel senso che per accogliere Dio dopo un periodo di perdizione è necessario risorgere a nuova vita. Le parole che il padre rivolge al figlio maggiore sono al riguardo molto eloquenti: «Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto e si è ritrovato». Chi può sfuggire a questo destino? Nessuno, a parere di Mazzolari: «Ogni uomo ha la sua conversione la quale, in un momento lunghissimo di essa, è una dispersione, che segna l’ordinario trapasso tra la presenza inconsapevole e l’accoglienza, consapevole e devota fino all’ultima divina esigenza. Il prodigo incomincia a convertirsi quando incomincia a staccarsi dalla casa. L’allontanamento può essere l’indizio di una lenta e pericolosa, ma provvidenziale elaborazione di un nuovo rapporto tra il Padre e il minore: il vero rapporto religioso».
Il principale torto del maggiore è pertanto quello di accontentarsi del quieto vivere, di non avvertire alcuna esigenza di confrontarsi con se stesso, con i propri dubbi e con le proprie paure. Egli crede di rispettare il genitore semplicemente perché non trasgredisce i suoi comandi, ma nel momento in cui viene messo alla prova dimostra di essere sostanzialmente un vile roso dall’invidia per il fratello. Non è certo un caso, infatti, che nel replicare alle rimostranze del figlio il padre evochi il concetto di giustizia: «Era giusto fare un banchetto e rallegrarsi…». Il maggiore, cioè, ragiona secondo il principio della giustizia distributiva, ovvero: mi sono comportato bene, quindi mi spetta un premio. Ma la giustizia di Dio tiene conto del cuore, non delle opere in quanto tali. A fare la differenza è l’animo – che deve essere mosso dall’amore –, non certo il risultato concreto di un’azione, ancorché buona. Ed è evidente che mentre il prodigo, recitando il suo confiteor, riesce finalmente a trovare Dio dentro di sé, il maggiore sprofonda in un cupo turbamento, che gli impedisce persino di rallegrarsi per il ritorno del fratello.
Siamo di fronte – è chiaro – a un messaggio non facile da accettare. Capita spesso, infatti, che il desiderio di veder punito chi sbaglia non sia accompagnato dalla volontà di correggerne gli errori. Reprimere al solo scopo di dividere il mondo tra buoni e cattivi può essere un modo rassicurante di gestire le difficoltà della vita, ma non è certo la via che dovrebbe imboccare il credente. «Non si vuol negare – conclude Mazzolari – la lotta tra il bene e il male. È un fatto. C’è di più: è un dovere. Si vuol negare la confusione troppo facile tra il male e coloro che al momento ne sono degli strumenti sia pure responsabili, costituendo in tal modo tra noi e loro una separazione in luogo di un’amorosa, sofferente fraternità».

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi

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