sabato 28 giugno 2014

«Così è (se vi pare)»: l'assoluta (inquietante) relatività della verità

(articolo apparso su Prima Pagina del 21 giugno 2014)

Commedia in tre atti scritta nel 1917, Così è (se vi pare) è una delle opere teatrali più celebri e rappresentate di Luigi Pirandello. In essa sono condensati alcuni temi ricorrenti della riflessione dello scrittore agrigentino, tanto che a lungo l'opera è stata considerata dalla critica un manifesto del pirandellismo. Sotto il profilo dei contenuti, infatti, la commedia può dirsi "completa": dal problema dell'identità individuale a quello del rapporto tra singolo e collettività, dalla questione delle relazioni sociali al dramma dell'inconoscibilità di un'unica verità, Pirandello mette in scena tutto se stesso, in una sorta di summa dell'intera sua produzione narrativa.
La trama ruota intorno alla contrapposizione di due verità apparentemente inconciliabili. Il signor Ponza, da poco trasferitosi in una cittadina di provincia a seguito del terremoto della Marsica, desta curiosità mista a scalpore a causa della sua condotta familiare: vive infatti con la moglie in un appartamento separato da quello della suocera (la signora Frola) e, stando ad alcune voci, impedisce alle due donne di vedersi. Secondo le malelingue, infatti, la moglie del signor Ponza è stata segregata in casa dal marito.
A partire da questo antefatto, si apre la prima scena. Il signor Agazzi, superiore del signor Ponza, si è appena recato dal prefetto per denunciare le stranezze del suo sottoposto, irritato peraltro dal fatto che la signora Frola, sua vicina di casa, si rifiuti di fornire spiegazioni. La moglie e la figlia del signor Agazzi sono infatti convinte che il signor Ponza sia un pazzo; unica voce fuori dal coro, il cognato Laudisi (evidente personificazione di Pirandello), che sostiene sia impossibile appurare una verità incontrovertibile.
Al fine di fare luce sull'intricata vicenda, vengono dunque ascoltate le due versioni della signora Frola e del signor Ponza. Ma mentre la prima afferma che il genero, vittima di un esaurimento nervoso e quindi impazzito, crede morta la moglie ed è convinto di essersi sposato una seconda volta (con Giulia), il secondo sostiene che la vera pazza sia la suocera, la quale, incapace di rassegnarsi alla perdita della prima figlia (Lina), si è persuasa che questa sia in realtà ancora viva e tenuta come in ostaggio dal marito. Entrambi, dunque, si accusano reciprocamente di aver perso il senno; col risultato che tutti si convincono che la verità verrà a galla solo a condizione di scoprire chi tra il signor Ponza e la signora Frola sta – volontariamente o meno poco importa – dicendo il falso.
A questo punto è evidente che l'unica persona in grado di risolvere l'enigma è Lina-Giulia, la quale – nell'ultimo atto – viene condotta in casa del signor Agazzi per dare finalmente la sua versione. Con il viso coperto da un velo nero, la donna afferma quindi di essere al contempo sia la figlia della signora Frola che la seconda moglie del signor Ponza; e – aggiunge, tra lo stupore generale – «per me nessuna!». Infine, alle proteste del prefetto, accorso appositamente a casa Agazzi («Ah, no, per sé, lei, signora: sarà l'una o l'altra!»), replica con un secco: «Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede».
La scena si chiude con il lapidario commento di Laudisi, il quale, dopo avere pronunciato le seguenti parole: «Ed ecco, o signori, come parla la verità! Siete contenti?», prorompe in una compiaciuta risata.
Sin dal titolo, Pirandello suggerisce una netta bipartizione della realtà. Da una parte (quella che, per chiarezza, potrebbe definirsi del Così è) stanno le convinzioni, ciò che si crede vero; dall'altra (quella del se vi pare), le mutevoli sfaccettature di ciò che si osserva. O, in altre parole, da una parte sta la certezza, dall'altra il disordine. Questa, almeno, è la divisione iniziale, giacché è evidente che il senso ultimo della commedia è che – per quanto attiene alle vicende umane – esistono tante verità quanti sono gli osservatori (con la conseguenza che, a ben vedere, non può esistere alcuna certezza che non sia quella del relativismo gnoseologico). In pratica, la verità cambia costantemente a seconda dei punti di vista, poiché tutto, nel mondo, è disordine.
L'aspetto più sconcertante della commedia è che Lina-Giulia non svela la propria identità, non rivela il proprio nome. Il suo contegno, inoltre, è quello di una persona perfettamente "normale": nelle sue parole non c'è traccia di quella pazzia che i vari personaggi vogliono a tutti i costi attribuire almeno ad uno dei protagonisti dell'intricata vicenda. E il bello è che non c'è contraddizione in tutto questo: la personificazione – tanto attesa – della verità è, allo stesso tempo, Lina ma anche Giulia, figlia ma anche seconda moglie. L'enigma è lasciato volutamente irrisolto, come a dire che l'identità individuale non potrà mai costituire una certezza assoluta, dal momento che una persona assume infinite forme in base alle convinzioni di coloro con cui entra in contatto.
Pirandello ha espresso questo concetto anche nel romanzo Uno, nessuno e centomila: avere centomila identità differenti equivale, di fatto, a non averne nessuna. Il che è evidente anche in riferimento alle esperienze più banali. Si pensi, ad esempio, a tutti i ruoli che si ricoprono nella vita. Un individuo X nasce figlio e, presumibilmente, muore padre; può essere nipote, poi nonno o zio, o entrambe le cose; sul lavoro, magari è superiore di qualcuno e sottoposto di qualcun altro; amico di tizio e rivale di caio; simpatico a Y, antipatico a Z, e così via. Non esiste, in sostanza, un'unica forma di X, uguale per tutti. E, cosa ancor più inquietante, nemmeno l'idea che X ha di sé è vera in senso assoluto (o meglio: non è di certo più vera di quella di tutti gli infiniti non-X con cui X entra in contatto). Per questo il parere di Lina-Giulia non è importante: esso non può essere in alcun modo decisivo, non può mettere a tacere le opinioni altrui, poiché è impossibile costringere le persone a cambiare le proprie convinzioni.
Il pessimismo pirandelliano circa l'impossibilità di costruirsi un'identità salda (in grado cioè di resistere al giudizio multiforme ed alienante della collettività) è netto. Di nuovo, si pensi alla vita di tutti i giorni. Quante volte si leggono sui giornali accuse infamanti contro persone ancora in attesa di giudizio? E cosa accade, poi, in caso di assoluzione? Non è forse vero che associare il nome di una persona ad un presunto reato equivale, già di per sé, ad esprimere una prima forma di condanna irreversibile? Il punto, infatti, è che l'identità è il riflesso di sé negli altri: e se questi emettono una sentenza, il singolo individuo non può sperare, a dispetto di quella, di affermare la propria visione di sé. Mettiamo il caso, per esempio, che X sia pubblicamente accusato del furto di gioielli, ma che venga assolto per insufficienza di prove. Quale gioielliere non si sentirebbe indirettamente minacciato dal vederlo comparire nel proprio negozio? Per lui X, anche se magari è veramente innocente, non può che essere un potenziale ladro. La verità del gioielliere e quella di X sono equivalenti, entrambe valide poiché una è la verità a parere del primo, l'altra è la verità a parere del secondo. Verità, pertanto, sempre relativa, mai assoluta.
Questo dunque è il senso della risata finale di Laudisi: prendere polemicamente le distanze dalle illazioni e dai pettegolezzi sul conto del signor Ponza e della signora Frola. Che senso ha, infatti, accapigliarsi per affermare una verità che non potrà mai pretendere di imporsi come oggettiva? Inutile illudersi: Lina-Giulia sarà sempre velata di nero, impenetrabile; il principio di non contraddizione (per il quale una cosa è se stessa e non altro) è solo una convenzione di comodo imposta dalla ragione, ma non dà alcuna garanzia (giacché, come è evidente, può valere al massimo per le cose – e poi non sempre –, ma non per le persone). Laudisi-Pirandello ride perciò delle debolezze umane, della stolta illusione di riuscire a padroneggiare la realtà come se avesse un senso ben determinato; ma ride anche degli spettatori dell'opera teatrale, che fino all'ultimo si aspettano che la verità parli una volta per sempre, e quindi persino della stessa arte, capace tutt'al più di scomporre la vita, non certo di fornire una rappresentazione rassicurante di essa.

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mercoledì 18 giugno 2014

«Il nano»: la triste consapevolezza che «quasi ovunque i saggi sono al servizio degli stolti»

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 giugno 2014)

Scritta nel 1903, quando il suo autore Hermann Hesse aveva ventisei anni, la fiaba Il nano è un racconto di enorme fascino, ambientato in una Venezia rinascimentale che, sin dalle prime righe, evoca un'atmosfera fantastica e, allo stesso tempo, inquietante. «Se vi va, signori cari – è l'incipit di un non meglio precisato "vecchio narratore Cecco" –, oggi vi racconterei una storia vecchissima, in cui si parla di una bella dama, di un nano e di un filtro magico, di fedeltà e infedeltà, di amore e morte, come del resto in tutte le vecchie e nuove avventure e storie».
La dama era la nobildonna Margherita Cadorin, appartenente a una famiglia facoltosa nonché «la più bella tra le belle di Venezia». Tra tutte le sue fortune e ricchezze, ve n'era una che «le attirava l'invidia di molti più ricchi di lei»: si trattava del nano Filippo, un ometto tanto brutto quanto colto e intelligente, dotato di una straordinaria abilità nell'inventare e raccontare storie. Queste servivano ad allietare le giornate nelle quali Margherita, in compagnia delle sue cameriere e del suo pappagallo africano, se ne stava seduta per ore sotto il sole per schiarirsi i lunghi capelli biondi, «come voleva allora la moda».
Filippo possedeva un cagnolino cui era molto affezionato. Era il dono di un corteggiatore – respinto – di Margherita, di cui il nano si prendeva cura giacché la dama l'aveva rifiutato dopo che era rimasto zoppo a seguito di un incidente. Per Filippo, la bestiola era il solo, autentico affetto: e il legame tra i due era così saldo che – scrive Hesse – poteva senz'altro dirsi che non esistesse «un ricco nobiluomo [...] amato con altrettanta dedizione dai suoi migliori amici».
Quella di rifiutare i pretendenti era, per Margherita, una vera e propria regola: il suo carattere altero e superbo la rendeva, infatti, «riluttante all'amore», «quasi al mondo non vi fossero uomini». Ma, così come ogni regola ammette un'eccezione, anche per la ritrosa dama veneziana giunse il momento di cedere. Il tutto accadde durante una festa: un giovane e affascinante cavaliere, da poco giunto in città dopo un lungo viaggio in Oriente, fece immediatamente colpo su Margherita, che se ne innamorò perdutamente. Il suo nome era Baldassarre Morosini, e in un attimo anch'egli fu colpito dal fascino e dalla bellezza della nobildonna. Anzi, ne fu addirittura sedotto, tanto che l'indomani fece ritorno al palazzo del signor Cadorin con l'intento di chiedergli la mano della figlia. E, vista la disponibilità di quest'ultima, da lì a fissare il giorno delle nozze il passo fu breve.
Il matrimonio sarebbe stato celebrato dopo qualche tempo, dal momento che Baldassarre aveva intenzione di recarsi prima a Cipro per concludere importanti affari. L'idea di aspettare così a lungo non piacque però a Margherita, soprattutto dopo che ebbe constatato che il futuro marito non era, in realtà, quel gentiluomo che aveva finto di essere prima della promessa nuziale. «Irruento e imperioso per costituzione – così lo descrive Hesse –, navigando e mercatando si era abituato a vivere secondo i propri appetiti, senza curarsi minimamente degli altri».
Soprattutto, Baldassarre era un uomo violento e irascibile. E a fare le spese del suo brutto carattere furono, in rapida sequenza, il pappagallo e il cane di Filippo. Al primo fu fatto tirare il collo per aver dato una beccata al suo nuovo padrone; quanto al secondo, Baldassarre – furente perché la povera bestia abbaiava – gli sferrò un calcio così forte da farlo cadere nell'acqua del canale, dove, a causa dei suoi problemi alla zampa, annegò. A nulla valsero le suppliche di Filippo: Margherita non seppe opporsi al futuro sposo, il quale, sadico, per godersi lo spettacolo della morte dell'animale, intimò al vogatore di non intervenire con la sua gondola.
Il povero nano, sconvolto, si ritirò nelle sue stanze per lungo tempo. Ma i giorni passarono, e pian piano tutto parve tornare alla normalità. Una sera, poco prima della partenza di Baldassarre per Cipro, Margherita volle con sé Filippo per una gita in gondola. La dama era inquieta per le voci sempre più allarmanti che giravano sul conto del futuro sposo, e pensò quindi di farsi raccontare una storia per distrarre un po' la mente. Filippo narrò una vicenda riguardante suo padre, un medico che aveva appreso l'arte della magia. Su richiesta di una sirena, e dietro lauto compenso, questi aveva preparato un filtro d'amore per alleviare le pene della creatura marina. Ma, a dispetto delle sue buone intenzioni, non aveva riflettuto su quale fosse il destinatario della pozione: ed essendo questi un uomo, il risultato era stato che quest'ultimo, sedotto dalla sirena, era morto affogato.
La storia fece colpo su Margherita. Per legare definitivamente a sé il futuro marito, subito ella pensò di rivolgersi al fidato nano, confidando che avesse appreso dal padre la capacità di preparare filtri d'amore. Questi la tranquillizzò e le assicurò che le avrebbe presto fornito ciò che domandava. Di lì a poco giunse l'occasione propizia per somministrare il liquido miracoloso: durante una gita in gondola, venne infatti il momento di aprire una bottiglia di vino. Ma Baldassarre, prima di portare alle labbra il suo calice, volle che Filippo bevesse un sorso. E il nano, resosi conto che era inutile rifiutarsi, ubbidì, ben consapevole che il filtro – precedentemente versato nella bottiglia – era in realtà un potente veleno. Poco prima aveva riflettuto «sul fatto che per tutti gli esseri [...] la morte è sempre così vicina» e che «quasi ovunque i saggi sono al servizio degli stolti». Morì con questa consapevolezza, assaporando la sua vendetta nei confronti del crudele padrone, mentre Margherita impazzì, tormentata dal rimorso per non aver mosso un dito in difesa del vecchio amico e del suo amato cagnolino.
Quella di Hesse è dunque una storia amara, un racconto tragico il cui vero protagonista è forse il turbinio incontrollabile delle passioni umane. Non è facile trarre un insegnamento da questa fiaba (e forse lo scrittore tedesco non aveva nemmeno previsto per il suo racconto un intento didascalico): certo è però che essa parla di giustizia e di riscatto.
Filippo incarna la probità: è altruista, disponibile e generoso. Le sue doti – come quelle dell'animo – sono nascoste, tanto che nessuno sospetterebbe, a prima vista, della sua intelligenza. Con tutta evidenza, il suo aspetto fisico è la perfetta antitesi della levatura morale di cui in più occasioni dà prova.
Baldassarre, al contrario, è emblema della malvagità, un mostro dalle sembianze umane che si presenta ai suoi simili in forme suadenti, come quelle di un giovane affascinante e rassicurante (o forse rassicurante proprio in quanto affascinante), in attesa di rivelare, di colpo, la propria natura terrificante. Egli colpisce le debolezze di coloro che, incautamente, da lui si lasciano sedurre: e, quando ciò si verifica, la prospettiva non può che essere la morte o la pazzia (che equivale alla morte della dimensione razionale).
Tra i due poli si colloca infine Margherita, che rappresenta l'uomo con la sua libertà di scegliere tra bene e male, tra la bellezza interiore (autentica) e quella esteriore (ingannevole). La dama potrebbe decidere di essere giusta, accogliendo le suppliche di Filippo e mostrando un po' di umanità; ma preferisce, pilatescamente, ignorare la richiesta d'aiuto del suo vecchio amico, onde evitare di contrariare l'autoritario futuro marito. Il contatto con il male, di cui – con la fine tragica di Filippo – scopre di essere stata complice, ha un impatto devastante sulla sua psiche. La pazzia è l'inevitabile conseguenza del suo fallimento come persona: Margherita non può cioè convivere con il dolore che ha arrecato a se stessa e agli altri, poiché la sua ragione è incapace di sopportare il peso delle responsabilità.
Il male, in altre parole, ci raggiunge senza preavviso, quando meno ce lo aspettiamo. Di fronte ad esso possiamo reagire ribellandoci in nome del bene, oppure lasciandoci sopraffare, per debolezza o viltà. Ma una cosa è certa: tanto il bene quanto il male lasciano una scia. E se una persona è giusta – fa capire Hesse – sarà (forse) trattata con giustizia; se è malvagia, riceverà in cambio, alla prima occasione, vendetta e castigo. Anche se l'umanità, nel suo complesso, è meschina e crudele, esisteranno sempre persone in grado di distinguere tra bene e male; le quali, se portate a forza oltre i limiti dell'esasperazione, diventano completamente imprevedibili (e in parte, proprio per questo, pericolose). Hesse sembra esserne convinto: spesso «i saggi sono al servizio degli stolti». E, quando gli stolti esagerano, quando superano determinati limiti, quando si coprono di ridicolo e rasentano l'infamia, ecco che il saggio si sente soffocare e – per rispetto di sé e della propria intelligenza – avverte l'esigenza, in un modo o nell'altro, di farsi da parte.

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martedì 10 giugno 2014

«Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere»: l'insopprimibile speranza di un futuro migliore

(articolo apparso su Prima Pagina del 7 giugno 2014)

Composto nel 1832, il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere è una brevissima Operetta incentrata sul delicato tema della felicità e costituita da un fitto scambio di rapide battute tra due personaggi – insolitamente, per Leopardi – realistici e comuni.
Il dialogo si apre con le grida del venditore di almanacchi che offre per strada la sua merce (ovvero pubblicazioni ad ampia tiratura e diffusione che andavano affiancate al calendario). Alla domanda di un passante, che chiede se si tratti di almanacchi per l'anno venturo, il commerciante risponde affermativamente, dando inizio, di fatto, ad un serrato botta e risposta. Considerata la brevità del testo, conviene seguirlo alla lettera:
«Passeggere – Credete che sarà felice quest'anno nuovo?
Venditore – Oh, illustrissimo sì, certo.
P. – Come quest'anno passato?
V. – Più più assai.
P. – Come quello di là?
V. – Più più, illustrissimo.
P. – Ma come qual altro? Non vi piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
V. – Signor no, non mi piacerebbe.
P. – Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
V. – Saranno vent'anni, illustrissimo.
P. – A quale di cotesti vent'anni vorreste che somigliasse l'anno venturo?
V. – Io? non saprei.
P. – Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
V. – No in verità, illustrissimo.
P. – E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
V. – Cotesto si sa.
P. – Non tornereste voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
V. – Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
P. – Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
V. – Cotesto non vorrei.
P. – Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
V. – Lo credo cotesto.
P. – Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
V. – Signor no davvero, non tornerei.
P. – Oh che vita vorreste voi dunque?
V. – Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz'altri patti.
P. – Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
V. – Appunto.
P. – Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più  o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
V. – Speriamo».
Il Dialogo si conclude a questo punto con alcune battute volutamente insignificanti (come a voler dire che, dopo tanto filosofare, la vita riprende a scorrere con la consueta monotonia): il passante acquista un almanacco, e il venditore ricomincia a proporre a voce alta la sua merce.
La felicità è dunque per Leopardi nient'altro che una chimera, una continua e crudele illusione, uno stato d'animo che l'uomo non può fare a meno di vincolare all'immagine del futuro. Nessuno, in altre parole, potrà mai sentirsi del tutto appagato dal proprio presente, dal momento che è impossibile reprimere la speranza che il domani sia migliore dell'oggi. Dell'avvenire ci sforziamo di intravedere solo il bene, forse proprio perché il male è chiaramente percepibile giorno per giorno, e non c'è bisogno di figurarselo. Da un lato, infatti, abbiamo la certezza (che deriva dall'esperienza) della sofferenza; dall'altro il desiderio di sconfiggere il dolore. E siccome quest'ultimo ci perseguita dacché siamo al mondo, ci consoliamo con la previsione che, prima o poi, riusciremo a trovare la pace.
Leopardi però, al riguardo, è piuttosto scettico. Se è vero, come è costretto ad ammettere il venditore del Dialogo, che nessuno vorrebbe rivivere il passato (memore, evidentemente, dei «dispiaceri» più che dei «piaceri»), questo significa che ogni uomo si crede in credito con la sorte. La speranza è sempre superiore al rimpianto (o meglio: deve essere superiore in chi ha voglia di continuare a vivere), poiché solo il futuro può retroagire come motivazione a non darsi per vinti. Lo stesso messaggio cristiano – anche se è chiaro che Leopardi lo giudica negativamente (nel senso che lo considera l'ennesima illusione) – si basa su questo presupposto: il dolore della vita terrena, nella prospettiva di chi ha fede, diviene accettabile in quanto caparra per l'aldilà. E che cos'è l'aldilà se non un futuro che rende finalmente accessibile l'autentica felicità, vanamente inseguita durante l'intera parentesi dell'esistenza materiale?
La battuta finale del venditore racchiude pertanto l'amarezza di chi ha compreso che, al di là delle illusioni, la vita non è che un eterno, mediocre presente. In quello «Speriamo» è condensata tutta la filosofia di Leopardi: da un lato la visione pessimistica dell'esistenza, che tutto è tranne che un dono; dall'altro la tenace ostinazione a rimanere attaccati alla vita, manifestando con dignità la volontà di accettare il male per quello che è, magari imponendosi di professare un ottimismo che ha, in realtà, l'amaro sapore dell'ironia. L'Operetta ha quindi un duplice significato: svelare il vero (secondo il seguente ragionamento: la vita è sofferenza nel presente, è stata sempre sofferenza nel passato; perché illudersi che diventi felicità nel futuro?) e, al contempo, sottolineare che l'esistenza, così com'è, non ha alternative (ovvero: dal momento che si può solo supporre, ma non prevedere, il futuro, coltivare la speranza di un avvenire felice è un comportamento umano, naturale e immodificabile).
Al riguardo, merita di essere letta la riflessione – che funge da introduzione all'Operetta – contenuta nell'edizione Rizzoli a cura di Laura Melosi: «Si può anche avvicinare il passante perdigiorno a un maieuta socratico che provi a indirizzare l'ambulante lungo il sentiero della verità: ma forse conviene riconoscervi un moderno disilluso che incontra un illuso vero e si lascia prendere dalla voglia di demolirne la naturale ingenuità con un po' d'ironia e tanta desolazione. Contro ogni logica, al culmine della dimostrazione pessimistica del Passeggere, resiste tuttavia un qualche attaccamento alla vita, espresso nella battuta davvero conclusiva dell'operetta: quello "Speriamo" del Venditore d'almanacchi nel quale [...] non sarà fuori luogo cogliere una forma di pietà estrema dell'essere umano per sé e per i propri simili».
E l'ipotesi del suicidio? Leopardi l'ha già scartata nel Dialogo di Plotino e di Porfirio (che, significativamente, nelle Operette morali precede quello del venditore e del passeggere): togliersi la vita è un atto disumano ed egoista, giacché non tiene conto della sofferenza che si arreca alle persone care. «Colui che si uccide da se stesso – precisa infatti Plotino nella battuta conclusiva –, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo». La scelta è dunque obbligata: rassegnarsi a sopportare il dolore nel presente, confidando (seppur irrazionalmente) nell'avvenire. Solo l'ignoranza del futuro dà però l'illusione della speranza. E questa, si sa, è l'ultima a morire.

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giovedì 5 giugno 2014

«Dialogo della Moda e della Morte»: esortazione a vivere per uno scopo che nobiliti l'esistenza

(articolo apparso su Prima Pagina del 31 maggio 2014)

Scritto a Recanati nel febbraio del 1824, il Dialogo della Moda e della Morte è un accorato atto di accusa contro la vacuità della vita contemporanea, irrimediabilmente corrotta da modelli e comportamenti sociali del tutto frivoli e incompatibili con quella cultura che, a parere di Leopardi, costituisce il solo mezzo a disposizione per la conquista del vero. Al pari di molte altre Operette morali, questo Dialogo è espressione di un drastico pessimismo: l'umanità ha cioè imboccato una strada senza uscita, e procede a passo spedito verso un orizzonte di angosciante indifferenza. Non solo, infatti, essa è sempre più intorpidita e inconsapevole, ma cede – per ignoranza e repulsione nei confronti della cultura – al fascino seduttore di falsi ed ingannevoli miti, facendosi trovare completamente impreparata all'appuntamento, improcrastinabile, con la morte.
Il Dialogo si apre con le pressanti richieste della Moda, che domanda alla Morte – raffigurata come uno scheletro in costante movimento – di fermarsi un momento per ascoltarla. Questa però si mostra contrariata, infastidita dall'insistenza della sua interlocutrice: «Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai», replica stizzita. Ma la Moda, per nulla intimorita, non vuole sentire ragioni, e in tono provocatorio ribatte: «Come se io non fossi immortale».
Stupita da tanto ardire (e più che altro incredula), la Morte accetta, incuriosita, di proseguire il dialogo. E la Moda, finalmente degnata di attenzione, afferma di essere sua sorella, poiché entrambe – aggiunge – sono «nate dalla Caducità» e mirano «a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù». Il concetto è approfondito nella battuta seguente: «Dico – è sempre la Moda che parla – che la nostra natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali». Per seguire la moda, infatti, l'uomo moderno mette di continuo a repentaglio la propria salute fisica (qui Leopardi allude all'usanza di «sforacchiare quando orecchi, quando labbra e nasi», di «abbruciacchiare le carni [...] con stampe roventi» [i tatuaggi], di «sformare le teste dei bambini con fasciature e altri ingegni» e di fare uso di calzature e bustini strettissimi), incurante dei disagi e del dolore. Il che non fa altro che facilitare il compito della Morte, la quale deve fare i conti con un'umanità distratta e arrendevole.
Convintasi a questo punto della plausibilità della parentela («In conclusione io ti credo che mi sii sorella»), la Morte propone dunque alla sua interlocutrice di pianificare una più efficace collaborazione, al fine di semplificarsi il lavoro. Replica però, con malcelato risentimento, la Moda: «Io l'ho fatto già per l'addietro più che non pensi. Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le usanze, non ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo». E ancora, in risposta alla battuta sarcastica della Morte («Gran miracolo, che tu non abbi fatto quello che non hai potuto!»): «A poco per volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita». Il risultato – prosegue la Moda – è che «la vita stessa [...] è più morta che viva».
Leopardi, in sostanza, sta dicendo che il mondo moderno ha perso di vista le virtù – fisiche e morali – dell'uomo dell'antichità. Se un tempo, infatti, la vita era concepita come una lunga sfida alla morte (il che significava essere determinati a lasciare traccia di sé dopo il trapasso), nella civiltà ossessionata dalla moda (una civiltà apatica, rassegnata e inconcludente) il traguardo della sopravvivenza oltre i limiti dell'esistenza terrena risulta essere pressoché irraggiungibile. Anzi: a dire il vero, esso non è neppure più percepito come traguardo. La conclusione, a questo punto scontata, del dialogo è che l'unione di Moda e Morte non fa altro che rendere irreversibile l'annichilimento degli esseri umani, per i quali la fine della vita coincide sempre più spesso con la fine di tutto.
L'Operetta di Leopardi è pertanto una severa denuncia del malcostume della società contemporanea. Il che suscita immediatamente un interrogativo: per quale motivo lo scrittore pessimista per antonomasia dovrebbe rimpiangere i tempi passati, e quindi indirettamente ammettere – attraverso la critica del presente – che, quantomeno a livello teorico, si possa sfidare la morte? Forse che il suo pessimismo vada attentamente decifrato e circoscritto alla mancata fiducia non nell'umanità in senso lato, ma nell'umanità che è espressione sempre più deprimente della modernità?
Un conto, infatti, è negare in senso assoluto che una "convivenza" tra l'uomo e l'idea della morte sia possibile; altra cosa è sostenere che la virtù degli antichi sia ormai niente più che un lontano ricordo. Vale a dire: essa sarà anche andata perduta, ma è esistita e, potenzialmente, potrebbe essere recuperata, a patto però – s'intende – di guardare in faccia la realtà. E qual è, in effetti, la nostra realtà? Oggi – e non è difficile immaginare cosa scriverebbe Leopardi nel 2014 – viviamo in un mondo per il quale la morte è diventata un tabù: siccome non sappiamo come affrontarla, meglio evitare di parlarne. Eppure è evidente che per trovare un motivo valido che giustifichi la nostra presenza su questa terra occorre partire proprio dalla consapevolezza che abbiamo tutti una data di scadenza. La vita – lascia intendere Leopardi – è troppo breve per sprecarla inseguendo falsi miti: la moda non è altro che una perdita di tempo, una distrazione infantile che, a lungo andare, ci rende schiavi della banalità.
Il problema di fondo è pertanto racchiuso in una domanda: come gestire l'ineluttabilità della morte? L'unica soluzione è fare in modo che la consapevolezza della caducità umana retroagisca come motivazione; il che è l'esatto contrario di quello che si verifica oggi. Posto infatti che il nostro secolo, giacché teme la morte più di ogni altra cosa, esorcizza l'angoscia del trapasso con la moda, non c'è da stupirsi se la fine di una vita ci coglie sempre più impreparati. Al contrario, se si accetta di guardare la morte negli occhi, il rischio di sprecare il tempo a disposizione diminuisce. La vita, in altre parole, è un lungo allenamento della capacità di sopportare l'inquietante consapevolezza che tutto è destinato a perire. È inutile – ed estremamente controproducente – far finta di niente e, al pari degli struzzi, nascondere la testa sotto la sabbia: come ci dice Alan Ball, pluripremiato regista di capolavori quali American Beauty e Six Feet Under, «Everyone's Waiting», ognuno attende (l'inevitabile).
Leopardi ci fa capire che l'obiettivo della nostra vita è creare i presupposti per essere rimpianti dopo morti. Lasciare traccia di sé, delle proprie opere, del bene che si è seminato: è questo il solo rimedio contro l'angoscia che ci tormenta a causa della nostra transitorietà. La morte deve diventare un pungolo che ci spinge a dare il meglio di noi stessi, così che quando cesseremo di vivere qualcuno si accorga della nostra dipartita. È questo il solo, dignitoso modo per dare un senso all'esistenza terrena: diventare importanti per qualcuno, donare se stessi per il bene altrui, alleviare le sofferenze di chi è afflitto dal dolore. Tanto è inutile illudersi: tutto ha una fine, compreso il mondo che abbiamo la fortuna di abitare. E se anche non riusciamo a convincerci che la vita abbia (o meriti) uno scopo, anche se non crediamo in Dio e siamo persuasi che l'universo sia governato dal caso, la questione di fondo resta sempre la stessa: perché vivere sprecando inutilmente i nostri giorni? Perché inseguire falsi miti? Piuttosto rendiamoci utili, ribelliamoci alla rassegnazione. Facciamo in modo che quando ce ne saremo andati le persone a noi care sentano davvero la nostra mancanza. E, soprattutto, sforziamoci di vivere senza rimpianti, perché non si dica che siamo esistiti per niente. Così facendo, qualunque sorpresa ci riservi il destino, abbiamo forse qualche cosa da perdere?

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