(articolo apparso su Prima Pagina del 7 giugno 2014)
Composto nel 1832, il Dialogo di
un venditore d'almanacchi e di un passeggere è una brevissima Operetta
incentrata sul delicato tema della felicità e costituita da un fitto scambio di
rapide battute tra due personaggi – insolitamente, per Leopardi – realistici e
comuni.
Il dialogo si apre con le grida del
venditore di almanacchi che offre per strada la sua merce (ovvero pubblicazioni
ad ampia tiratura e diffusione che andavano affiancate al calendario). Alla domanda
di un passante, che chiede se si tratti di almanacchi per l'anno venturo, il
commerciante risponde affermativamente, dando inizio, di fatto, ad un serrato
botta e risposta. Considerata la brevità del testo, conviene seguirlo alla
lettera:
«Passeggere – Credete che sarà felice
quest'anno nuovo?
Venditore – Oh, illustrissimo sì,
certo.
P. – Come quest'anno passato?
V. – Più più assai.
P. – Come quello di là?
V. – Più più, illustrissimo.
P. – Ma come qual altro? Non vi
piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
V. – Signor no, non mi piacerebbe.
P. – Quanti anni nuovi sono passati
da che voi vendete almanacchi?
V. – Saranno vent'anni,
illustrissimo.
P. – A quale di cotesti vent'anni
vorreste che somigliasse l'anno venturo?
V. – Io? non saprei.
P. – Non vi ricordate di nessun anno
in particolare, che vi paresse felice?
V. – No in verità, illustrissimo.
P. – E pure la vita è una cosa bella.
Non è vero?
V. – Cotesto si sa.
P. – Non tornereste voi a vivere
cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
V. – Eh, caro signore, piacesse a Dio
che si potesse.
P. – Ma se aveste a rifare la vita
che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete
passati?
V. – Cotesto non vorrei.
P. – Oh che altra vita vorreste
rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non
credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi
per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno
vorrebbe tornare indietro?
V. – Lo credo cotesto.
P. – Né anche voi tornereste indietro
con questo patto, non potendo in altro modo?
V. – Signor no davvero, non tornerei.
P. – Oh che vita vorreste voi dunque?
V. – Vorrei una vita così, come Dio
me la mandasse, senz'altri patti.
P. – Una vita a caso, e non saperne
altro avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
V. – Appunto.
P. – Così vorrei ancor io se avessi a
rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno,
ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia
stato più o di più peso il male che gli
è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il
suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch'è una cosa
bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita
passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi
e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
V. – Speriamo».
Il Dialogo si conclude a
questo punto con alcune battute volutamente insignificanti (come a voler dire
che, dopo tanto filosofare, la vita riprende a scorrere con la consueta
monotonia): il passante acquista un almanacco, e il venditore ricomincia a
proporre a voce alta la sua merce.
La felicità è dunque per Leopardi
nient'altro che una chimera, una continua e crudele illusione, uno stato
d'animo che l'uomo non può fare a meno di vincolare all'immagine del futuro.
Nessuno, in altre parole, potrà mai sentirsi del tutto appagato dal proprio
presente, dal momento che è impossibile reprimere la speranza che il domani sia
migliore dell'oggi. Dell'avvenire ci sforziamo di intravedere solo il bene,
forse proprio perché il male è chiaramente percepibile giorno per giorno, e non
c'è bisogno di figurarselo. Da un lato, infatti, abbiamo la certezza (che
deriva dall'esperienza) della sofferenza; dall'altro il desiderio di
sconfiggere il dolore. E siccome quest'ultimo ci perseguita dacché siamo al
mondo, ci consoliamo con la previsione che, prima o poi, riusciremo a trovare
la pace.
Leopardi però, al riguardo, è
piuttosto scettico. Se è vero, come è costretto ad ammettere il venditore del Dialogo,
che nessuno vorrebbe rivivere il passato (memore, evidentemente, dei «dispiaceri»
più che dei «piaceri»), questo significa che ogni uomo si crede in credito con
la sorte. La speranza è sempre superiore al rimpianto (o meglio: deve essere
superiore in chi ha voglia di continuare a vivere), poiché solo il futuro può
retroagire come motivazione a non darsi per vinti. Lo stesso messaggio
cristiano – anche se è chiaro che Leopardi lo giudica negativamente (nel senso
che lo considera l'ennesima illusione) – si basa su questo presupposto: il
dolore della vita terrena, nella prospettiva di chi ha fede, diviene
accettabile in quanto caparra per l'aldilà. E che cos'è l'aldilà se non un
futuro che rende finalmente accessibile l'autentica felicità, vanamente
inseguita durante l'intera parentesi dell'esistenza materiale?
La battuta finale del venditore
racchiude pertanto l'amarezza di chi ha compreso che, al di là delle illusioni,
la vita non è che un eterno, mediocre presente. In quello «Speriamo» è
condensata tutta la filosofia di Leopardi: da un lato la visione pessimistica
dell'esistenza, che tutto è tranne che un dono; dall'altro la tenace
ostinazione a rimanere attaccati alla vita, manifestando con dignità la volontà
di accettare il male per quello che è, magari imponendosi di professare un
ottimismo che ha, in realtà, l'amaro sapore dell'ironia. L'Operetta ha
quindi un duplice significato: svelare il vero (secondo il seguente
ragionamento: la vita è sofferenza nel presente, è stata sempre sofferenza nel
passato; perché illudersi che diventi felicità nel futuro?) e, al contempo,
sottolineare che l'esistenza, così com'è, non ha alternative (ovvero: dal
momento che si può solo supporre, ma non prevedere, il futuro, coltivare la
speranza di un avvenire felice è un comportamento umano, naturale e
immodificabile).
Al riguardo, merita di essere letta
la riflessione – che funge da introduzione all'Operetta – contenuta
nell'edizione Rizzoli a cura di Laura Melosi: «Si può anche avvicinare il passante
perdigiorno a un maieuta socratico che provi a indirizzare l'ambulante lungo il
sentiero della verità: ma forse conviene riconoscervi un moderno disilluso che
incontra un illuso vero e si lascia prendere dalla voglia di demolirne la
naturale ingenuità con un po' d'ironia e tanta desolazione. Contro ogni logica,
al culmine della dimostrazione pessimistica del Passeggere, resiste tuttavia un
qualche attaccamento alla vita, espresso nella battuta davvero conclusiva
dell'operetta: quello "Speriamo" del Venditore d'almanacchi nel quale
[...] non sarà fuori luogo cogliere una forma di pietà estrema dell'essere
umano per sé e per i propri simili».
E l'ipotesi del suicidio? Leopardi
l'ha già scartata nel Dialogo di Plotino e di Porfirio (che, significativamente,
nelle Operette morali precede quello del venditore e del passeggere):
togliersi la vita è un atto disumano ed egoista, giacché non tiene conto della
sofferenza che si arreca alle persone care. «Colui che si uccide da se stesso –
precisa infatti Plotino nella battuta conclusiva –, non ha cura né pensiero
alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così
dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in
questa azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido,
o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo, che si trovi al
mondo». La scelta è dunque obbligata: rassegnarsi a sopportare il dolore nel
presente, confidando (seppur irrazionalmente) nell'avvenire. Solo l'ignoranza
del futuro dà però l'illusione della speranza. E questa, si sa, è l'ultima a
morire.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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