mercoledì 18 giugno 2014

«Il nano»: la triste consapevolezza che «quasi ovunque i saggi sono al servizio degli stolti»

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 giugno 2014)

Scritta nel 1903, quando il suo autore Hermann Hesse aveva ventisei anni, la fiaba Il nano è un racconto di enorme fascino, ambientato in una Venezia rinascimentale che, sin dalle prime righe, evoca un'atmosfera fantastica e, allo stesso tempo, inquietante. «Se vi va, signori cari – è l'incipit di un non meglio precisato "vecchio narratore Cecco" –, oggi vi racconterei una storia vecchissima, in cui si parla di una bella dama, di un nano e di un filtro magico, di fedeltà e infedeltà, di amore e morte, come del resto in tutte le vecchie e nuove avventure e storie».
La dama era la nobildonna Margherita Cadorin, appartenente a una famiglia facoltosa nonché «la più bella tra le belle di Venezia». Tra tutte le sue fortune e ricchezze, ve n'era una che «le attirava l'invidia di molti più ricchi di lei»: si trattava del nano Filippo, un ometto tanto brutto quanto colto e intelligente, dotato di una straordinaria abilità nell'inventare e raccontare storie. Queste servivano ad allietare le giornate nelle quali Margherita, in compagnia delle sue cameriere e del suo pappagallo africano, se ne stava seduta per ore sotto il sole per schiarirsi i lunghi capelli biondi, «come voleva allora la moda».
Filippo possedeva un cagnolino cui era molto affezionato. Era il dono di un corteggiatore – respinto – di Margherita, di cui il nano si prendeva cura giacché la dama l'aveva rifiutato dopo che era rimasto zoppo a seguito di un incidente. Per Filippo, la bestiola era il solo, autentico affetto: e il legame tra i due era così saldo che – scrive Hesse – poteva senz'altro dirsi che non esistesse «un ricco nobiluomo [...] amato con altrettanta dedizione dai suoi migliori amici».
Quella di rifiutare i pretendenti era, per Margherita, una vera e propria regola: il suo carattere altero e superbo la rendeva, infatti, «riluttante all'amore», «quasi al mondo non vi fossero uomini». Ma, così come ogni regola ammette un'eccezione, anche per la ritrosa dama veneziana giunse il momento di cedere. Il tutto accadde durante una festa: un giovane e affascinante cavaliere, da poco giunto in città dopo un lungo viaggio in Oriente, fece immediatamente colpo su Margherita, che se ne innamorò perdutamente. Il suo nome era Baldassarre Morosini, e in un attimo anch'egli fu colpito dal fascino e dalla bellezza della nobildonna. Anzi, ne fu addirittura sedotto, tanto che l'indomani fece ritorno al palazzo del signor Cadorin con l'intento di chiedergli la mano della figlia. E, vista la disponibilità di quest'ultima, da lì a fissare il giorno delle nozze il passo fu breve.
Il matrimonio sarebbe stato celebrato dopo qualche tempo, dal momento che Baldassarre aveva intenzione di recarsi prima a Cipro per concludere importanti affari. L'idea di aspettare così a lungo non piacque però a Margherita, soprattutto dopo che ebbe constatato che il futuro marito non era, in realtà, quel gentiluomo che aveva finto di essere prima della promessa nuziale. «Irruento e imperioso per costituzione – così lo descrive Hesse –, navigando e mercatando si era abituato a vivere secondo i propri appetiti, senza curarsi minimamente degli altri».
Soprattutto, Baldassarre era un uomo violento e irascibile. E a fare le spese del suo brutto carattere furono, in rapida sequenza, il pappagallo e il cane di Filippo. Al primo fu fatto tirare il collo per aver dato una beccata al suo nuovo padrone; quanto al secondo, Baldassarre – furente perché la povera bestia abbaiava – gli sferrò un calcio così forte da farlo cadere nell'acqua del canale, dove, a causa dei suoi problemi alla zampa, annegò. A nulla valsero le suppliche di Filippo: Margherita non seppe opporsi al futuro sposo, il quale, sadico, per godersi lo spettacolo della morte dell'animale, intimò al vogatore di non intervenire con la sua gondola.
Il povero nano, sconvolto, si ritirò nelle sue stanze per lungo tempo. Ma i giorni passarono, e pian piano tutto parve tornare alla normalità. Una sera, poco prima della partenza di Baldassarre per Cipro, Margherita volle con sé Filippo per una gita in gondola. La dama era inquieta per le voci sempre più allarmanti che giravano sul conto del futuro sposo, e pensò quindi di farsi raccontare una storia per distrarre un po' la mente. Filippo narrò una vicenda riguardante suo padre, un medico che aveva appreso l'arte della magia. Su richiesta di una sirena, e dietro lauto compenso, questi aveva preparato un filtro d'amore per alleviare le pene della creatura marina. Ma, a dispetto delle sue buone intenzioni, non aveva riflettuto su quale fosse il destinatario della pozione: ed essendo questi un uomo, il risultato era stato che quest'ultimo, sedotto dalla sirena, era morto affogato.
La storia fece colpo su Margherita. Per legare definitivamente a sé il futuro marito, subito ella pensò di rivolgersi al fidato nano, confidando che avesse appreso dal padre la capacità di preparare filtri d'amore. Questi la tranquillizzò e le assicurò che le avrebbe presto fornito ciò che domandava. Di lì a poco giunse l'occasione propizia per somministrare il liquido miracoloso: durante una gita in gondola, venne infatti il momento di aprire una bottiglia di vino. Ma Baldassarre, prima di portare alle labbra il suo calice, volle che Filippo bevesse un sorso. E il nano, resosi conto che era inutile rifiutarsi, ubbidì, ben consapevole che il filtro – precedentemente versato nella bottiglia – era in realtà un potente veleno. Poco prima aveva riflettuto «sul fatto che per tutti gli esseri [...] la morte è sempre così vicina» e che «quasi ovunque i saggi sono al servizio degli stolti». Morì con questa consapevolezza, assaporando la sua vendetta nei confronti del crudele padrone, mentre Margherita impazzì, tormentata dal rimorso per non aver mosso un dito in difesa del vecchio amico e del suo amato cagnolino.
Quella di Hesse è dunque una storia amara, un racconto tragico il cui vero protagonista è forse il turbinio incontrollabile delle passioni umane. Non è facile trarre un insegnamento da questa fiaba (e forse lo scrittore tedesco non aveva nemmeno previsto per il suo racconto un intento didascalico): certo è però che essa parla di giustizia e di riscatto.
Filippo incarna la probità: è altruista, disponibile e generoso. Le sue doti – come quelle dell'animo – sono nascoste, tanto che nessuno sospetterebbe, a prima vista, della sua intelligenza. Con tutta evidenza, il suo aspetto fisico è la perfetta antitesi della levatura morale di cui in più occasioni dà prova.
Baldassarre, al contrario, è emblema della malvagità, un mostro dalle sembianze umane che si presenta ai suoi simili in forme suadenti, come quelle di un giovane affascinante e rassicurante (o forse rassicurante proprio in quanto affascinante), in attesa di rivelare, di colpo, la propria natura terrificante. Egli colpisce le debolezze di coloro che, incautamente, da lui si lasciano sedurre: e, quando ciò si verifica, la prospettiva non può che essere la morte o la pazzia (che equivale alla morte della dimensione razionale).
Tra i due poli si colloca infine Margherita, che rappresenta l'uomo con la sua libertà di scegliere tra bene e male, tra la bellezza interiore (autentica) e quella esteriore (ingannevole). La dama potrebbe decidere di essere giusta, accogliendo le suppliche di Filippo e mostrando un po' di umanità; ma preferisce, pilatescamente, ignorare la richiesta d'aiuto del suo vecchio amico, onde evitare di contrariare l'autoritario futuro marito. Il contatto con il male, di cui – con la fine tragica di Filippo – scopre di essere stata complice, ha un impatto devastante sulla sua psiche. La pazzia è l'inevitabile conseguenza del suo fallimento come persona: Margherita non può cioè convivere con il dolore che ha arrecato a se stessa e agli altri, poiché la sua ragione è incapace di sopportare il peso delle responsabilità.
Il male, in altre parole, ci raggiunge senza preavviso, quando meno ce lo aspettiamo. Di fronte ad esso possiamo reagire ribellandoci in nome del bene, oppure lasciandoci sopraffare, per debolezza o viltà. Ma una cosa è certa: tanto il bene quanto il male lasciano una scia. E se una persona è giusta – fa capire Hesse – sarà (forse) trattata con giustizia; se è malvagia, riceverà in cambio, alla prima occasione, vendetta e castigo. Anche se l'umanità, nel suo complesso, è meschina e crudele, esisteranno sempre persone in grado di distinguere tra bene e male; le quali, se portate a forza oltre i limiti dell'esasperazione, diventano completamente imprevedibili (e in parte, proprio per questo, pericolose). Hesse sembra esserne convinto: spesso «i saggi sono al servizio degli stolti». E, quando gli stolti esagerano, quando superano determinati limiti, quando si coprono di ridicolo e rasentano l'infamia, ecco che il saggio si sente soffocare e – per rispetto di sé e della propria intelligenza – avverte l'esigenza, in un modo o nell'altro, di farsi da parte.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

1 commento: