(articolo apparso su Prima Pagina del 31 maggio 2014)
Scritto a Recanati nel febbraio del
1824, il Dialogo della Moda e della Morte è un accorato atto di accusa
contro la vacuità della vita contemporanea, irrimediabilmente corrotta da
modelli e comportamenti sociali del tutto frivoli e incompatibili con quella
cultura che, a parere di Leopardi, costituisce il solo mezzo a disposizione per
la conquista del vero. Al pari di molte altre Operette morali, questo Dialogo
è espressione di un drastico pessimismo: l'umanità ha cioè imboccato una strada
senza uscita, e procede a passo spedito verso un orizzonte di angosciante
indifferenza. Non solo, infatti, essa è sempre più intorpidita e inconsapevole,
ma cede – per ignoranza e repulsione nei confronti della cultura – al fascino
seduttore di falsi ed ingannevoli miti, facendosi trovare completamente
impreparata all'appuntamento, improcrastinabile, con la morte.
Il Dialogo si apre con le
pressanti richieste della Moda, che domanda alla Morte – raffigurata come uno
scheletro in costante movimento – di fermarsi un momento per ascoltarla. Questa
però si mostra contrariata, infastidita dall'insistenza della sua
interlocutrice: «Vattene col diavolo. Verrò quando tu non vorrai», replica
stizzita. Ma la Moda, per nulla intimorita, non vuole sentire ragioni, e in
tono provocatorio ribatte: «Come se io non fossi immortale».
Stupita da tanto ardire (e più che
altro incredula), la Morte accetta, incuriosita, di proseguire il dialogo. E la
Moda, finalmente degnata di attenzione, afferma di essere sua sorella, poiché entrambe
– aggiunge – sono «nate dalla Caducità» e mirano «a disfare e a rimutare di
continuo le cose di quaggiù». Il concetto è approfondito nella battuta
seguente: «Dico – è sempre la Moda che parla – che la nostra natura e usanza
comune è di rinnovare continuamente il mondo, ma tu fino da principio ti
gittasti alle persone e al sangue; io mi contento per lo più delle barbe, dei
capelli, degli abiti, delle masserizie, dei palazzi e di cose tali». Per
seguire la moda, infatti, l'uomo moderno mette di continuo a repentaglio la
propria salute fisica (qui Leopardi allude all'usanza di «sforacchiare quando
orecchi, quando labbra e nasi», di «abbruciacchiare le carni [...] con stampe
roventi» [i tatuaggi], di «sformare le teste dei bambini con fasciature e altri
ingegni» e di fare uso di calzature e bustini strettissimi), incurante dei
disagi e del dolore. Il che non fa altro che facilitare il compito della Morte,
la quale deve fare i conti con un'umanità distratta e arrendevole.
Convintasi a questo punto della
plausibilità della parentela («In conclusione io ti credo che mi sii sorella»),
la Morte propone dunque alla sua interlocutrice di pianificare una più efficace
collaborazione, al fine di semplificarsi il lavoro. Replica però, con malcelato
risentimento, la Moda: «Io l'ho fatto già per l'addietro più che non pensi.
Primieramente io che annullo o stravolgo per lo continuo tutte le usanze, non
ho mai lasciato smettere in nessun luogo la pratica di morire, e per questo
vedi che ella dura universalmente insino a oggi dal principio del mondo». E
ancora, in risposta alla battuta sarcastica della Morte («Gran miracolo, che tu
non abbi fatto quello che non hai potuto!»): «A poco per volta, ma il più in
questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le
fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e introdottone o
recato in pregio innumerabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano
la vita». Il risultato – prosegue la Moda – è che «la vita stessa [...] è più
morta che viva».
Leopardi, in sostanza, sta dicendo
che il mondo moderno ha perso di vista le virtù – fisiche e morali – dell'uomo
dell'antichità. Se un tempo, infatti, la vita era concepita come una lunga
sfida alla morte (il che significava essere determinati a lasciare traccia di
sé dopo il trapasso), nella civiltà ossessionata dalla moda (una civiltà
apatica, rassegnata e inconcludente) il traguardo della sopravvivenza oltre i
limiti dell'esistenza terrena risulta essere pressoché irraggiungibile. Anzi: a
dire il vero, esso non è neppure più percepito come traguardo. La conclusione,
a questo punto scontata, del dialogo è che l'unione di Moda e Morte non fa
altro che rendere irreversibile l'annichilimento degli esseri umani, per i
quali la fine della vita coincide sempre più spesso con la fine di tutto.
L'Operetta di Leopardi è
pertanto una severa denuncia del malcostume della società contemporanea. Il che
suscita immediatamente un interrogativo: per quale motivo lo scrittore
pessimista per antonomasia dovrebbe rimpiangere i tempi passati, e quindi
indirettamente ammettere – attraverso la critica del presente – che, quantomeno
a livello teorico, si possa sfidare la morte? Forse che il suo pessimismo vada attentamente
decifrato e circoscritto alla mancata fiducia non nell'umanità in senso lato,
ma nell'umanità che è espressione sempre più deprimente della modernità?
Un conto, infatti, è negare in senso
assoluto che una "convivenza" tra l'uomo e l'idea della morte sia
possibile; altra cosa è sostenere che la virtù degli antichi sia ormai niente
più che un lontano ricordo. Vale a dire: essa sarà anche andata perduta, ma è
esistita e, potenzialmente, potrebbe essere recuperata, a patto però –
s'intende – di guardare in faccia la realtà. E qual è, in effetti, la nostra
realtà? Oggi – e non è difficile immaginare cosa scriverebbe Leopardi nel 2014
– viviamo in un mondo per il quale la morte è diventata un tabù: siccome non
sappiamo come affrontarla, meglio evitare di parlarne. Eppure è evidente che
per trovare un motivo valido che giustifichi la nostra presenza su questa terra
occorre partire proprio dalla consapevolezza che abbiamo tutti una data di
scadenza. La vita – lascia intendere Leopardi – è troppo breve per sprecarla
inseguendo falsi miti: la moda non è altro che una perdita di tempo, una
distrazione infantile che, a lungo andare, ci rende schiavi della banalità.
Il problema di fondo è pertanto
racchiuso in una domanda: come gestire l'ineluttabilità della morte? L'unica
soluzione è fare in modo che la consapevolezza della caducità umana retroagisca
come motivazione; il che è l'esatto contrario di quello che si verifica oggi.
Posto infatti che il nostro secolo, giacché teme la morte più di ogni altra
cosa, esorcizza l'angoscia del trapasso con la moda, non c'è da stupirsi se la
fine di una vita ci coglie sempre più impreparati. Al contrario, se si accetta
di guardare la morte negli occhi, il rischio di sprecare il tempo a
disposizione diminuisce. La vita, in altre parole, è un lungo allenamento della
capacità di sopportare l'inquietante consapevolezza che tutto è destinato a
perire. È inutile – ed estremamente controproducente – far finta di niente e,
al pari degli struzzi, nascondere la testa sotto la sabbia: come ci dice Alan
Ball, pluripremiato regista di capolavori quali American Beauty e Six
Feet Under, «Everyone's Waiting», ognuno attende (l'inevitabile).
Leopardi ci fa capire che l'obiettivo
della nostra vita è creare i presupposti per essere rimpianti dopo morti.
Lasciare traccia di sé, delle proprie opere, del bene che si è seminato: è
questo il solo rimedio contro l'angoscia che ci tormenta a causa della nostra
transitorietà. La morte deve diventare un pungolo che ci spinge a dare il
meglio di noi stessi, così che quando cesseremo di vivere qualcuno si accorga
della nostra dipartita. È questo il solo, dignitoso modo per dare un senso all'esistenza
terrena: diventare importanti per qualcuno, donare se stessi per il bene
altrui, alleviare le sofferenze di chi è afflitto dal dolore. Tanto è inutile
illudersi: tutto ha una fine, compreso il mondo che abbiamo la fortuna di
abitare. E se anche non riusciamo a convincerci che la vita abbia (o meriti)
uno scopo, anche se non crediamo in Dio e siamo persuasi che l'universo sia
governato dal caso, la questione di fondo resta sempre la stessa: perché vivere
sprecando inutilmente i nostri giorni? Perché inseguire falsi miti? Piuttosto
rendiamoci utili, ribelliamoci alla rassegnazione. Facciamo in modo che quando
ce ne saremo andati le persone a noi care sentano davvero la nostra mancanza.
E, soprattutto, sforziamoci di vivere senza rimpianti, perché non si dica che
siamo esistiti per niente. Così facendo, qualunque sorpresa ci riservi il
destino, abbiamo forse qualche cosa da perdere?
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
secondo la mia opinione la moda fa dei piccoli esempi delle nuove tendenze imposta dagli uomini che causeranno delle malattie; invece della morte in merito dice se c'è ancora la moda di morte altrimenti nessuno muore. La moda ha messo l'ordine.
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