lunedì 28 luglio 2014

«Libertà»: una parola vuota, se fraintesa persino potenzialmente pericolosa

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 luglio 2014)

Apparsa su «La domenica letteraria» il 12 marzo 1882, Libertà è una novella tra le più singolari e significative di Giovanni Verga. È ispirata a un fatto storico: nell'agosto del 1860, dopo la cacciata dei Borboni dalla Sicilia, i contadini di Bronte (piccolo paese alle pendici dell'Etna) massacrarono indistintamente i membri delle classi abbienti, convinti che – coll'imminente arrivo delle truppe garibaldine – sarebbe stato instaurato un nuovo ordine sociale attraverso la libera distribuzione delle terre demaniali. Quando però giunse in paese Nino Bixio (luogotenente di Garibaldi), fu ordinata una durissima repressione: dopo un processo sommario si procedette alla fucilazione di cinque persone, mentre molti altri presunti responsabili furono trasportati a Catania per scontare lunghe pene detentive.
Pur senza nominare esplicitamente Bronte, Verga dipinge un quadro estremamente realistico della vicenda, avendo cura di mettere in risalto soprattutto la furia cieca che sta alla base della rivolta. La sua è, chiaramente, una visione conservatrice, che non concede alcuna attenuante all'irrazionale ferocia del popolo: ma non per questo viene meno la pietà per le vittime, che anzi fa da sottofondo all'intero racconto, a prescindere dall'estrazione sociale delle persone coinvolte.
«Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: "Viva la libertà!". Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche, le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciola».
Con queste parole Verga dà inizio alla narrazione. Senza alcun preambolo, il lettore è condotto direttamente al centro dell'azione. Lo sventolio di un tricolore – simbolo della rivoluzione in atto –, le scuri, le falci e un'impetuosa fiumana di «berrette bianche» (ovvero di popolani, che indossano questo copricapo in contrapposizione con i signori, che portano il cappello): tutte immagini che, giustapposte con voluto disordine, danno l'impressione della folla che travolge ogni cosa come un «mare in tempesta». La rivolta non guarda in faccia a nessuno. Uomini, donne, bambini: se si appartiene alle classi alte, si è colpiti senza pietà. «Anche il lupo allorché capita affamato in una mandria, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia», scrive Verga. Ed ecco che, accecati dall'odio e dalla frustrazione, i contadini piombano famelici sui «cappelli», sul prete, sulle nobildonne e sui loro figli. Nessuno può essere risparmiato, poiché – tutti dicono – è ora che trionfi la libertà.
Vale la pena citare un brano, giusto per apprezzare la cruda prosa verghiana: «Ma il peggio avvenne appena cadde il figliuolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa come, travolto dalla folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio gridandogli: – Neddu! Neddu! – Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora con le mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!».
Cessato il massacro, si fa sera. Nel paese, dopo che tutti sono rientrati nelle proprie case, regna un silenzio quasi irreale. L'indomani (una domenica) le piazze si riempiono di gente incuriosita, per lo più spaesata per quanto accaduto il giorno precedente. Tutto il furore, l'odio e la violenza paiono estranei, come se la rivolta fosse stata un capriccio infantile. Presto ci si rende conto che la nuova libertà non è semplice da gestire. Manca la messa, e – scrive Verga – i contadini «senza messa, non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani». Ma c'è da affrontare, più che altro, la spinosa questione della spartizione delle terre: chi si prende cosa, a che titolo e con quali garanzie? Di fatto, «ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino». Pur senza i cappelli, aleggia, più forte di prima, la paura della prevaricazione, della prepotenza del forte sul debole («Se non c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e raffa!»).
Con l'arrivo del generale (Nino Bixio), si sparge la voce che sarebbe stata fatta giustizia: ma la giustizia dei garibaldini non ha nulla a che vedere con la libertà tanto agognata dai contadini, col risultato che quella che era stata annunciata come rivoluzione si trasforma, repentinamente, in repressione. Cinque presunti responsabili della ribellione («i primi che capitarono») sono fucilati come ammonimento; tutti gli altri «colpevoli» vengono condotti a Catania e incarcerati in attesa di processo. In breve tempo, nel paese tutto torna alla normalità, dallo stile di vita ai rapporti tra galantuomini e popolani (anche perché «i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini»).
Gli unici a subire le prolungate conseguenze della sedizione sono i contadini imprigionati. Solo per loro il mondo, dopo la rivolta, si è fermato. E dalle parole di uno di questi disgraziati («Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!...») traspare tutto il loro sbigottimento.
Con tutta evidenza, Verga prende le distanze dal dramma dei conflitti sociali. E lo fa dall'alto della sua ostentata – per certi versi ironica e sprezzante – superiorità intellettuale. A suo parere, il mondo è dominato dalla sopraffazione: e non c'è modo – che sia la rivolta, o la successiva mediazione – per impedire che il più forte prevalga sul debole. Al riguardo, il pessimismo dello scrittore siciliano è assoluto: la legge che regola l'esistenza è quella della lotta per la vita.
Cos'è dunque la libertà, in nome della quale tutto – persino l'odio di classe – pare lecito e giustificabile? A sentire Verga, se la si intende come il tentativo di sottrarsi al giogo della prevaricazione, essa non è nient'altro che una puerile illusione. L'indipendenza individuale, in altre parole, non esiste in concreto. Nessun uomo potrà mai vivere la propria vita senza dipendere da qualcun altro, con la conseguenza – inevitabile – che a dettare legge sarà sempre una sorta di implicito ricatto, in base al quale chi, in un qualunque rapporto, ha più da perdere (fermo restando che tutti hanno sempre qualcosa da perdere) finisce inesorabilmente per soccombere. Ribellarsi – come i contadini di Bronte – al ricatto, e dare libero sfogo agli istinti animaleschi abitualmente repressi dalla razionalità, non porta ad alcuna soluzione: giacché alla fine il povero ha bisogno del ricco (anche se non vuole ammetterlo), e viceversa. Non c'è rimedio che possa sottrarre gli uomini alle interdipendenze motivate dal bisogno materiale.
Ecco dunque che la libertà, per il Verga, è solo una parola vuota. Galantuomini o garibaldini che siano, i ceti dominanti non cambiano il loro modo di rapportarsi con i deboli, i quali (sudditi borbonici o italiani che siano) permangono a loro volta schiavi dell'indigenza che li umilia, senza alcuna possibilità di svincolarsi dai notabili del paese. La razionalità che regola i rapporti tra gli individui è, pertanto, mero calcolo opportunistico: senza di essa, la società sprofonderebbe nel caos, che altro non è che il riconoscimento dell'arbitrio del più forte. A questo servono dunque le leggi: a limitare la prepotenza di chi, se lasciato libero, tenderebbe ad imporre il proprio volere impunemente. Per questo i contadini, giunto il momento di spartirsi le terre, si guardano in cagnesco: perché si rendono conto che la libertà ha due facce, delle quali quella più suadente – la cancellazione dei vincoli razionali – è anche la più minacciosa. Seppur molto meno esaltante, la sola forma concreta e praticabile di libertà è quella che si fonda sul compromesso.

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martedì 22 luglio 2014

«Cuore»: l’oblio (politico-culturale) di un vecchio classico della letteratura italiana

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 luglio 2014)

Cuore (o, se si preferisce, il libro Cuore, come si diceva abitualmente una volta) di Edmondo De Amicis è oggi, dopo anni di grandioso successo, un grosso punto interrogativo. È difficile infatti trovare un testo della letteratura italiana che abbia subito una così drastica caduta di consensi, dopo essere stato più o meno acriticamente incensato da intere generazioni di lettori. Tutti i nostri padri, nonni e – per chi è più giovane – bisnonni l’hanno amato intensamente: poi, grosso modo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, il libro ha subito una sorta di damnatio memoriae. Da manuale di educazione da trasmettere a figli e nipoti, di fatto Cuore è stato retrocesso a mieloso libello di propaganda patriottica (un tantino proto-fascista): è diventato – come prova anche il fatto che le storie della letteratura tendono ormai ad irriderlo o addirittura ad escluderlo – un libro fastidioso, irritante e falso.
Volendo semplificare, ci sono una data e un nome che fanno da spartiacque tra il periodo – potremmo dire – dei fasti e quello dell’oblio: 1962 e Umberto Eco. In quell’anno, l’allora giovane futuro autore de Il nome della rosa scrisse un breve saggio che, di fatto, distrusse la credibilità di Cuore quale efficace strumento pedagogico. Il titolo di quel lavoro – Elogio di Franti – era già di per sé provocatorio. Nell’opera di De Amicis, infatti, Franti è lo scolaro mascalzone, «una faccia tosta e trista, […] che fu già espulso da un’altra sezione». Oggi diremmo forse il bullo, lo spaccone, il prepotente della classe; ma poco cambia. Franti incarna in Cuore il modello negativo per eccellenza: è il ragazzo che non si impegna, che prende in giro i più deboli e manca di rispetto agli insegnanti. La penna del protagonista Enrico Bottini – l’autore del diario scolastico che è alla base del libro – è, nei suoi confronti, implacabile, tanto che si ha l’impressione che le sue marachelle siano descritte solo per fornire al lettore un esempio negativo da non emulare.
Ma per quale motivo Eco elogia Franti? Per rispondere occorre prima inquadrare il personaggio. Eco sottolinea giustamente che Franti, in Cuore, è colui che ride. A proposito del compagno, Enrico scrive che «quando viene un padre nella scuola a fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride». Ma non è solo questo. Franti ride mentre Derossi – il primo della classe – parla dei funerali del re; ride al passaggio di un reggimento di fanteria («in faccia a un soldato che zoppicava», dice Enrico; ma c’è da credergli per forza, si domanda Eco?); ride in sostanza per rimarcare quello che potremmo definire – pirandellianamente – un sentimento del contrario. Scrive al riguardo Umberto Eco: «Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante […]. Franti nel cosmo del Cuore rappresenta la Negazione, ma – strano a dirsi – la Negazione assume i modi del Riso. Franti ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride. Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico prospera e si ingrassa».
Eco capovolge quindi la scala dei valori tradizionalmente attribuiti a Cuore. Alcuni di essi, in effetti, hanno superato di molto la data di scadenza. Si pensi solo a certo militarismo zuccheroso («Il Direttore disse: – Voi dovete voler bene ai soldati, ragazzi. Sono i nostri difensori, quelli che andrebbero a farsi uccidere per noi, se domani un esercito straniero minacciasse il nostro paese»), al patriottismo esasperato (riferito all’Italia: «Giuro che ti servirò, come mi sarà concesso, con l’ingegno, col braccio, col cuore, umilmente e arditamente; e che se verrà giorno in cui dovrò dare per te il mio sangue e la mia vita, darò il mio sangue e morrò, gridando al cielo il tuo santo nome e mandando l’ultimo mio bacio alla tua bandiera benedetta») e alla forzata concordia di classe di cui beneficiano solo i ceti abbienti («Vedi [è il padre che annota sul diario di Enrico]: gli uomini delle classi superiori sono gli ufficiali, e gli operai sono i soldati del lavoro; ma così nella società come nell’esercito, non solo il soldato non è men nobile dell’ufficiale, perché la nobiltà sta nel lavoro e non nel guadagno, nel valore e non nel grado; ma se c’è una superiorità di merito è da parte del soldato, dell’operaio, i quali ricavan dall’opera propria minor profitto»).
È proprio a causa di questi valori superati che Cuore può apparire fastidioso. A parere di Eco il capolavoro di De Amicis è essenzialmente un libro classista, che considera positivo solo ciò che non compromette l’ordine costituito. Su questo punto il suo Elogio è un implacabile atto di accusa: «Questo padre [il padre del protagonista Enrico] che parla di rispetto per i mestieri e le professioni, esalta la nobiltà degli umili, incita il figlio ad amare i muratori, ma si demistifica in quella terribile pagina del 20 aprile (giovedì) in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a Garrone quando tra quarant’anni lo ritroverà col viso nero nei panni del macchinista, “ah non m’occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu anche un senatore del Regno” – e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che potrebbe (dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un macchinista ad incontrar l’amico Garrone senatore del Regno». In altre parole Garrone – che tra l’altro è un modello per Enrico poiché prende sempre le difese dei più deboli – non sarà mai senatore in quanto ragazzo di umili origini. Qui – ha ragione Eco – la concordia sociale è un astuto pretesto per giustificare l’immobilismo delle classi. Nessuno sale e nessuno scende.
Ecco spiegata dunque l’irriverenza di Franti. Un’irriverenza che è figlia dell’insofferenza verso un mondo essenzialmente ingiusto, nel quale il confine tra diritti e privilegi è molto labile. Lo stesso De Amicis, a proposito di Franti, lascia intendere che il suo ostinato ribellismo sia la conseguenza di un drammatico disagio, che non ha nulla a che vedere con la malvagità che invece, senza indugio, gli attribuisce Enrico. Quando infatti viene sospeso per otto giorni, la madre si precipita dal Direttore supplicandolo di reintegrare il figlio, perché «io già non vivrò più un pezzo, […] ho la morte qui; ma vorrei vederlo cambiato prima di morire»; e, soprattutto, «perché non segua una disgrazia in famiglia». Ma Enrico – che proprio non può capire il compagno – non riesce a cogliere l’entità delle difficoltà familiari di Franti. E, sprezzante, ancora una volta annota che, ricevuto il perdono del Direttore, «quell’infame sorrise».
Eco ha pertanto indubbiamente ragione quando ribadisce che «il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si ingrassa». Ma resta spazio anche per un’ulteriore considerazione. Eco scrive agli inizi degli anni Sessanta: ed è fin troppo scontato accostare la sua riflessione al movimento sessantottino che, pochi anni dopo la pubblicazione dell’Elogio, istituzionalizzò la ribellione, elevandola a modus vivendi. Franti, a ben vedere, è il prototipo dello studente di quel periodo, che rifiuta (deridendola) la scuola in quanto espressione di un ordine oppressivo e classista. Franti è giovane, laddove invece Enrico pare precocemente invecchiato, succube del padre e incline ad assecondarne la visione conservatrice. Se fosse vissuto un secolo dopo, Franti avrebbe probabilmente avuto il poster di Che Guevara appeso in camera.
Anche lui, però, oggi mostra i segni implacabili dell’età. Se a fine Ottocento era esagerato il conformismo deamicisiano, dopo oltre cent’anni anche il ribellismo di Franti appare irrimediabilmente stantio. Ciò che per i giovani del sessantotto aveva il sapore della trasgressione ormai non significa più nulla: anzi, il senso stesso di trasgressione è andato perduto, giacché tutto da diverso tempo a questa parte è diventato, se non lecito, quantomeno accettabile. Alla religione del dovere di mazziniana memoria abbiamo sostituito la religione del volere: tutti i desideri sono legittimi, e guai a parlare di moralità, di decoro, di educazione. L’egoismo è assurto a diritto, l’ignoranza a sistema: e se – come si suol dire – «le regole sono fatte per essere infrante», che bisogno c’è di impegnarsi, di faticare, di studiare?
Il punto è che svecchiare una società va bene, ma – come in tutte le cose – il troppo stroppia. Ed è per questo che oggi, più che mai, abbiamo bisogno di più Cuore e di meno Che Guevara. Perché De Amicis avrà anche esagerato, ma certi suoi valori (come la fratellanza nazionale, il rispetto dei deboli, l’altruismo, il senso del dovere, l’umiltà) sono universali, validi anche per un’epoca, come la nostra, che sembra averli dimenticati. È ora di finirla col buonismo di massa: contrariamente a quanto propugnato da certi sessantottini, le regole – facciamocene una ragione – non sono sinonimo di fascismo. Se sono da cambiare, si cambino. Ma, per l’amor del cielo, non passi l’idea che è sempre bene infrangerle. Se una persona è svogliata e incapace, che venga trattata come tale. Se uno studente non apre un libro nemmeno a pagarlo, che venga bocciato finché non cambia registro. Perché un conto è volere al potere la fantasia; altra cosa è promuovere a tutti i costi l’opportunismo e l’insipienza.

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lunedì 21 luglio 2014

«Ricordi di un impiegato»: il solitario limbo di chi conduce un’esistenza a metà strada tra la vita e la morte

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 luglio 2014)

Pubblicato postumo nel 1920 (lo stesso anno della morte del suo autore, Federigo Tozzi), Ricordi di un impiegato è un romanzo, in parte autobiografico, estremamente problematico. Si tratta del racconto in forma diaristica dell'esperienza lavorativa di un giovane da poco assunto come impiegato delle Ferrovie dello Stato a Pontedera: una vicenda di per sé insignificante, che riduce all'essenziale i fatti narrati per dare ampio spazio al dialogo che il protagonista instaura con se stesso.
Leopoldo Gradi – questo il suo nome – è un ragazzo fiorentino appartenente ad una famiglia che, sotto sotto, lo disprezza per la sua inettitudine. Il padre, autoritario, lo convince (di fatto imponendoglielo) ad iscriversi ad un concorso per un posto da impiegato nelle Ferrovie, senza prendere nemmeno in considerazione l'idea di aiutarlo nei suoi propositi di matrimonio con la fidanzata Attilia, peraltro invisa alla madre. Superati gli esami, Leopoldo è inviato a Pontedera, dove non conosce nessuno e fatica enormemente ad integrarsi con le persone del posto (che a lui sembrano rozze e cattive). Inizialmente, il suo stato d'animo è dominato dal rancore verso i genitori e dalla volontà di affermare se stesso a dispetto delle loro imposizioni: «Il disaccordo per la fidanzata, lasciato tra me e la mia famiglia mi sconcerta. Che, forse, è necessario ch'io diventi cattivo; per non rinunciare al rispetto del mio animo? Sarei, forse, per accostarmi a quella cattiveria che dicono indispensabile imparare? Io, fin qui, credo di poterne fare a meno; per sempre».
Di fatto, Leopoldo vive in un mondo tutto suo: fatica ad aprirsi con i colleghi – che interpretano la sua riservatezza come spocchia –, è impacciato sul lavoro e conduce una vita appartata, senza amici né confidenti. Unica valvola di sfogo è il fitto scambio epistolare con Attilia, la quale però si ammala gravemente ed è costretta a dettare le sue lettere ad un'amica. Leopoldo vive con imbarazzo questa intrusione, soprattutto quando si rende conto di provare attrazione per questa seconda persona. Egli, in sostanza, si rifiuta di accettare che l'unica cosa che aveva creduto pura e incontaminata – l'amore per Attilia – possa deteriorarsi. E finisce per chiudersi ancora di più in se stesso.
L'autentica vita di Leopoldo è quindi quella interiore: una vita che può essere contemplata solo ad occhi chiusi, in ideale separazione da tutto il resto del mondo (la metafora degli occhi chiusi è ricorrente in tutto il racconto; e non a caso Con gli occhi chiusi è il titolo del principale romanzo di Tozzi). Siccome la realtà esterna non è altro che persecuzione e malvagità, tanto vale farsi da parte e osservare, con ironico e al contempo compiaciuto distacco, la vita degli altri: «Sono io, dunque, che ho voluto restare lontano da questa realtà così dolce! E perché? Sono io che ho chiuso la mia anima per sempre; come quando, da ragazzo, volevo stare solo e mi mettevo a guardar dall'uscio socchiuso quelli che dentro la stanza parlavano».
Il rapporto con la solitudine è pertanto ambivalente: essa da un lato è una scelta consapevole ed obbligata (ed è evidente che, in questa scelta, Tozzi individua l'essenza della sua natura di scrittore, il quale altro non è che un osservatore discreto – che guarda «dall'uscio socchiuso» – della vita altrui); ma, dall'altro, è a lungo andare insostenibile, giacché impone la contemplazione di quanto v'è di più angosciante: la morte. Di nuovo Tozzi recupera l'immagine della doppia vista: «Allora mi par di sfuggire alla morte, nascondendomi in me stesso; con una paura che mi mozza il respiro. Mentre negli spazi della mia esistenza passa la sua ombra; e io chiudo gli occhi per non vederla. E, qualche volta, ho paura di non riaprirli più».
Chiudere gli occhi dinanzi alla vita per aprirli di fronte alla morte: questo sembra essere, in sostanza, il destino di Leopoldo (e, più in generale, dell’uomo di lettere). Ma la morte, in definitiva, non è osservabile: essa rappresenta l’implosione di ogni senso, e non può offrire conforto a chi va in cerca di una ragione valida per sopportare il dolore. Ancora una volta, diventa inevitabile chiudere gli occhi. Col risultato che, nel limbo di un’esistenza interiore a metà strada tra la vita vissuta e la contemplazione dell’aldilà, tutto diventa crudele ed insignificante.
Come scrive Ottavio Cecchi nella sua Introduzione al romanzo, Leopoldo è il classico inetto che «vuole vivere […] ma è chiamato alla morte, vuole morire ma è chiamato alla vita». Sicché, quando gli si presenta l’occasione di amare una giovane donna di Pontedera, Némora, egli – che pure vorrebbe assecondare i suoi sentimenti per lei – resta come paralizzato, sia per rispetto di Attilia, sia per incapacità di concepire un futuro felice per se stesso. Come sempre, vorrebbe ma non può; e, come sempre, cerca un po’ di conforto estraniandosi dal mondo e contemplando la morte: «Certe notti, dopo aver guardato il cielo stellato, credevo di perdermi; e i pochi passi della mia casa mi parevano chilometri e chilometri. Uno sbigottimento angoscioso mi spingeva tra quelli spazii; senza lasciarne né meno uno; e le nuvole ventavano sopra la mia testa. Io avevo paura di non essere più come gli altri, e mi convincevo di non tornare mai più. Ma allora mi vidi steso morto, sopra un letto di campagna, con un prete che leggeva in un libro; e da quella volta mi son creduto sempre un altro».
Ricevuta notizia che gli è nata una sorellina e che Attilia si è parecchio aggravata, Leopoldo rientra a Firenze. Quando giunge a casa della fidanzata, lei è già morta. Egli decide così – come per giustificare il suo ritorno a casa – di convincere la madre a dare all’ultimogenita il nome di Attilia: e, seppur a fatica, riesce nel suo intento. È questa, di fatto, la conclusione del romanzo. Le ultime note del diario, infatti, sono poco più che telegrafiche: «20 aprile – Dovrei tornare a Pontedera, ma mio padre mi promette di recarsi da un pezzo grosso delle Ferrovie, suo amico, perché mi diano il posto a Firenze o in qualche altro paese più grande. 22 aprile – Resto a Firenze».
Sostanzialmente – al pari di Pietro, protagonista di Con gli occhi chiusi –, Leopoldo è, e si sente, una persona «inutile agli interessi». Il lavoro di impiegato è per lui umiliante ed alienante, di fatto insignificante come la maggior parte delle cose che abitualmente si fanno per vivere. Schiacciato sotto il peso delle prevaricazioni dei colleghi e umiliato dalla famiglia, che non fa nessuno sforzo per comprenderne l’inquietudine, Leopoldo è ossessionato dalla sua solitudine, vero e proprio deserto affettivo. Si tratta di una condizione che inesorabilmente lo opprime e lo ingabbia senza offrire possibilità di scampo. Di fatto, tra lui e il mondo esterno non c’è possibilità di comunicazione, com’è evidente a proposito di Némora: «Che mi piaccia, non c’è dubbio; e vorrei che mi amasse. Ma vorrei fosse lei la prima a dirmelo; per sentirmi scusato di più. Qualcuno mi dice: “Perché non sta volentieri a Pontedera? Potrebbe sposare la figlia del vice gestore, che è ricchissimo, o una di quelle del capostazione; vivendosene tranquillo!”. Io non ho il coraggio di dire a tutti che sono fidanzato a Firenze e che, qua a Pontedera, avrei scelto Némora».
Ma il problema è che Leopoldo non riesce a comunicare nemmeno con se stesso: la sua vita è un lungo, inutile tentativo di dire cose che non riesce a dire, come se avesse la mente inceppata. A Pontedera egli si sente un mero ingranaggio, costretto a seguire meccanicamente un mansionario. Così, quando riceve la notizia della nascita della sorellina e dell’aggravamento delle condizioni di Attilia, vive il ritorno a casa come una rinascita, come un’imperdibile occasione per affermare finalmente una parvenza di identità. E, chiedendo alla madre di dare alla figlia appena venuta al mondo il nome della fidanzata defunta, di fatto esprime la volontà di riscattare se stesso, di far sentire una buona volta il peso della propria presenza tra gli uomini. Il desiderio – alla fine esaudito anche da un pizzico di buona sorte – di restare a Firenze è pertanto sintomo della determinazione a ripartire da capo, nella speranza-illusione di poter essere finalmente qualcuno.    

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venerdì 11 luglio 2014

«I promessi sposi»: un romanzo che tutti pensano (fin troppo) di conoscere

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 luglio 2014)

Tutti a scuola hanno letto I promessi sposi, ma è lecito presumere che in pochi abbiano realmente capito il perché. Il punto è che tra gli studenti di tutte le età il capolavoro di Manzoni è talmente inflazionato da apparire scontato, quasi sinonimo di pedanteria e sterile erudizione. Ma qual è il vero motivo per cui, in ogni classe che si rispetti, si continua a pretenderne la lettura integrale? Cosa rende, in altre parole, il romanzo con protagonisti Renzo e Lucia il classico per antonomasia (accanto alla Commedia di Dante) della letteratura italiana?
Innanzitutto proprio il fatto di essere un romanzo. Nell'Italia del primo Ottocento, infatti, scegliere il romanzo come forma di sublime espressione letteraria è, se non un azzardo, quantomeno una scelta innovativa. Nessuno scrittore di quel periodo si sarebbe mai sognato di raccontare una vicenda tragica attraverso un genere universalmente considerato "inferiore". Ma Manzoni, che aveva molto apprezzato il Walter Scott dell'Ivanhoe, ritiene di avere bisogno di uno strumento nuovo rispetto alla scrittura tragica e lirica: egli ha in mente un'opera dall'ampio respiro, in grado di raggiungere un folto pubblico a livello nazionale e di superare la tradizionale separazione degli stili.  Come scrive nel 1823 a Cesare d'Azeglio (padre del più celebre Massimo), tre devono essere i capisaldi della sua produzione: «L'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo». Il che significa, in sostanza, rappresentare la realtà rinunciando alle ampollosità classicheggianti della letteratura tradizionale e rivolgersi ad un vasto pubblico per educarlo attraverso l'esposizione di vicende interessanti, al contempo accessibili (per quanto concerne il linguaggio e l'appartenenza sociale) ed edificanti. Parlare di romanzo significa pertanto fare riferimento ad un genere che risponde pienamente alle esigenze di impegno civile che sono prerogativa di ogni scrittore, dato per scontato che quest'ultimo, a parere di Manzoni, deve sempre soggiacere a una concezione utilitaria della letteratura, la quale altro non è che un nobile mezzo per raggiungere uno scopo.
Scegliendo di rappresentare in forme serie e problematiche una realtà umile (che la letteratura tradizionale relega abitualmente al genere comico), Manzoni si presenta dunque quale grande innovatore tra gli scrittori italiani del XIX secolo. Di fatto, egli introduce in Italia il moderno realismo europeo, secondo il quale il personaggio non è più un individuo spersonalizzato collocato in uno sfondo spazio-temporale astratto, bensì una figura concreta che risente del preciso contesto storico in cui vive. Ne I promessi sposi, Renzo e Lucia sono contadini lombardi del Seicento dotati di personalità unica: in essi è assente qualunque tentativo di idealizzazione, tant'è che i valori e i pensieri di cui si fanno portatori, pur condivisi dal Manzoni, rimangono per tutto il romanzo espressione della loro mentalità di popolani.
Il punto di partenza della nostra indagine è dunque relativo alla questione stilistica: nelle scuole leggiamo Manzoni perché è il primo moderno romanziere italiano. Tuttavia, come è facile intuire, questa è solo una delle ragioni. Anche sotto il profilo ideologico, infatti, I promessi sposi sono (o meglio, sono stati a lungo) un modello. Oggi, di certo, non è più così, ma nell'Italia post-risorgimentale i valori dell'opera manzoniana soddisfacevano appieno le esigenze di una classe dirigente ossessionata dall'incubo della degenerazione della lotta di classe. La scelta di puntare sul romanzo di Manzoni, elevandolo – come peraltro merita, anche se per altri motivi – a supremo capolavoro della letteratura italiana, fu pertanto una decisione tutt'altro che estranea alla politica.
Ma qual è, in definitiva, l'ideale di società che emerge dalla lettura de I promessi sposi? Sostanzialmente, Manzoni sostiene la necessità della concordia tra le classi. Il che significa, da un lato, partire dal presupposto che le classi esistono (nelle Osservazioni sulla morale cattolica egli significativamente afferma che la religione «comanda [...] al ricco di dare il superfluo» e «all'offeso di perdonare»); dall'altro stabilire il principio che la vera causa dei disagi sociali è rappresentata dall'egoismo e dall'avidità. Cristianamente parlando, la società si compone pertanto di un'aristocrazia che deve porre le proprie ricchezze in esubero al servizio della collettività, di un ceto medio che deve rifuggire dall'assillo del profitto e di un vasto universo popolare che deve accettare con rassegnazione la propria condizione marginale dimostrandosi pio e laborioso, in ottemperanza ai dettami del Vangelo.
Ad un attento esame, il complesso sistema dei personaggi manzoniani rispecchia questo schema, offrendo per ogni categoria modelli negativi e positivi. Abbiamo così, per l'aristocrazia, da una parte don Rodrigo e Gertrude (modello di classe dominante che sfrutta il potere per opprimere i più deboli); dall'altra il cardinal Federigo, esempio di rettitudine e altruismo. Per quanto attiene al ceto medio, da un lato Don Abbondio e Azzeccagarbugli (meschini ed egoisti), dall'altro fra Cristoforo, che ripudia la vita dissoluta della gioventù per farsi cappuccino. Per quanto riguarda, infine, il popolo, l'esempio negativo è fornito dalla folla sediziosa di Milano, mentre quello positivo dall'umile e rassegnata figura di Lucia, autentico modello di fede cristiana capace di resistere all'impatto con il male della storia. Vi sono poi due personaggi (tre se si conta anche fra Cristoforo) che non appartengono in maniera netta ad uno dei due modelli, dal momento che maturano attraverso un passaggio dal negativo al positivo: si tratta dell'Innominato, che si converte e mette in salvo Lucia, e di Renzo, che impara a sopire il proprio istinto ribelle per abbandonarsi, infine, alla volontà di Dio.
Lo schema acquista però un senso solo se si tiene conto che alla base della visione religiosa del Manzoni risiede una concezione tragica e pessimistica della realtà, che rende intollerabile, in letteratura, l'idillica serenità di matrice classica. Di qui l'esigenza di rappresentare il «vero», con il conseguente ripudio di tutto ciò che è inverosimile ed artificioso (si legge, infatti, nel Fermo e Lucia: «Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l'ultima delle professioni»); ma anche la convinzione che, in conseguenza del peccato originale, all'umanità sia preclusa una condizione di autentica felicità su questa terra, e che di conseguenza la rassegnazione religiosa costituisca il solo efficace antidoto contro il male, insito nella storia, che regola i rapporti tra gli individui.
Non per niente la vicenda del romanzo, che prende le mosse da una situazione inziale di serenità, si traduce in una forzata esplorazione degli aspetti negativi del mondo. È solo attraverso di essi che i personaggi giungono a maturazione, secondo la concezione – già espressa nell'Adelchi – della «provvida sventura». Manzoni, in altre parole, è convinto che non ci sia modo per evitare il male (non vale, cioè, il principio della giustizia distributiva, secondo il quale Dio ricompensa i giusti preservandoli dal dolore), e proprio per questo ritiene che la più grande conquista spirituale alla portata dell'uomo sia l'acquisizione della piena consapevolezza della tragicità della vita. Respingere il male equivale pertanto a pretendere di conferire un assurdo valore assolutizzante all'esperienza terrena, laddove invece quest'ultima, lungi dall'essere definitiva, non è altro che una fase transeunte. In questo senso, la rassegnazione religiosa non ha nulla a che vedere con la debolezza: al contrario, essa implica la piena accettazione di ciò che Dio dispone in base al suo disegno imperscrutabile e quindi, di conseguenza, il rifiuto di ogni sorta di ribellione all'ordine costituito (secondo il suo volere, ovviamente).
Il «sugo» del romanzo è dunque ben espresso dalle parole di chiusa dell'ultimo capitolo: «Conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore».
Come si intuisce, siamo ben lontani dal Manzoni tipicamente scolastico autore di un romanzo di formazione banalmente "spendibile" per l'educazione dei giovani studenti. Lungi dall'essere un libro edificante nel senso più scontato della parola, I promessi sposi sono espressione di una visione estremamente problematica e tragica della realtà. Tra il propagandare la concordia tra le classi e il suggerire che la società debba rassegnarsi ad accettare il male c'è un bel salto: un salto che però bisogna compiere se vogliamo capire perché vale ancora la pena leggere un autore come Manzoni, e, soprattutto, se intendiamo superare una certa malcelata idiosincrasia nei suoi confronti.

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mercoledì 2 luglio 2014

«Il treno ha fischiato»: l'imprescindibile valvola di sfogo della fantasia

(articolo apparso su Prima Pagina del 28 giugno 2014)

Apparsa per la prima volta sul «Corriere della Sera» del 22 febbraio 1914, Il treno ha fischiato è una delle novelle più significative di Luigi Pirandello. Il tema in essa affrontato è, del resto, uno di quelli che maggiormente stanno a cuore allo scrittore agrigentino: l'idea che la regressione nell'irrazionale – e, in modo più drastico, la follia – costituisca la sola via per sfuggire alle forme ingannevoli di vita collettiva che la società borghese pretende di imporre ai singoli individui.
«Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo».
Nell'incipit, il protagonista resta indeterminato: Pirandello dice solamente che è rinchiuso in un manicomio («ospizio») a causa di un'ipotetica «febbre cerebrale», che può essere tutto e il contrario di tutto. In realtà – viene precisato poche righe avanti –, Belluca (questo il suo nome) non sembra affatto accusare i classici sintomi della pazzia. O meglio: non sembra accusarli a parere del narratore, suo vicino di casa. A suo modo di vedere la follia non c'entra proprio nulla: «E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva essere naturalissimo».
Resta però il fatto – per tutti inspiegabile – che il giorno prima del ricovero Belluca aveva effettivamente dato di matto, come si usa dire. Dopo essersi presentato in ritardo al lavoro (faceva il computista), era rimasto come inebetito per l'intera giornata, senza combinare nulla. E, all'energico richiamo del capo-ufficio, aveva risposto semplicemente: «Il treno, signor Cavaliere», specificando poi che la notte precedente aveva udito un treno fischiare. Ma non solo: alle urla furenti del suo superiore, Belluca – persona mite ed arrendevole, abituata a subire passivamente ogni genere di angheria – aveva persino reagito, «gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo». Per questo era stato «imbracato e trascinato all'ospizio dei matti».
Tutti sono quindi convinti che Belluca abbia perso il senno. Tutti, tranne il narratore, il quale, da buon vicino di casa, conosce le sue misere condizioni di vita. «A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto – spiega –, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, l'incidente più comune [...] possono produrre effetti straordinarii [...]. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per sé stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale».
Il punto è che Belluca vive realmente una vita «impossibile», dovendo lavorare giorno e notte (si porta sempre il lavoro anche a casa) per mantenere la moglie, la suocera e la sorella della suocera (tutte e tre cieche), insieme con le due figlie vedove e i loro sette figli (rispettivamente, quattro la prima, tre la seconda): in totale, ben dodici bocche da sfamare, in condizioni tutt'altro che serene.
La sera prima del ricovero era però accaduto «un fatto naturalissimo». Assorto nei suoi pensieri, Belluca aveva udito fischiare un treno, in lontananza: e di colpo aveva realizzato di essersi completamente dimenticato «che il mondo esisteva». Scrive Pirandello: «C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovane era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino».
Belluca quindi aveva semplicemente riscoperto il mondo: aveva realizzato che la sua non era l'unica vita possibile, e si era ribellato, in primis a se stesso. Ora che aveva sentito il bisogno di «prendere con l'immaginazione una boccata d'aria», non sarebbe stato più lo stesso. Avrebbe, di certo, ripreso il suo posto in ufficio, scusandosi con il suo superiore; ma questi, conclude il narratore, avrebbe dovuto «concedergli che di tanto in tanto [...] egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo». Perché «si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato».
La novella di Pirandello contiene numerosi spunti di incredibile attualità. L'idea che l'uomo contemporaneo sia spesso schiavo di una realtà lavorativa alienante (nella quale egli è niente più di un ingranaggio, costretto ad attenersi ad un frustrante e meccanico mansionario) e che la famiglia – tradizionalmente intesa quale porto sicuro, quale «nido», per dirla con Giovanni Pascoli – possa costituire una prigione che ingabbia le aspirazioni esistenziali, isolandole dal mondo esterno, è quanto di più moderno uno scrittore di inizio Novecento potesse concepire. Per comprendere però fino in fondo il senso del racconto occorre soffermarsi brevemente sul pensiero pirandelliano, che ha alla base una concezione essenzialmente vitalistica della realtà. Per lo scrittore siciliano, tutto è vita in perpetuo divenire; e pretendere di bloccare il flusso delle continue trasformazioni del mondo per assumere una forma ben definita non è altro che una mera illusione, giacché tutto ciò che tende all'individualità si irrigidisce e, di fatto, muore («Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire», afferma Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila). Non esiste, in sostanza, un'identità personale coerente ed unitaria: anche se crediamo di essere uno per noi stessi, siamo in realtà centomila individui differenti a seconda delle persone con le quali entriamo in contatto. Sotto la maschera che forzatamente indossiamo nel vivere sociale non c'è nessuno, o, se si preferisce, c'è l'indistinto fluire di modi di essere in perenne trasformazione.
L'io dunque inesorabilmente si disgrega, non ha la possibilità di esprimersi poiché oppresso dai processi – irreversibili – che regolano la vita della società contemporanea. Nell'età della tecnica non c'è quasi più posto per l'iniziativa individuale: la meccanizzazione del lavoro, la burocratizzazione esasperata che tutto riduce a numeri e codici, la formazione delle grandi metropoli e la conseguente spersonalizzazione dei rapporti umani sono tutti fattori decisivi nel creare le premesse per un collasso dell'identità. Belluca vive quindi come in trappola, costretto ad assumere forme che non sente sue. La sua esistenza è tutta un'imposizione, tanto che egli arriva a percepire se stesso come un ingranaggio di un mostruoso apparato, di cui si ignorano finalità e scopi.
Pirandello porta all'eccesso – con voluto intento umoristico – l'esasperazione del protagonista. Egli è il contrario di ciò che dovrebbe essere: non è cioè un amorevole padre di famiglia che si sacrifica per i figli, bensì un frustrato impiegato che passa dal carcere dell'ufficio al carcere delle mura domestiche. Ma l'eccesso (un capo arrogante, dodici bocche da sfamare, addirittura tre donne cieche a suo carico) porta infine Belluca alla rottura del suo equilibrio psichico. Ribellandosi alla vita meccanica di padre-marito-lavoratore per assaporare, anche solo per un istante, la vita autentica che è espressione delle sue esigenze esistenziali, egli si rifugia nella follia, che altro non è che il ripudio delle convenzioni sociali imposte da una razionalità tiranna. Scrive al riguardo il filosofo Remo Bodei: «Ogni forma è, insieme, un'ancora di salvezza e un ceppo, un principio di individuazione e una condanna all'individuazione. L'essere deve venir "intrappolato" nella sua forma, finché questa resiste, e adattarsi a essa, pagandone il fio. Vi sono però dei momenti, in cui ciò che rappresenta un'ancora di salvezza non regge dinanzi alle tempeste della vita, manifestando così la sua natura di finzione». Ecco dunque che, nel caso di Belluca, la fantasia diviene un'imprescindibile valvola di sfogo. L'unica che consenta di evadere, provvisoriamente, dalla prigione delle forme.

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