(articolo apparso su Prima Pagina del 12 luglio 2014)
Pubblicato postumo nel 1920 (lo
stesso anno della morte del suo autore, Federigo Tozzi), Ricordi di un
impiegato è un romanzo, in parte autobiografico, estremamente problematico.
Si tratta del racconto in forma diaristica dell'esperienza lavorativa di un
giovane da poco assunto come impiegato delle Ferrovie dello Stato a Pontedera:
una vicenda di per sé insignificante, che riduce all'essenziale i fatti narrati
per dare ampio spazio al dialogo che il protagonista instaura con se stesso.
Leopoldo Gradi – questo il suo nome –
è un ragazzo fiorentino appartenente ad una famiglia che, sotto sotto, lo
disprezza per la sua inettitudine. Il padre, autoritario, lo convince (di fatto
imponendoglielo) ad iscriversi ad un concorso per un posto da impiegato nelle
Ferrovie, senza prendere nemmeno in considerazione l'idea di aiutarlo nei suoi
propositi di matrimonio con la fidanzata Attilia, peraltro invisa alla madre.
Superati gli esami, Leopoldo è inviato a Pontedera, dove non conosce nessuno e
fatica enormemente ad integrarsi con le persone del posto (che a lui sembrano
rozze e cattive). Inizialmente, il suo stato d'animo è dominato dal rancore
verso i genitori e dalla volontà di affermare se stesso a dispetto delle loro
imposizioni: «Il disaccordo per la fidanzata, lasciato tra me e la mia famiglia
mi sconcerta. Che, forse, è necessario ch'io diventi cattivo; per non
rinunciare al rispetto del mio animo? Sarei, forse, per accostarmi a quella
cattiveria che dicono indispensabile imparare? Io, fin qui, credo di poterne
fare a meno; per sempre».
Di fatto, Leopoldo vive in un mondo
tutto suo: fatica ad aprirsi con i colleghi – che interpretano la sua
riservatezza come spocchia –, è impacciato sul lavoro e conduce una vita
appartata, senza amici né confidenti. Unica valvola di sfogo è il fitto scambio
epistolare con Attilia, la quale però si ammala gravemente ed è costretta a
dettare le sue lettere ad un'amica. Leopoldo vive con imbarazzo questa
intrusione, soprattutto quando si rende conto di provare attrazione per questa
seconda persona. Egli, in sostanza, si rifiuta di accettare che l'unica cosa
che aveva creduto pura e incontaminata – l'amore per Attilia – possa
deteriorarsi. E finisce per chiudersi ancora di più in se stesso.
L'autentica vita di Leopoldo è quindi
quella interiore: una vita che può essere contemplata solo ad occhi chiusi, in
ideale separazione da tutto il resto del mondo (la metafora degli occhi chiusi
è ricorrente in tutto il racconto; e non a caso Con gli occhi chiusi è
il titolo del principale romanzo di Tozzi). Siccome la realtà esterna non è
altro che persecuzione e malvagità, tanto vale farsi da parte e osservare, con
ironico e al contempo compiaciuto distacco, la vita degli altri: «Sono io,
dunque, che ho voluto restare lontano da questa realtà così dolce! E perché? Sono
io che ho chiuso la mia anima per sempre; come quando, da ragazzo, volevo stare
solo e mi mettevo a guardar dall'uscio socchiuso quelli che dentro la stanza
parlavano».
Il rapporto con la solitudine è
pertanto ambivalente: essa da un lato è una scelta consapevole ed obbligata (ed
è evidente che, in questa scelta, Tozzi individua l'essenza della sua natura di
scrittore, il quale altro non è che un osservatore discreto – che guarda
«dall'uscio socchiuso» – della vita altrui); ma, dall'altro, è a lungo andare
insostenibile, giacché impone la contemplazione di quanto v'è di più
angosciante: la morte. Di nuovo Tozzi recupera l'immagine della doppia vista: «Allora
mi par di sfuggire alla morte, nascondendomi in me stesso; con una paura che mi
mozza il respiro. Mentre negli spazi della mia esistenza passa la sua ombra; e
io chiudo gli occhi per non vederla. E, qualche volta, ho paura di non
riaprirli più».
Chiudere gli occhi dinanzi alla vita
per aprirli di fronte alla morte: questo sembra essere, in sostanza, il destino
di Leopoldo (e, più in generale, dell’uomo di lettere). Ma la morte, in
definitiva, non è osservabile: essa rappresenta l’implosione di ogni senso, e
non può offrire conforto a chi va in cerca di una ragione valida per sopportare
il dolore. Ancora una volta, diventa inevitabile chiudere gli occhi. Col
risultato che, nel limbo di un’esistenza interiore a metà strada tra la vita
vissuta e la contemplazione dell’aldilà, tutto diventa crudele ed
insignificante.
Come scrive Ottavio Cecchi nella sua
Introduzione al romanzo, Leopoldo è il classico inetto che «vuole vivere […] ma
è chiamato alla morte, vuole morire ma è chiamato alla vita». Sicché, quando
gli si presenta l’occasione di amare una giovane donna di Pontedera, Némora,
egli – che pure vorrebbe assecondare i suoi sentimenti per lei – resta come
paralizzato, sia per rispetto di Attilia, sia per incapacità di concepire un
futuro felice per se stesso. Come sempre, vorrebbe ma non può; e, come sempre,
cerca un po’ di conforto estraniandosi dal mondo e contemplando la morte:
«Certe notti, dopo aver guardato il cielo stellato, credevo di perdermi; e i
pochi passi della mia casa mi parevano chilometri e chilometri. Uno
sbigottimento angoscioso mi spingeva tra quelli spazii; senza lasciarne né meno
uno; e le nuvole ventavano sopra la mia testa. Io avevo paura di non essere più
come gli altri, e mi convincevo di non tornare mai più. Ma allora mi vidi steso
morto, sopra un letto di campagna, con un prete che leggeva in un libro; e da
quella volta mi son creduto sempre un altro».
Ricevuta notizia che gli è nata una
sorellina e che Attilia si è parecchio aggravata, Leopoldo rientra a Firenze.
Quando giunge a casa della fidanzata, lei è già morta. Egli decide così – come
per giustificare il suo ritorno a casa – di convincere la madre a dare
all’ultimogenita il nome di Attilia: e, seppur a fatica, riesce nel suo
intento. È questa, di fatto, la conclusione del romanzo. Le ultime note del
diario, infatti, sono poco più che telegrafiche: «20 aprile – Dovrei tornare a
Pontedera, ma mio padre mi promette di recarsi da un pezzo grosso delle
Ferrovie, suo amico, perché mi diano il posto a Firenze o in qualche altro
paese più grande. 22 aprile – Resto a Firenze».
Sostanzialmente – al pari di Pietro,
protagonista di Con gli occhi chiusi
–, Leopoldo è, e si sente, una persona «inutile agli interessi». Il lavoro di
impiegato è per lui umiliante ed alienante, di fatto insignificante come la
maggior parte delle cose che abitualmente si fanno per vivere. Schiacciato
sotto il peso delle prevaricazioni dei colleghi e umiliato dalla famiglia, che
non fa nessuno sforzo per comprenderne l’inquietudine, Leopoldo è ossessionato
dalla sua solitudine, vero e proprio deserto affettivo. Si tratta di una condizione
che inesorabilmente lo opprime e lo ingabbia senza offrire possibilità di
scampo. Di fatto, tra lui e il mondo esterno non c’è possibilità di
comunicazione, com’è evidente a proposito di Némora: «Che mi piaccia, non c’è
dubbio; e vorrei che mi amasse. Ma vorrei fosse lei la prima a dirmelo; per
sentirmi scusato di più. Qualcuno mi dice: “Perché non sta volentieri a
Pontedera? Potrebbe sposare la figlia del vice gestore, che è ricchissimo, o
una di quelle del capostazione; vivendosene tranquillo!”. Io non ho il coraggio
di dire a tutti che sono fidanzato a Firenze e che, qua a Pontedera, avrei
scelto Némora».
Ma il problema è che Leopoldo non
riesce a comunicare nemmeno con se stesso: la sua vita è un lungo, inutile
tentativo di dire cose che non riesce a dire, come se avesse la mente
inceppata. A Pontedera egli si sente un mero ingranaggio, costretto a seguire
meccanicamente un mansionario. Così, quando riceve la notizia della nascita
della sorellina e dell’aggravamento delle condizioni di Attilia, vive il
ritorno a casa come una rinascita, come un’imperdibile occasione per affermare
finalmente una parvenza di identità. E, chiedendo alla madre di dare alla
figlia appena venuta al mondo il nome della fidanzata defunta, di fatto esprime
la volontà di riscattare se stesso, di far sentire una buona volta il peso
della propria presenza tra gli uomini. Il desiderio – alla fine esaudito anche
da un pizzico di buona sorte – di restare a Firenze è pertanto sintomo della
determinazione a ripartire da capo, nella speranza-illusione di poter essere
finalmente qualcuno.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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