(articolo apparso su Prima Pagina del 26 luglio 2014)
Apparsa su «La domenica letteraria»
il 12 marzo 1882, Libertà è una novella tra le più singolari e
significative di Giovanni Verga. È ispirata a un fatto storico: nell'agosto del
1860, dopo la cacciata dei Borboni dalla Sicilia, i contadini di Bronte
(piccolo paese alle pendici dell'Etna) massacrarono indistintamente i membri
delle classi abbienti, convinti che – coll'imminente arrivo delle truppe
garibaldine – sarebbe stato instaurato un nuovo ordine sociale attraverso la
libera distribuzione delle terre demaniali. Quando però giunse in paese Nino
Bixio (luogotenente di Garibaldi), fu ordinata una durissima repressione: dopo
un processo sommario si procedette alla fucilazione di cinque persone, mentre
molti altri presunti responsabili furono trasportati a Catania per scontare
lunghe pene detentive.
Pur senza nominare esplicitamente
Bronte, Verga dipinge un quadro estremamente realistico della vicenda, avendo
cura di mettere in risalto soprattutto la furia cieca che sta alla base della rivolta.
La sua è, chiaramente, una visione conservatrice, che non concede alcuna attenuante
all'irrazionale ferocia del popolo: ma non per questo viene meno la pietà per
le vittime, che anzi fa da sottofondo all'intero racconto, a prescindere
dall'estrazione sociale delle persone coinvolte.
«Sciorinarono dal campanile un
fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a
gridare in piazza: "Viva la libertà!". Come il mare in tempesta. La
folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini,
davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche,
le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciola».
Con queste parole Verga dà inizio
alla narrazione. Senza alcun preambolo, il lettore è condotto direttamente al
centro dell'azione. Lo sventolio di un tricolore – simbolo della rivoluzione in
atto –, le scuri, le falci e un'impetuosa fiumana di «berrette bianche» (ovvero
di popolani, che indossano questo copricapo in contrapposizione con i signori,
che portano il cappello): tutte immagini che, giustapposte con voluto disordine,
danno l'impressione della folla che travolge ogni cosa come un «mare in
tempesta». La rivolta non guarda in faccia a nessuno. Uomini, donne, bambini:
se si appartiene alle classi alte, si è colpiti senza pietà. «Anche il lupo
allorché capita affamato in una mandria, non pensa a riempirsi il ventre, e
sgozza dalla rabbia», scrive Verga. Ed ecco che, accecati dall'odio e dalla
frustrazione, i contadini piombano famelici sui «cappelli», sul prete, sulle
nobildonne e sui loro figli. Nessuno può essere risparmiato, poiché – tutti
dicono – è ora che trionfi la libertà.
Vale la pena citare un brano, giusto
per apprezzare la cruda prosa verghiana: «Ma il peggio avvenne appena cadde il
figliuolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa
come, travolto dalla folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di
strascinarsi a finire nel mondezzaio gridandogli: – Neddu! Neddu! – Neddu
fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo
rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente
gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie
l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora con le mani. – Non
voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore!
– Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani,
quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni – e tremava come una
foglia. – Un altro gridò: – Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!».
Cessato il massacro, si fa sera. Nel
paese, dopo che tutti sono rientrati nelle proprie case, regna un silenzio
quasi irreale. L'indomani (una domenica) le piazze si riempiono di gente
incuriosita, per lo più spaesata per quanto accaduto il giorno precedente.
Tutto il furore, l'odio e la violenza paiono estranei, come se la rivolta fosse
stata un capriccio infantile. Presto ci si rende conto che la nuova libertà non
è semplice da gestire. Manca la messa, e – scrive Verga – i contadini «senza
messa, non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani». Ma c'è da
affrontare, più che altro, la spinosa questione della spartizione delle terre:
chi si prende cosa, a che titolo e con quali garanzie? Di fatto, «ciascuno fra
di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e
guardava in cagnesco il vicino». Pur senza i cappelli, aleggia, più forte di
prima, la paura della prevaricazione, della prepotenza del forte sul debole
(«Se non c'era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla
sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e raffa!»).
Con l'arrivo del generale (Nino
Bixio), si sparge la voce che sarebbe stata fatta giustizia: ma la giustizia
dei garibaldini non ha nulla a che vedere con la libertà tanto agognata dai
contadini, col risultato che quella che era stata annunciata come rivoluzione
si trasforma, repentinamente, in repressione. Cinque presunti responsabili
della ribellione («i primi che capitarono») sono fucilati come ammonimento;
tutti gli altri «colpevoli» vengono condotti a Catania e incarcerati in attesa
di processo. In breve tempo, nel paese tutto torna alla normalità, dallo stile
di vita ai rapporti tra galantuomini e popolani (anche perché «i galantuomini non potevano lavorare le
loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini»).
Gli unici a subire le prolungate
conseguenze della sedizione sono i contadini imprigionati. Solo per loro il
mondo, dopo la rivolta, si è fermato. E dalle parole di uno di questi
disgraziati («Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure
un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!...») traspare tutto
il loro sbigottimento.
Con tutta evidenza, Verga prende le
distanze dal dramma dei conflitti sociali. E lo fa dall'alto della sua
ostentata – per certi versi ironica e sprezzante – superiorità intellettuale. A
suo parere, il mondo è dominato dalla sopraffazione: e non c'è modo – che sia
la rivolta, o la successiva mediazione – per impedire che il più forte prevalga
sul debole. Al riguardo, il pessimismo dello scrittore siciliano è assoluto: la
legge che regola l'esistenza è quella della lotta per la vita.
Cos'è dunque la libertà, in nome
della quale tutto – persino l'odio di classe – pare lecito e giustificabile? A
sentire Verga, se la si intende come il tentativo di sottrarsi al giogo della
prevaricazione, essa non è nient'altro che una puerile illusione.
L'indipendenza individuale, in altre parole, non esiste in concreto. Nessun
uomo potrà mai vivere la propria vita senza dipendere da qualcun altro, con la
conseguenza – inevitabile – che a dettare legge sarà sempre una sorta di
implicito ricatto, in base al quale chi, in un qualunque rapporto, ha più da
perdere (fermo restando che tutti hanno sempre qualcosa da perdere) finisce
inesorabilmente per soccombere. Ribellarsi – come i contadini di Bronte – al
ricatto, e dare libero sfogo agli istinti animaleschi abitualmente repressi
dalla razionalità, non porta ad alcuna soluzione: giacché alla fine il povero
ha bisogno del ricco (anche se non vuole ammetterlo), e viceversa. Non c'è
rimedio che possa sottrarre gli uomini alle interdipendenze motivate dal
bisogno materiale.
Ecco dunque che la libertà, per il
Verga, è solo una parola vuota. Galantuomini o garibaldini che siano, i ceti
dominanti non cambiano il loro modo di rapportarsi con i deboli, i quali (sudditi
borbonici o italiani che siano) permangono a loro volta schiavi dell'indigenza
che li umilia, senza alcuna possibilità di svincolarsi dai notabili del paese. La
razionalità che regola i rapporti tra gli individui è, pertanto, mero calcolo
opportunistico: senza di essa, la società sprofonderebbe nel caos, che altro
non è che il riconoscimento dell'arbitrio del più forte. A questo servono
dunque le leggi: a limitare la prepotenza di chi, se lasciato libero,
tenderebbe ad imporre il proprio volere impunemente. Per questo i contadini,
giunto il momento di spartirsi le terre, si guardano in cagnesco: perché si
rendono conto che la libertà ha due facce, delle quali quella più suadente – la
cancellazione dei vincoli razionali – è anche la più minacciosa. Seppur molto
meno esaltante, la sola forma concreta e praticabile di libertà è quella che si
fonda sul compromesso.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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