(articolo apparso su Prima Pagina del 28 giugno 2014)
Apparsa per la prima volta sul
«Corriere della Sera» del 22 febbraio 1914, Il treno ha fischiato è una
delle novelle più significative di Luigi Pirandello. Il tema in essa affrontato
è, del resto, uno di quelli che maggiormente stanno a cuore allo scrittore
agrigentino: l'idea che la regressione nell'irrazionale – e, in modo più
drastico, la follia – costituisca la sola via per sfuggire alle forme ingannevoli
di vita collettiva che la società borghese pretende di imporre ai singoli
individui.
«Farneticava. Principio di febbre
cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio,
che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo».
Nell'incipit, il protagonista
resta indeterminato: Pirandello dice solamente che è rinchiuso in un manicomio
(«ospizio») a causa di un'ipotetica «febbre cerebrale», che può essere tutto e
il contrario di tutto. In realtà – viene precisato poche righe avanti –,
Belluca (questo il suo nome) non sembra affatto accusare i classici sintomi
della pazzia. O meglio: non sembra accusarli a parere del narratore, suo vicino
di casa. A suo modo di vedere la follia non c'entra proprio nulla: «E a nessuno
passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice
viveva da tant'anni, il suo caso poteva essere naturalissimo».
Resta però il fatto – per tutti
inspiegabile – che il giorno prima del ricovero Belluca aveva effettivamente
dato di matto, come si usa dire. Dopo essersi presentato in ritardo al lavoro
(faceva il computista), era rimasto come inebetito per l'intera giornata, senza
combinare nulla. E, all'energico richiamo del capo-ufficio, aveva risposto
semplicemente: «Il treno, signor Cavaliere», specificando poi che la notte
precedente aveva udito un treno fischiare. Ma non solo: alle urla furenti del
suo superiore, Belluca – persona mite ed arrendevole, abituata a subire
passivamente ogni genere di angheria – aveva persino reagito, «gridando sempre
quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più,
ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più
esser trattato a quel modo». Per questo era stato «imbracato e trascinato
all'ospizio dei matti».
Tutti sono quindi convinti che
Belluca abbia perso il senno. Tutti, tranne il narratore, il quale, da buon
vicino di casa, conosce le sue misere condizioni di vita. «A un uomo che viva
come Belluca finora ha vissuto – spiega –, cioè una vita
"impossibile", la cosa più ovvia, l'incidente più comune [...]
possono produrre effetti straordinarii [...]. Bisogna condurre la spiegazione
là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà
allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal
mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per sé stessa mostruosa. Bisognerà
riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale».
Il punto è che Belluca vive realmente
una vita «impossibile», dovendo lavorare giorno e notte (si porta sempre il
lavoro anche a casa) per mantenere la moglie, la suocera e la sorella della suocera
(tutte e tre cieche), insieme con le due figlie vedove e i loro sette figli
(rispettivamente, quattro la prima, tre la seconda): in totale, ben dodici
bocche da sfamare, in condizioni tutt'altro che serene.
La sera prima del ricovero era però
accaduto «un fatto naturalissimo». Assorto nei suoi pensieri, Belluca aveva
udito fischiare un treno, in lontananza: e di colpo aveva realizzato di essersi
completamente dimenticato «che il mondo esisteva». Scrive Pirandello: «C'era,
ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era
il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze,
Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovane era stato e che
ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la
vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E
seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia
bendata, girava la stanga del molino».
Belluca quindi aveva semplicemente
riscoperto il mondo: aveva realizzato che la sua non era l'unica vita possibile,
e si era ribellato, in primis a se stesso. Ora che aveva sentito il
bisogno di «prendere con l'immaginazione una boccata d'aria», non sarebbe stato
più lo stesso. Avrebbe, di certo, ripreso il suo posto in ufficio, scusandosi
con il suo superiore; ma questi, conclude il narratore, avrebbe dovuto
«concedergli che di tanto in tanto [...] egli facesse una capatina, sì, in
Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo». Perché «si fa in un
attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato».
La novella di Pirandello contiene
numerosi spunti di incredibile attualità. L'idea che l'uomo contemporaneo sia
spesso schiavo di una realtà lavorativa alienante (nella quale egli è niente
più di un ingranaggio, costretto ad attenersi ad un frustrante e meccanico
mansionario) e che la famiglia – tradizionalmente intesa quale porto sicuro,
quale «nido», per dirla con Giovanni Pascoli – possa costituire una prigione
che ingabbia le aspirazioni esistenziali, isolandole dal mondo esterno, è
quanto di più moderno uno scrittore di inizio Novecento potesse concepire. Per
comprendere però fino in fondo il senso del racconto occorre soffermarsi
brevemente sul pensiero pirandelliano, che ha alla base una concezione
essenzialmente vitalistica della realtà. Per lo scrittore siciliano, tutto è
vita in perpetuo divenire; e pretendere di bloccare il flusso delle continue
trasformazioni del mondo per assumere una forma ben definita non è altro che
una mera illusione, giacché tutto ciò che tende all'individualità si irrigidisce
e, di fatto, muore («Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire»,
afferma Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila). Non esiste, in
sostanza, un'identità personale coerente ed unitaria: anche se crediamo di
essere uno per noi stessi, siamo in realtà centomila individui
differenti a seconda delle persone con le quali entriamo in contatto. Sotto la
maschera che forzatamente indossiamo nel vivere sociale non c'è nessuno,
o, se si preferisce, c'è l'indistinto fluire di modi di essere in perenne
trasformazione.
L'io dunque inesorabilmente si
disgrega, non ha la possibilità di esprimersi poiché oppresso dai processi –
irreversibili – che regolano la vita della società contemporanea. Nell'età
della tecnica non c'è quasi più posto per l'iniziativa individuale: la
meccanizzazione del lavoro, la burocratizzazione esasperata che tutto riduce a
numeri e codici, la formazione delle grandi metropoli e la conseguente
spersonalizzazione dei rapporti umani sono tutti fattori decisivi nel creare le
premesse per un collasso dell'identità. Belluca vive quindi come in trappola,
costretto ad assumere forme che non sente sue. La sua esistenza è tutta
un'imposizione, tanto che egli arriva a percepire se stesso come un ingranaggio
di un mostruoso apparato, di cui si ignorano finalità e scopi.
Pirandello porta all'eccesso – con
voluto intento umoristico – l'esasperazione del protagonista. Egli è il
contrario di ciò che dovrebbe essere: non è cioè un amorevole padre di famiglia
che si sacrifica per i figli, bensì un frustrato impiegato che passa dal
carcere dell'ufficio al carcere delle mura domestiche. Ma l'eccesso (un capo
arrogante, dodici bocche da sfamare, addirittura tre donne cieche a suo carico)
porta infine Belluca alla rottura del suo equilibrio psichico. Ribellandosi
alla vita meccanica di padre-marito-lavoratore per assaporare, anche solo per
un istante, la vita autentica che è espressione delle sue esigenze
esistenziali, egli si rifugia nella follia, che altro non è che il ripudio
delle convenzioni sociali imposte da una razionalità tiranna. Scrive al
riguardo il filosofo Remo Bodei: «Ogni forma è, insieme, un'ancora di salvezza
e un ceppo, un principio di individuazione e una condanna all'individuazione.
L'essere deve venir "intrappolato" nella sua forma, finché questa
resiste, e adattarsi a essa, pagandone il fio. Vi sono però dei momenti, in cui
ciò che rappresenta un'ancora di salvezza non regge dinanzi alle tempeste della
vita, manifestando così la sua natura di finzione». Ecco dunque che, nel caso di
Belluca, la fantasia diviene un'imprescindibile valvola di sfogo. L'unica che
consenta di evadere, provvisoriamente, dalla prigione delle forme.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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