(articolo apparso su Prima Pagina del 19 luglio 2014)
Cuore (o, se si
preferisce, il libro Cuore, come si
diceva abitualmente una volta) di Edmondo De Amicis è oggi, dopo anni di
grandioso successo, un grosso punto interrogativo. È difficile infatti trovare
un testo della letteratura italiana che abbia subito una così drastica caduta
di consensi, dopo essere stato più o meno acriticamente incensato da intere generazioni
di lettori. Tutti i nostri padri, nonni e – per chi è più giovane – bisnonni
l’hanno amato intensamente: poi, grosso modo a partire dagli anni Sessanta del
Novecento, il libro ha subito una sorta di damnatio
memoriae. Da manuale di educazione da trasmettere a figli e nipoti, di
fatto Cuore è stato retrocesso a
mieloso libello di propaganda patriottica (un tantino proto-fascista): è
diventato – come prova anche il fatto che le storie della letteratura tendono
ormai ad irriderlo o addirittura ad escluderlo – un libro fastidioso, irritante
e falso.
Volendo semplificare, ci sono una data e un nome che
fanno da spartiacque tra il periodo – potremmo dire – dei fasti e quello
dell’oblio: 1962 e Umberto Eco. In quell’anno, l’allora giovane futuro autore de
Il nome della rosa scrisse un breve
saggio che, di fatto, distrusse la credibilità di Cuore quale efficace strumento pedagogico. Il titolo di quel lavoro
– Elogio di Franti – era già di per
sé provocatorio. Nell’opera di De Amicis, infatti, Franti è lo scolaro
mascalzone, «una faccia tosta e trista, […] che fu già espulso da un’altra
sezione». Oggi diremmo forse il bullo, lo spaccone, il prepotente della classe;
ma poco cambia. Franti incarna in Cuore
il modello negativo per eccellenza: è il ragazzo che non si impegna, che prende
in giro i più deboli e manca di rispetto agli insegnanti. La penna del
protagonista Enrico Bottini – l’autore del diario scolastico che è alla base
del libro – è, nei suoi confronti, implacabile, tanto che si ha l’impressione
che le sue marachelle siano descritte solo per fornire al lettore un esempio
negativo da non emulare.
Ma per quale motivo Eco elogia Franti? Per rispondere
occorre prima inquadrare il personaggio. Eco sottolinea giustamente che Franti,
in Cuore, è colui che ride. A
proposito del compagno, Enrico scrive che «quando viene un padre nella scuola a
fare una partaccia al figlio, egli ne gode; quando uno piange, egli ride». Ma
non è solo questo. Franti ride mentre Derossi – il primo della classe – parla
dei funerali del re; ride al passaggio di un reggimento di fanteria («in faccia
a un soldato che zoppicava», dice Enrico; ma c’è da credergli per forza, si
domanda Eco?); ride in sostanza per rimarcare quello che potremmo definire –
pirandellianamente – un sentimento del contrario. Scrive al riguardo Umberto
Eco: «Franti, se diamo ascolto ad Enrico, ride troppo: il suo ghigno non è
normale, il suo sorriso cinico è stereotipo, quasi deformante […]. Franti nel
cosmo del Cuore rappresenta la
Negazione, ma – strano a dirsi – la Negazione assume i modi del Riso. Franti
ride perché è cattivo – pensa Enrico – ma di fatto pare cattivo perché ride.
Quello che Enrico non si domanda è se la cattiveria di chi ride non sia una
forma di virtù, la cui grandezza egli non può capire poiché tutto ciò che è
riso e cattiveria in Franti altro non è che negazione di un mondo dominato dal
cuore, o meglio ancora di un cuore pensato a immagine del mondo in cui Enrico
prospera e si ingrassa».
Eco capovolge quindi la scala dei valori tradizionalmente
attribuiti a Cuore. Alcuni di essi,
in effetti, hanno superato di molto la data di scadenza. Si pensi solo a certo
militarismo zuccheroso («Il Direttore disse: – Voi dovete voler bene ai
soldati, ragazzi. Sono i nostri difensori, quelli che andrebbero a farsi
uccidere per noi, se domani un esercito straniero minacciasse il nostro
paese»), al patriottismo esasperato (riferito all’Italia: «Giuro che ti
servirò, come mi sarà concesso, con l’ingegno, col braccio, col cuore,
umilmente e arditamente; e che se verrà giorno in cui dovrò dare per te il mio
sangue e la mia vita, darò il mio sangue e morrò, gridando al cielo il tuo
santo nome e mandando l’ultimo mio bacio alla tua bandiera benedetta») e alla
forzata concordia di classe di cui beneficiano solo i ceti abbienti («Vedi [è
il padre che annota sul diario di Enrico]: gli uomini delle classi superiori
sono gli ufficiali, e gli operai sono i soldati del lavoro; ma così nella
società come nell’esercito, non solo il soldato non è men nobile dell’ufficiale,
perché la nobiltà sta nel lavoro e non nel guadagno, nel valore e non nel
grado; ma se c’è una superiorità di merito è da parte del soldato,
dell’operaio, i quali ricavan dall’opera propria minor profitto»).
È proprio a causa di questi valori superati che Cuore può apparire fastidioso. A parere
di Eco il capolavoro di De Amicis è essenzialmente un libro classista, che
considera positivo solo ciò che non compromette l’ordine costituito. Su questo
punto il suo Elogio è un implacabile
atto di accusa: «Questo padre [il padre del protagonista Enrico] che parla di
rispetto per i mestieri e le professioni, esalta la nobiltà degli umili, incita
il figlio ad amare i muratori, ma si demistifica in quella terribile pagina del
20 aprile (giovedì) in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a
Garrone quando tra quarant’anni lo ritroverà col viso nero nei panni del
macchinista, “ah non m’occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu
anche un senatore del Regno” – e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che
potrebbe (dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un
macchinista ad incontrar l’amico Garrone senatore del Regno». In altre parole
Garrone – che tra l’altro è un modello per Enrico poiché prende sempre le
difese dei più deboli – non sarà mai senatore in quanto ragazzo di umili
origini. Qui – ha ragione Eco – la concordia sociale è un astuto pretesto per
giustificare l’immobilismo delle classi. Nessuno sale e nessuno scende.
Ecco spiegata dunque l’irriverenza di Franti.
Un’irriverenza che è figlia dell’insofferenza verso un mondo essenzialmente
ingiusto, nel quale il confine tra diritti e privilegi è molto labile. Lo stesso
De Amicis, a proposito di Franti, lascia intendere che il suo ostinato
ribellismo sia la conseguenza di un drammatico disagio, che non ha nulla a che
vedere con la malvagità che invece, senza indugio, gli attribuisce Enrico.
Quando infatti viene sospeso per otto giorni, la madre si precipita dal
Direttore supplicandolo di reintegrare il figlio, perché «io già non vivrò più
un pezzo, […] ho la morte qui; ma vorrei vederlo cambiato prima di morire»; e,
soprattutto, «perché non segua una disgrazia in famiglia». Ma Enrico – che
proprio non può capire il compagno – non riesce a cogliere l’entità delle difficoltà
familiari di Franti. E, sprezzante, ancora una volta annota che, ricevuto il
perdono del Direttore, «quell’infame sorrise».
Eco ha pertanto indubbiamente ragione quando ribadisce
che «il riso di Franti è qualcosa che distrugge, ed è considerato malvagità
solo perché Enrico identifica il Bene all’ordine esistente e in cui si
ingrassa». Ma resta spazio anche per un’ulteriore considerazione. Eco scrive
agli inizi degli anni Sessanta: ed è fin troppo scontato accostare la sua
riflessione al movimento sessantottino che, pochi anni dopo la pubblicazione
dell’Elogio, istituzionalizzò la
ribellione, elevandola a modus vivendi.
Franti, a ben vedere, è il prototipo dello studente di quel periodo, che
rifiuta (deridendola) la scuola in quanto espressione di un ordine oppressivo e
classista. Franti è giovane, laddove invece Enrico pare precocemente
invecchiato, succube del padre e incline ad assecondarne la visione
conservatrice. Se fosse vissuto un secolo dopo, Franti avrebbe probabilmente
avuto il poster di Che Guevara appeso in camera.
Anche lui, però, oggi mostra i segni implacabili
dell’età. Se a fine Ottocento era esagerato il conformismo deamicisiano, dopo
oltre cent’anni anche il ribellismo di Franti appare irrimediabilmente stantio.
Ciò che per i giovani del sessantotto aveva il sapore della trasgressione ormai
non significa più nulla: anzi, il senso stesso di trasgressione è andato
perduto, giacché tutto da diverso tempo a questa parte è diventato, se non
lecito, quantomeno accettabile. Alla religione del dovere di mazziniana memoria
abbiamo sostituito la religione del volere: tutti i desideri sono legittimi, e
guai a parlare di moralità, di decoro, di educazione. L’egoismo è assurto a
diritto, l’ignoranza a sistema: e se – come si suol dire – «le regole sono
fatte per essere infrante», che bisogno c’è di impegnarsi, di faticare, di
studiare?
Il punto è che svecchiare una società va bene, ma – come
in tutte le cose – il troppo stroppia. Ed è per questo che oggi, più che mai,
abbiamo bisogno di più Cuore e di
meno Che Guevara. Perché De Amicis avrà anche esagerato, ma certi suoi valori
(come la fratellanza nazionale, il rispetto dei deboli, l’altruismo, il senso
del dovere, l’umiltà) sono universali, validi anche per un’epoca, come la
nostra, che sembra averli dimenticati. È ora di finirla col buonismo di massa: contrariamente
a quanto propugnato da certi sessantottini, le regole – facciamocene una
ragione – non sono sinonimo di fascismo. Se sono da cambiare, si cambino. Ma,
per l’amor del cielo, non passi l’idea che è sempre bene infrangerle. Se una
persona è svogliata e incapace, che venga trattata come tale. Se uno studente
non apre un libro nemmeno a pagarlo, che venga bocciato finché non cambia
registro. Perché un conto è volere al potere la fantasia; altra cosa è
promuovere a tutti i costi l’opportunismo e l’insipienza.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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