domenica 24 novembre 2013

Il Libro di Giobbe: l'uomo di fronte al mistero del dolore

(articolo apparso su Prima Pagina del 23 novembre 2013)

Il Libro di Giobbe pone da oltre due millenni quello che probabilmente è l'interrogativo che più assilla l'intera umanità: è possibile comprendere il dolore?
La domanda sottintende una considerazione di fondo: se fosse possibile dare un senso al dolore, e magari comprendere i motivi della sua comparsa, sarebbe molto più semplice accettarlo. Ma sta di fatto che la sofferenza è una componente ineludibile dell'esistenza di ogni essere umano, contro la quale non esistono scudi o barriere. Il dolore ci coglie sempre impreparati proprio perché è incomprensibile, sfugge alle nostre potenzialità cognitive e, secondo criteri razionali, non ha alcun senso.
Il Libro di Giobbe approfondisce con estrema acutezza queste tematiche.
Giobbe è un uomo giusto e timorato di Dio. È ricco e ha dieci figli (sette maschi e tre femmine): tutti godono, come il padre, di ottima salute.
In un imprecisato empireo, Satana [da intendersi letteralmente come "avversario", un ministro di Dio incaricato di mettere alla prova gli uomini per saggiarne la fede] insinua che la devozione di Giobbe sia la conseguenza del suo benessere materiale e fisico. «Ma stendi un poco la mano – chiede provocatoriamente Satana al Signore – e tocca quanto ha, e vedrai come ti maledirà apertamente!». Il Signore accetta la sfida: prima permette a Satana di privare Giobbe di ogni suo bene (figli compresi); poi, al fine di portare la prova alle estreme conseguenze, acconsente che all'elenco delle disgrazie venga aggiunta anche una gravissima malattia. 
Giobbe è però determinato a resistere. Alla moglie, che lo invita a maledire Dio e a morire, replica deciso: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
Prostrato da atroci sofferenze, Giobbe riceve la visita di tre amici (Elifaz, Bildad e Sofar), venuti a recargli conforto. Nessuno, per sette giorni e sette notti, gli rivolge la parola, finché il malato non prorompe in un lamento in cui maledice il giorno della sua nascita. Intervengono quindi, a turno, gli amici: a loro parere, secondo il criterio della giustizia retributiva, se Giobbe soffre significa che ha peccato. Dio, infatti, non punisce i giusti. «Quale innocente – avverte Elifaz – è mai perito e quando mai uomini retti furono distrutti?».
Giobbe, tuttavia, protesta ostinato la propria innocenza: si sente un uomo giusto, non merita sofferenze così atroci. Ai tormenti preferirebbe la morte. E siccome l'esperienza contraddice palesemente la teoria della giusta retribuzione («Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi?»), da perseguitato egli vorrebbe confrontarsi con il Signore, per comprenderne le intenzioni e capire il perché della sua collera. Nonostante la sua protesta sfiori più volte il confine della blasfemia, Giobbe non ha infatti perso la fiducia nell'imperscrutabile Sapienza divina.
Fallito il tentativo di Elifaz, Bildad e Sofar – di fronte ai quali Giobbe rivendica la propria probità – entra in scena il giovane Eliu, il quale rimprovera tanto gli amici, che non hanno saputo trovare argomenti convincenti, quanto lo stesso Giobbe, poiché nessuno può dirsi giusto dinanzi a Dio. Eliu di fatto anticipa l'intervento di Dio, che si rivolge a Giobbe con parole perentorie: «Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri?». È il preludio alla capitolazione. All'uomo, che non può competere con l'Onnipotente, non resta che chiedere perdono e accettare la propria ignoranza: «Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo. [...] Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere».
Nell'epilogo il Signore, dopo aver rimproverato Elifaz, Bildad e Sofar per la loro stoltezza, restituisce a Giobbe i figli e i beni in quantità raddoppiata.
Per comprendere il Libro di Giobbe può essere utile partire dalla fine, dalla risposta – che, a ben vedere, risposta non è – di Dio. Giobbe vorrebbe conoscere il perché della sua sofferenza. Il criterio della giustizia retributiva, più volte affermato ma anche smentito nei dialoghi con gli amici, gli impedisce di trovare la pace. Siccome egli è un uomo giusto, per quale motivo è condannato al dolore? Dal Signore Giobbe attende la soluzione dell'interrogativo; ma a questa precisa domanda l'Onnipotente non solo non risponde, ma replica stizzito che essa è priva di senso. Le sue parole sono di una durezza sconcertante: «Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? [...] Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov'eri?». Il che, volendo parafrasare, equivale a dire: «Come puoi anche solo pensare di conoscere i miei piani? Tu che non eri niente prima che io creassi tutto il mondo intorno a te». Dio, in sostanza, come ha giustamente notato Umberto Galimberti, «sopprime la domanda» sul senso del dolore. All'intelligenza creata non è consentito interrogare l'intelligenza creatrice.
Giobbe, con la sua ribellione, vorrebbe far ragionare Dio. Sente la necessità di esporre il proprio pensiero direttamente al Signore, poiché – afferma – «davanti a lui [...] avrei piene le labbra di ragioni». Ma Dio non sente ragioni, poiché abita in una dimensione sacrale che è il regno dell'indifferenziato, il luogo, cioè, dove le differenze (giusto-ingiusto, bene-male) stabilite dall'uomo per orientarsi nel vivere comune cessano di esistere. Non a caso, volendo invadere il campo dell'etimologia, la parola sacro, di origine indoeuropea, letteralmente significa separato, ossia fuori dalla portata della ragione. E siccome l'uomo allo stesso tempo teme ed è attratto da ciò che non può dominare, la religione (da re-legere) assolve l'essenziale funzione di recingere l'area del sacro, rendendola, con la dovuta cautela, accessibile.
Ad essere messo sotto accusa, quindi, è, più di tutti, il concetto di giustizia retributiva. Se esso davvero influenzasse il volere divino, per l'uomo sarebbe più semplice accettare la sofferenza. Il dolore acquisterebbe senso, e Giobbe dovrebbe capitolare di fronte alle obiezioni degli amici, dal momento che non potrebbe evitare o di riconoscere la propria colpa, o di tacciare Dio di ingiustizia, il che costituirebbe una colpa ancora più grave. Ma la giustizia retributiva è un concetto razionale, e come tale è frutto del pensiero umano, non di quello divino.
Il Libro di Giobbe impone pertanto una riflessione dagli effetti potenzialmente devastanti. Se non è possibile evitare il dolore, se le punizioni divine non seguono alcuna logica, cambia radicalmente il rapporto stesso con Dio. Gli amici mostrano di temere l'Onnipotente, hanno paura del suo giudizio. La loro paura è però un sentimento razionale, che presuppone la conoscenza del rischio cui si va incontro vivendo in modo ingiusto. Siccome credono che la sofferenza abbia una spiegazione, sono convinti di riuscire a evitarla. Ma nel momento in cui viene meno questa certezza, essi si trovano di colpo non più nelle condizioni di avere paura, bensì in uno stato di angoscia, conseguenza della loro ignoranza. Per questo difendono la giustizia retributiva, senza la quale si sentono perduti.
Al contrario degli amici, Giobbe accetta il cadere della giustizia retributiva. Le sue sofferenze – alla fine si rassegna – non hanno alcun senso logico, poiché l'uomo non può comprendere il volere di Dio. Tutto ruota, di fatto, intorno alla dicotomia fede-conoscenza. Le ultime parole che Giobbe rivolge al Signore sono al riguardo eloquenti: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere». Giobbe in sostanza sta dicendo che finalmente ha compreso Dio solo perché ha capito che è impossibile conoscerlo. Si ponga attenzione alle parole: «io ti conoscevo solo per sentito dire», ma ora «mi ricredo». È qui che entra in gioco la fede: si crede solo in ciò che non si conosce, dal momento che se si conoscesse si saprebbe, e non ci sarebbe bisogno di credere. Solo per chi ha fede Dio può essere fonte di speranza; per chi non crede e pretende di sapere non resta che l'inganno, l'amara constatazione che niente ha senso. Senza Dio, l'uomo non può che subire inerme il dolore, anticamera dell'angoscia.

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lunedì 18 novembre 2013

La poesia delle piccole cose: un autore esordiente al cospetto di Pascoli

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 novembre 2013)

Più di un secolo fa Giovanni Pascoli scriveva che «intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare». L'idea di fondo era che la poesia deve essere pura, non ha bisogno di porsi alcuna finalità materiale: il poeta, proseguiva infatti Pascoli, canta «per cantare», e così facendo può raggiungere risultati di «suprema utilità morale e sociale».
I brevi passi qui riportati, tratti dal celebre Il fanciullino – saggio, originariamente pubblicato nel 1897, che delinea una precisa teoria poetica –, probabilmente, ai più, faranno storcere il naso. Roba vecchia e superata, si penserà. Come sostenere, nell'odierna società nichilistica, che la poesia sia utile? Per rispondere, conviene cedere nuovamente la parola al grande autore di Myricae: «Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamento ammobiliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo».
Ognuno di noi possiede dentro di sé un fanciullino che fa «trovare nelle cose [...] il loro sorriso e la loro anima»; solo che oggi pare sempre più complicato scorgere il bello, anche perché – forse inconsciamente condizionati proprio dalle poesie che abbiamo studiato a scuola – siamo assuefatti all'idea che nulla di interessante si celi tra i palazzi grigi di una città. Eppure, come insegna Pascoli, se ci sforzassimo di apprezzare le piccole cose, se accettassimo poeticamente i limiti del vivere quotidiano, forse la nostra esistenza sarebbe più appagante o, quantomeno, meno arida.
Detto questo, è altresì vero che il contatto con la natura facilita enormemente l'espressione dei sentimenti. Se infatti è piuttosto insolito che ci si emozioni alla stazione dei treni o sotto un grattacielo, chi può dire di non provare nulla di fronte a un bel paesaggio innevato o passeggiando in un vecchio borgo di montagna? Certe immagini ci scaldano l'anima, anche se è difficile descrivere cosa si prova in quei momenti. Forse, anzi, non esisteranno mai parole esatte, ma solo combinazioni di parole in grado di restituire un flash, di immortalare un istante, una visione. La poesia ha quindi questa grande capacità: quella di catturare un'emozione, in modo che essa resti impressa sulla pagina e non venga dimenticata.
Prima abbiamo citato Myricae; ora forse, per evitare discorsi astratti, conviene leggere una poesia della raccolta. Prendiamo quindi, come esempio tra i tanti disponibili, Orfano, uno dei più celebri componimenti pascoliani:
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. / Senti: una zana dondola pian piano. / Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; / canta una vecchia, il mento sulla mano. // La vecchia canta: Intorno al tuo lettino / c'è rose e gigli, tutto un bel giardino. / Nel bel giardino il bimbo s'addormenta. / La neve fiocca lenta, lenta, lenta.
Con estrema semplicità, Pascoli riesce a catturare (in soli otto endecasillabi) immagini, suoni e, paradossalmente, l'assenza stessa di suoni. Il primo e l'ultimo verso hanno struttura analoga: le triplici ripetizioni del verbo «fiocca» e dell'aggettivo «lenta» sono collocate strategicamente in apertura e in chiusura per trasmettere l'idea, espressa visivamente attraverso il costante cadere della neve, di un silenzio quasi sacrale. Sembra effettivamente di assistere a una ninna nanna, con il torpore del sonno che si confonde con il manto bianco del paesaggio invernale che tutto avvolge. L'atmosfera è quasi magica, tutto pare sospeso, per certi versi confuso; forte è l'impressione di indefinitezza spaziale e temporale. D'un tratto il cigolio della culla e il canto della vecchia interrompono brevemente l'incantesimo, finché il bimbo non si addormenta entro la cornice fiabesca del giardino. Di nuovo, tutto tace.
Questa ampia premessa consente di inquadrare brevemente l'opera di cui qui accanto è ritratta la copertina. Si tratta di una raccolta di poesie di Fabio Salvatore Pascale, poeta esordiente cui i versi di Pascoli hanno senz'altro fornito numerosi spunti. Come suggerisce infatti l'eloquente titolo, la sua poesia – si legge nella prefazione a cura di Teresa Radesca – nasce «come una scintilla, una fulminazione, improvvisa ed ineludibile», pronta a sprigionare «il bagliore rischiarante» di fugaci frammenti di vita. La poetica del fanciullino trova in Pascale un convinto interprete. Sono le «piccole cose», a suo parere, a regalare «la rara felicità»: basta osservarle «con occhi non distratti» per scorgerne l'essenza poetica, potenzialmente alla portata di tutti.
La raccolta, va detto, non si compone di sole istantanee. Diversi componimenti hanno carattere prettamente riflessivo, e si soffermano su temi di forte impatto emotivo quali il patriottismo e la memoria collettiva. A colpire sono però soprattutto le liriche iniziali, che offrono rapide e vivide notazioni visive, per certi versi riconducibili all'impressionismo pittorico.
È bene dunque fare riferimento ad un paio di esempi. In questo primo caso il verso iniziale funge anche da titolo:
È scesa la notte, / sulle nostre menti, / ricordi scritti sulla / sabbia, sono bagnati / dalle lacrime del mare.
L'immagine del mare che cancella ogni segno od orma impressi sulla sabbia lungo la battigia è speculare a quella della notte, che spegne la luce della mente, avvolgendola in un sonno ambivalente, a tratti rassicurante, ma potenzialmente inquietante. Come la neve di Orfano, la notte e il mare sono collocati in apertura e in chiusura, così che la poesia possa squarciare come un bagliore il buio dell'indefinito.
Evidenti influssi pascoliani sono visibili anche in questo secondo componimento, intitolato Alito:
Quando il vento / scuote l'anima / nel gelido inverno, / rimango ore a pensare / al mio mattino / velato da nubi.
La poesia abbraccia un duplice scenario. Da un lato il vento che, scuotendo l'anima, potrebbe di per sé essere una sferza vitale; dall'altro il gelido paesaggio invernale, a partire dal quale si attua un drastico rovesciamento, fino all'immagine finale delle nubi che oscurano, più forti del vento, la luce del mattino. Dal reale (il vento) si passa subito alla dimensione sfuggente del linguaggio metaforico; e la scossa iniziale, che pare annunciare cambiamenti positivi, si rivela in realtà nient'altro che una gelida fitta al cuore.
Un procedimento analogo è compiuto da Pascoli nella poesia Novembre (sempre tratta da Myricae):
Gemmea l'aria, il sole così chiaro / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, / e del prunalbo l'odorino amaro / senti nel cuore ... // Ma secco è il pruno, e le stecchite piante / di nere trame segnano il sereno, / e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno. // Silenzio, intorno: solo, alle ventate, / odi lontano, da giardini ed orti, / di foglie un cader fragile. È l'estate, / fredda, dei morti.
Anche qui la scena iniziale, con la descrizione del paesaggio primaverile, sembra dipingere un quadro positivo, che però – a partire dal quinto verso – subisce un drastico rovesciamento. Gli albicocchi ed il prunalbo, infatti, non sono reali, ma frutto dell'immaginazione. Dietro l'illusorio scenario primaverile si cela, in concreto, un'inquietante minaccia di morte.
La sensibilità del Pascoli, capace di trasmettere forti emozioni a partire da semplici istantanee, costituisce, di fatto, l'essenza della poesia, nel senso che poeta è colui che riesce a guardare oltre, a plasmare un'immagine o un suono in modo da ricavarne spunti per una riflessione. La poesia, infatti, non è solo apprezzamento del bello: è pensiero, analisi, meditazione. È attribuzione di senso all'insignificante, valorizzazione delle piccole cose. Myricae, in questo senso, è un esempio difficilmente superabile, dal quale Fabio Salvatore Pascale ha tratto più di una comune ispirazione.

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martedì 12 novembre 2013

«Con gli occhi chiusi»: diverse prospettive da cui osservare il male del mondo

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 novembre 2013)
 
Federigo Tozzi è un autore forse non troppo noto al grande pubblico, di certo ingiustamente emarginato rispetto alla ristretta cerchia dei cosiddetti classici della letteratura. Di solito è ricordato come talento incompiuto, stroncato dalla polmonite nel 1920 (ad appena 37 anni) nel pieno della carriera e, per di più, pressoché completamente ignorato dai suoi contemporanei, con le significative eccezioni di Borgese, Pirandello e pochi altri.
Con gli occhi chiusi, la sua opera più riuscita, è un romanzo che nasce da un fondo autobiografico, da cui Tozzi attinge il tema, per lui fondamentale, del rapporto conflittuale tra padre e figlio. Esattamente come nel romanzo, anche il padre dello scrittore era un oste dispotico e autoritario, che per il figlio non vedeva altro che un futuro dietro il banco della trattoria di famiglia.
Il libro fu pubblicato nel 1919 presso l'editore Treves, anche se è possibile ritenerne conclusa la stesura entro il 1913.
Protagonista del romanzo è Pietro Rosi, che nelle prime pagine viene presentato come un adolescente succube del padre, di cui subisce il temperamento aggressivo. Questi gestisce una trattoria a Siena insieme con la moglie Anna ed è proprietario del podere di Poggio a' Meli, dove vivono, tra gli «assalariati», Giacco e Masa (due vecchi contadini) e una loro nipote, Ghísola. Per quest'ultima, sin da ragazzo, Pietro nutre un'attrazione confusa, che spesso si manifesta sotto forma di dispetti e cattiverie; ma la ragazza, molto più sveglia di lui, si mostra fuggevole, evasiva e, anche quando sembra disposta ad assecondare i suoi maldestri corteggiamenti, rimane volutamente vaga, fuori dalla portata di Pietro.
Un giorno Domenico, che non approva il legame del figlio con la giovane contadina, dispone che Ghísola faccia ritorno a Radda, a casa dei genitori. Per Pietro è un duro colpo, cui si aggiunge, di lì a poco, la perdita della madre, morta in seguito ad un accesso convulsivo. Umiliato dal padre per la sua scarsa propensione al mestiere di «padrone», il giovane vive costantemente in solitudine, faticando a terminare gli studi. Come gesto di ribellione, decide di avvicinarsi al socialismo.
Nel frattempo Ghísola, dopo essere stata sedotta da un amico di famiglia e dal suo fattore, ha abbandonato Radda, infastidita dalle voci che avevano preso a circolare sul suo conto. Trasferitasi a Firenze, è quindi divenuta l'amante di Alberto, un commerciante separato dalla moglie. È incinta, ma Alberto, che si trova in difficoltà economiche, è impossibilitato a mantenerla. Così, quando Pietro – che osservando una fotografia ha capito di essersene innamorato – decide di andare a trovarla, Ghísola, su consiglio dell'amante, progetta di sposarlo, con l'intento di fargli credere di aspettare un figlio da lui. Pietro, nonostante l'opposizione del padre, desidera ardentemente il matrimonio, ma, in ossequio ai vincoli della sua morale, respinge ogni approccio sessuale poiché è intenzionato a rispettare la donna che ama fino al giorno delle nozze.
A questo punto Ghísola, constatata l'inattuabilità del suo piano, si allontana da Pietro; ma, abbandonata a sua volta da Alberto, finisce in una casa di tolleranza a Firenze. Nella città toscana avviene un nuovo incontro con Pietro: egli si mostra disposto a perdonare la ragazza, finché non riceve una lettera anonima dal contenuto inquietante: vi si legge che Ghísola lo tradisce, con tanto di invito a verificarne l'infedeltà presso una casa di Firenze. La casa, dove Pietro puntualmente si reca, non è altro che un bordello. Pietro vi trova Ghísola, che continua a celare la gravidanza stando seduta. Ingenuo, il giovane ancora ignora la realtà e sembra voler credere alla buona fede dell'amata. Solo quando Ghísola, alzandosi in piedi, svela finalmente l'inganno, Pietro è costretto ad aprire gli occhi. «Allora egli – così si conclude il romanzo –, voltandosi a lei con uno sguardo pieno di pietà e di affetto, vide il suo ventre. Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l'aveva abbattuto ai piedi di Ghísola, egli non l'amava più».
Il romanzo di Tozzi gioca sulla polivalenza del concetto di consapevolezza. A livello superficiale, Pietro è il classico inetto che non riesce a realizzare se stesso. «Magro e pallido, inutile agli interessi», egli è l'esatto opposto del padre, perfetto self-made man ossessionato dagli affari, apparentemente appagato dalla propria vita di sacrifici. Pietro appare ingenuo, svogliato, poco disposto ad impegnarsi a fondo in qualcosa: sembra, per l'appunto, inconsapevole, incapace di dare un senso alla sua vita. Il mondo che lo circonda è evanescente, popolato da ectoplasmi che egli non avverte, semplicemente perché non hanno nulla di interessante da dirgli.
Tra Domenico e il figlio non c'è possibilità di comunicazione. Pietro, a parere del padre, vive con gli occhi chiusi, è cieco rispetto alla vita reale. E tutto il mondo attorno a lui sembra dare ragione a Domenico. Solo due donne, la madre Anna – che però muore troppo presto – e Ghísola, danno l'impressione di poter instaurare un dialogo con lui. La ragazza, in particolare, cattura il suo interesse: e, legando a sé Pietro, di fatto diviene la sua guida virgiliana verso la luce. Nell'amore per Ghísola, Pietro si illude di trovare la via che conduce alla verità; si convince, contro il parere del padre, che il rapporto con la giovane contadina possa dare valore alla sua vita. Ma la verità che infine trova non è certo quella lungamente agognata. Quando apre gli occhi, realizza di avere perduto per sempre l'innocenza della sua vista precedente. L'acquisita consapevolezza non è altro che dolore: e, rispetto ad esso, meglio sarebbe stato rimanere cieco.
Qual è, quindi, la vista migliore? Quella consapevole di Domenico e di Ghísola, o quella buia che Pietro possiede prima di aprire gli occhi? In altre parole, da quale punto di vista la realtà – che nella visione di Tozzi non è altro che prevaricazione, ingiustizia e dolore – risulta più tollerabile?
La pertinacia di Pietro, l'ostinazione a guardare il mondo con gli occhi della sua anima incontaminata, è incompatibile con la consapevolezza della verità. Paradossalmente, nel momento in cui apre gli occhi della ragione, Pietro chiude quelli del cuore. E realizza, in un istante, che anche il suo amore per Ghísola – l'unica cosa che lo aveva spronato ad assaporare la vita – non è altro che un'illusione, una menzogna. Di colpo, nel momento in cui scopre la gravidanza della giovane contadina, Pietro regredisce al livello del padre: il privilegio della sua cecità viene meno. E, in un certo senso, imparando a conoscere il mondo, Pietro si scopre più cieco di prima, poiché i suoi occhi hanno perduto per sempre la luce della purezza.
La distanza che separa Pietro da Ghísola viene colmata nell'istante in cui la ragazza svela l'inganno della gravidanza celata. Ghísola ha perso la speranza di essere salvata: ha abbandonato Radda poiché segnata, come da un marchio impresso a fuoco, dalle voci poco lusinghiere che circolavano in paese riguardo ai suoi costumi. Il pregiudizio l'ha resa una vittima senza possibilità di redenzione. La cattiveria e il cinismo di cui dà prova pianificando di ingannare Pietro sono il solo modo per ribellarsi a un mondo ingiusto e spietato. L'amore innocente del ragazzo quasi la offende: «Ma che andava cercando? Perché, dunque, amava lei e non qualche signorina di Siena, una signorina della sua condizione?». In Pietro, Ghísola è costretta a vedere riflessa un'ingenuità per lei ormai inaccessibile. E non riesce ad accettarlo.
Ma Ghísola non è solo questo. A ben vedere, ciò che la rende unica agli occhi di Pietro non è l'amore, bensì la comune diversità. Ghísola non accetta le imposizioni, i pregiudizi; si ribella alle convenzioni sociali poiché si ritiene «molto da più di tutti», nel senso che osserva il mondo con occhi diversi da quelli della gente comune. La sua consapevolezza è drammaticamente fiera: Ghísola non ha paura di essere quello che è, non teme il mondo, si è rassegnata al dolore e accetta di viverlo come una sfida. Contrariamente a Pietro, che non può più amare dopo aver conosciuto la verità, Ghísola è libera di guardare, a suo piacimento, con gli occhi aperti o chiusi.
Pietro ha bisogno di nutrirsi di ideali. La ribellione al padre, di cui non vuole accettare l'attaccamento morboso agli affari (alla "roba"); l'adesione al socialismo, vaga promessa di redenzione per l'umanità; e infine il suo amore per Ghísola, che egli vive con fiducia infantile ma a patto che l'amata abbia «la coscienza dell'onestà», sono tutti maldestri tentativi di affermare un io che rischia continuamente di soffocare. Pietro non riesce a vivere con dignità nella condizione di emarginato, non è in grado di trasformare la diversità in orgoglio. Per questo il buio della solitudine lo avvolge minaccioso, senza dargli scampo.

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domenica 3 novembre 2013

Le leggi fondamentali della stupidità umana

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 novembre 2013)

Se tutte le specie devono sopportare continuamente avversità e patimenti, gli esseri umani «hanno il privilegio di doversi sobbarcare un peso aggiuntivo, una dose extra di tribolazioni quotidiane, causate da un gruppo di persone che appartengono allo stesso genere umano». Questo gruppo è quello formato dalle persone stupide.
Così scrive Carlo Cipolla nell'introduzione al suo saggio sulla stupidità umana. Si tratta di un volumetto esilarante, scritto originariamente in lingua inglese nel 1976 e, successivamente, per via del suo incredibile e imprevisto successo, pubblicato in italiano per i tipi de Il Mulino.
Per Cipolla – illustre studioso dell'età moderna e dell'economia preindustriale scomparso nel 2000 all'età di 78 anni – la stupidità ha le sue leggi fondamentali. La prima, da cui è necessario partire, asserisce che «sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». Capita spesso, infatti, di giudicare intelligente una persona che poi si rivela, di colpo, essenzialmente stupida; così come a tutti accade di dover fare i conti, inaspettatamente, con persone stupide che sembrano cadute dal cielo al solo scopo di arrecare danni. Ne consegue che, pur nell'impossibilità di indicare valori numerici precisi, in ogni gruppo di persone esiste una quota costante di persone stupide, matematicamente esprimibile con il simbolo σ (sigma).
È sbagliato, infatti, ritenere che gli uomini nascano tutti uguali e che solo in seguito alcuni di essi, condizionati dall'educazione o dall'ambiente sociale, diventino stupidi. Al contrario, la stupidità è un fattore genetico. «Uno è stupido – afferma Cipolla – allo stesso modo in cui un altro ha i capelli rossi». E siccome la percentuale di stupidi in un gruppo di persone è identica per tutte le categorie e i gruppi umani, ecco la seconda legge fondamentale: «La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona».
Anche se difficile da accettare, la seconda legge non ammette eccezioni. Che si prenda in esame un gruppo di bidelli, di studenti, di insegnanti o addirittura di premi Nobel, in ognuno di essi esiste la medesima frazione σ di stupidi.
Occorre a questo punto specificare cosa si intenda per stupidità umana, partendo dal presupposto che l'uomo, anche il più solitario, è un animale sociale e, volente o nolente, interagisce con gli altri. Cipolla chiarisce questo concetto con una precisazione: «Da qualsiasi azione, o non azione, ognuno di noi trae un guadagno od una perdita, ed allo stesso tempo determina un guadagno od una perdita a qualcun altro». Il tutto è semplificato dal grafico qui riportato. L'asse delle X mostra il guadagno che un individuo (un generico Tizio) ottiene da una sua azione; quella delle Y il guadagno procurato a un'altra o più persone dall'azione di Tizio. Ovviamente, il guadagno negativo equivale a una perdita. Volendo chiarire il senso del grafico con un esempio, se Tizio, compiendo un'azione, procura un guadagno contemporaneamente a se stesso e a Caio, l'azione verrà registrata nell'area I; se invece Caio risulta penalizzato da un'azione dalla quale Tizio, compiendola, ha tratto vantaggio, allora l'azione andrà collocata nell'area B, e via dicendo.
Grafico alla mano, è più facile comprendere che gli esseri umani rientrano in quattro categorie fondamentali: gli sprovveduti (le cui azioni ricadono nell'area H), gli intelligenti (le cui azioni ricadono nell'area I), i banditi (le cui azioni ricadono nell'area B) e gli stupidi (le cui azioni ricadono nell'area S). Se quindi un Tizio compie un'azione ricavandone una perdita per se stesso ma un vantaggio per Caio, allora Tizio è uno sprovveduto. Se invece sia Tizio che Caio ricevono un danno dall'azione di Tizio, allora Tizio è uno stupido. Di qui la terza legge fondamentale: «Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita».
Osservando le persone, è facile constatare che esse spesso non agiscono coerentemente. Un individuo intelligente può comportarsi da sprovveduto o da stupido; tuttavia, essendo intelligente, la media ponderata dei suoi comportamenti ricadrà nell'area I del grafico. Ciò che stupisce, invece, è la straordinaria coerenza degli stupidi: quasi mai, infatti, una persona stupida compie un'azione intelligente. Quanto all'area B, è possibile tracciare nel grafico la linea OM del perfetto bandito: immaginando di collocare nello spazio delimitato dagli assi cartesiani gli individui e non le loro azioni, su OM risiedono i banditi che ricavano un guadagno equivalente al danno che hanno arrecato. Un ladro accorto, per esempio, è in grado di rubare una somma senza causare ulteriori perdite: egli guadagna tanto quanto perde la persona defraudata. Tuttavia, statisticamente, ciò accade di rado. È molto più probabile, infatti, che il bandito arrechi più danni di quanto guadagna (esempio: un Tizio ruba un'autoradio da una macchina e arreca un danno maggiore del valore della radio, dal momento che per compiere la sua azione ha dovuto rompere il finestrino). Questo bandito agisce quindi avvicinandosi al limite della stupidità, e va collocato nella porzione dell'area B a sinistra rispetto a OM, ossia nella zona BS. I banditi, invece, che guadagnano di più di quanto sottraggono si avvicinano al limite dell'intelligenza e vanno collocati in BI: ma sono piuttosto rari.
Tornando alla stupidità, bisogna considerare che il principale fattore che determina il grado di pericolosità di una persona stupida è rappresentato dal potere che essa detiene nella società. Più uno stupido ha influenza e può prendere decisioni vincolanti per gli altri, più è pericoloso. Un tempo erano gli istituti sociali della classe e della casta a consentire l'afflusso di stupidi nelle posizioni di potere; oggi abbiamo i partiti, la burocrazia e la democrazia, ma il risultato non è cambiato. La conclusione di Cipolla su questo punto è esilarante e merita di essere citata per intero: «Va ricordato che, in base alla Seconda Legge, la frazione σ di persone che votano sono stupide e le elezioni offrono loro una magnifica occasione per danneggiare tutti gli altri, senza ottenere alcun guadagno dalla loro azione. Esse realizzano questo obiettivo, contribuendo al mantenimento del livello σ di stupidi tra le persone al potere».
Gli stupidi sono pericolosi in quanto imprevedibili. Un bandito segue una logica: vuole arricchirsi a spese altrui. Per quanto sia disonesto, agisce comunque razionalmente. Lo stupido, invece, agisce senza logica, e per questo è ancora più pericoloso del bandito. Tanto più che mentre la persona intelligente sa di essere intelligente, lo stupido non sa di essere stupido. Di fronte all'attacco irrazionale di uno stupido, la ragione si fa sempre trovare impreparata. E guai a pensare di poter sfruttare la stupidità altrui per raggiungere un qualsiasi scopo! La quarta legge fondamentale è al riguardo categorica: «Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore».
Dalla quarta alla quinta legge il passo è breve. La quinta legge afferma infatti che «la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista», con la conseguenza – che fa da corollario alla legge – che «lo stupido è più pericoloso del bandito». Il che risulta comprensibile osservando il grafico. Un bandito dell'area BS arreca più danni di uno dell'area BI; allo stesso modo, come si intuisce dopo aver prolungato OM nell'area H fino al punto P, uno sprovveduto dell'area HI è meno pericoloso per se stesso (cioè si autoinfligge minori perdite) di uno sprovveduto incline alla stupidità, da collocare in HS.
Il grafico mostra infine un ultimo interessante dato. Tutte le azioni posizionate alla destra di POM incrementano la ricchezza di una società; quelle a sinistra, al contrario, la impoveriscono. In termini assoluti, infatti, anche uno sprovveduto che perda meno di quanto faccia guadagnare ad altri ha comunque arricchito la società; stessa cosa può dirsi di un bandito che sottragga meno di quanto guadagni. Ora, siccome la percentuale σ di stupidi è uguale per tutte le società, la differenza tra una società in declino ed una in ascesa risiederà nella capacità di porre un freno all'attività degli stupidi e di impedire che si affollino le aree dei non stupidi inclini alla stupidità (HS e BS) a scapito di quelle dei non stupidi vicini all'intelligenza. Per contenere la stupidità occorre però evitare di illudersi di poterla comprendere a fondo. Ed è bene tenere a mente quanto segue: «Col sorriso sulle labbra, come se compisse la cosa più naturale del mondo lo stupido comparirà improvvisamente a scatafasciare i tuoi piani, distruggere la tua pace, complicarti la vita ed il lavoro, farti perdere denaro, tempo, buonumore, appetito, produttività – e tutto questo senza malizia, senza rimorso, e senza ragione. Stupidamente».

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