lunedì 18 novembre 2013

La poesia delle piccole cose: un autore esordiente al cospetto di Pascoli

(articolo apparso su Prima Pagina del 16 novembre 2013)

Più di un secolo fa Giovanni Pascoli scriveva che «intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare». L'idea di fondo era che la poesia deve essere pura, non ha bisogno di porsi alcuna finalità materiale: il poeta, proseguiva infatti Pascoli, canta «per cantare», e così facendo può raggiungere risultati di «suprema utilità morale e sociale».
I brevi passi qui riportati, tratti dal celebre Il fanciullino – saggio, originariamente pubblicato nel 1897, che delinea una precisa teoria poetica –, probabilmente, ai più, faranno storcere il naso. Roba vecchia e superata, si penserà. Come sostenere, nell'odierna società nichilistica, che la poesia sia utile? Per rispondere, conviene cedere nuovamente la parola al grande autore di Myricae: «Chi ben consideri, comprende che è il sentimento poetico il quale fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamento ammobiliato sia pur senza buon gusto ma con molta pazienza e diligenza; e vai dicendo».
Ognuno di noi possiede dentro di sé un fanciullino che fa «trovare nelle cose [...] il loro sorriso e la loro anima»; solo che oggi pare sempre più complicato scorgere il bello, anche perché – forse inconsciamente condizionati proprio dalle poesie che abbiamo studiato a scuola – siamo assuefatti all'idea che nulla di interessante si celi tra i palazzi grigi di una città. Eppure, come insegna Pascoli, se ci sforzassimo di apprezzare le piccole cose, se accettassimo poeticamente i limiti del vivere quotidiano, forse la nostra esistenza sarebbe più appagante o, quantomeno, meno arida.
Detto questo, è altresì vero che il contatto con la natura facilita enormemente l'espressione dei sentimenti. Se infatti è piuttosto insolito che ci si emozioni alla stazione dei treni o sotto un grattacielo, chi può dire di non provare nulla di fronte a un bel paesaggio innevato o passeggiando in un vecchio borgo di montagna? Certe immagini ci scaldano l'anima, anche se è difficile descrivere cosa si prova in quei momenti. Forse, anzi, non esisteranno mai parole esatte, ma solo combinazioni di parole in grado di restituire un flash, di immortalare un istante, una visione. La poesia ha quindi questa grande capacità: quella di catturare un'emozione, in modo che essa resti impressa sulla pagina e non venga dimenticata.
Prima abbiamo citato Myricae; ora forse, per evitare discorsi astratti, conviene leggere una poesia della raccolta. Prendiamo quindi, come esempio tra i tanti disponibili, Orfano, uno dei più celebri componimenti pascoliani:
Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. / Senti: una zana dondola pian piano. / Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; / canta una vecchia, il mento sulla mano. // La vecchia canta: Intorno al tuo lettino / c'è rose e gigli, tutto un bel giardino. / Nel bel giardino il bimbo s'addormenta. / La neve fiocca lenta, lenta, lenta.
Con estrema semplicità, Pascoli riesce a catturare (in soli otto endecasillabi) immagini, suoni e, paradossalmente, l'assenza stessa di suoni. Il primo e l'ultimo verso hanno struttura analoga: le triplici ripetizioni del verbo «fiocca» e dell'aggettivo «lenta» sono collocate strategicamente in apertura e in chiusura per trasmettere l'idea, espressa visivamente attraverso il costante cadere della neve, di un silenzio quasi sacrale. Sembra effettivamente di assistere a una ninna nanna, con il torpore del sonno che si confonde con il manto bianco del paesaggio invernale che tutto avvolge. L'atmosfera è quasi magica, tutto pare sospeso, per certi versi confuso; forte è l'impressione di indefinitezza spaziale e temporale. D'un tratto il cigolio della culla e il canto della vecchia interrompono brevemente l'incantesimo, finché il bimbo non si addormenta entro la cornice fiabesca del giardino. Di nuovo, tutto tace.
Questa ampia premessa consente di inquadrare brevemente l'opera di cui qui accanto è ritratta la copertina. Si tratta di una raccolta di poesie di Fabio Salvatore Pascale, poeta esordiente cui i versi di Pascoli hanno senz'altro fornito numerosi spunti. Come suggerisce infatti l'eloquente titolo, la sua poesia – si legge nella prefazione a cura di Teresa Radesca – nasce «come una scintilla, una fulminazione, improvvisa ed ineludibile», pronta a sprigionare «il bagliore rischiarante» di fugaci frammenti di vita. La poetica del fanciullino trova in Pascale un convinto interprete. Sono le «piccole cose», a suo parere, a regalare «la rara felicità»: basta osservarle «con occhi non distratti» per scorgerne l'essenza poetica, potenzialmente alla portata di tutti.
La raccolta, va detto, non si compone di sole istantanee. Diversi componimenti hanno carattere prettamente riflessivo, e si soffermano su temi di forte impatto emotivo quali il patriottismo e la memoria collettiva. A colpire sono però soprattutto le liriche iniziali, che offrono rapide e vivide notazioni visive, per certi versi riconducibili all'impressionismo pittorico.
È bene dunque fare riferimento ad un paio di esempi. In questo primo caso il verso iniziale funge anche da titolo:
È scesa la notte, / sulle nostre menti, / ricordi scritti sulla / sabbia, sono bagnati / dalle lacrime del mare.
L'immagine del mare che cancella ogni segno od orma impressi sulla sabbia lungo la battigia è speculare a quella della notte, che spegne la luce della mente, avvolgendola in un sonno ambivalente, a tratti rassicurante, ma potenzialmente inquietante. Come la neve di Orfano, la notte e il mare sono collocati in apertura e in chiusura, così che la poesia possa squarciare come un bagliore il buio dell'indefinito.
Evidenti influssi pascoliani sono visibili anche in questo secondo componimento, intitolato Alito:
Quando il vento / scuote l'anima / nel gelido inverno, / rimango ore a pensare / al mio mattino / velato da nubi.
La poesia abbraccia un duplice scenario. Da un lato il vento che, scuotendo l'anima, potrebbe di per sé essere una sferza vitale; dall'altro il gelido paesaggio invernale, a partire dal quale si attua un drastico rovesciamento, fino all'immagine finale delle nubi che oscurano, più forti del vento, la luce del mattino. Dal reale (il vento) si passa subito alla dimensione sfuggente del linguaggio metaforico; e la scossa iniziale, che pare annunciare cambiamenti positivi, si rivela in realtà nient'altro che una gelida fitta al cuore.
Un procedimento analogo è compiuto da Pascoli nella poesia Novembre (sempre tratta da Myricae):
Gemmea l'aria, il sole così chiaro / che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, / e del prunalbo l'odorino amaro / senti nel cuore ... // Ma secco è il pruno, e le stecchite piante / di nere trame segnano il sereno, / e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante / sembra il terreno. // Silenzio, intorno: solo, alle ventate, / odi lontano, da giardini ed orti, / di foglie un cader fragile. È l'estate, / fredda, dei morti.
Anche qui la scena iniziale, con la descrizione del paesaggio primaverile, sembra dipingere un quadro positivo, che però – a partire dal quinto verso – subisce un drastico rovesciamento. Gli albicocchi ed il prunalbo, infatti, non sono reali, ma frutto dell'immaginazione. Dietro l'illusorio scenario primaverile si cela, in concreto, un'inquietante minaccia di morte.
La sensibilità del Pascoli, capace di trasmettere forti emozioni a partire da semplici istantanee, costituisce, di fatto, l'essenza della poesia, nel senso che poeta è colui che riesce a guardare oltre, a plasmare un'immagine o un suono in modo da ricavarne spunti per una riflessione. La poesia, infatti, non è solo apprezzamento del bello: è pensiero, analisi, meditazione. È attribuzione di senso all'insignificante, valorizzazione delle piccole cose. Myricae, in questo senso, è un esempio difficilmente superabile, dal quale Fabio Salvatore Pascale ha tratto più di una comune ispirazione.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero 

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