martedì 25 novembre 2014

«I promessi sposi»: un romanzo istituzionale

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 novembre 2014)

Introduzione di Luigi Malavasi Pignatti Morano

Chiunque abbia frequentato il liceo ha dovuto fare i conti con I promessi sposi. Detta così sembra un’ovvietà, poiché si tende a dare per scontato che il capolavoro di Alessandro Manzoni sia il romanzo italiano per eccellenza; ma, a pensarci bene, forse sarebbe il caso di domandarsi come mai, tra tutti i grandi libri della storia letteraria nazionale, quello riguardante le peripezie di Renzo e Lucia sia diventato una lettura obbligata, mentre altre opere pregevolissime sono studiate per lo più marginalmente.
Gli spunti di riflessione potrebbero essere molteplici, ma in questa sede è sufficiente soffermarsi su una peculiarità del romanzo manzoniano che lo ha reso uno dei testi – si passi l’espressione – più facilmente “spendibili” per la formazione e l’educazione dei giovani: stiamo parlando dell’ideale della concordia tra le classi, vera e propria ossessione dei ceti dirigenti post-unitari. Ne I promessi sposi, infatti, ogni impulso alla ribellione è duramente stigmatizzato dalla severa penna dello scrittore. «Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna?», fa dire, significativamente, il Manzoni a fra Cristoforo, intento a redarguire Renzo per la sua (legittima?) collera. Il messaggio non potrebbe essere più esplicito: come ha giustamente notato lo storico Mario Isnenghi, «tutta la vicenda è ispirata a un presupposto di intrasformabilità del mondo e trasformabilità delle persone». Il che equivale a dire che Renzo deve intraprendere un percorso di maturazione interiore che lo porti, con cristiana rassegnazione, ad accettare il mondo così com’è.
Ma qual è, in definitiva, l’ideale di società che emerge dalla lettura de I promessi sposi? Difendere il principio della concordia tra le classi significa, da un lato, partire dal presupposto che le classi esistono (nelle Osservazioni sulla morale cattolica Manzoni significativamente afferma che la religione «comanda [...] al ricco di dare il superfluo» e «all’offeso di perdonare»); dall’altro stabilire il principio che la vera causa dei disagi sociali è rappresentata dall’egoismo e dall’avidità. Cristianamente parlando, la società si compone pertanto di un’aristocrazia che deve porre le proprie ricchezze in esubero al servizio della collettività, di un ceto medio che è bene rifugga dall’assillo del profitto e di un vasto universo popolare che deve accettare con rassegnazione la propria condizione marginale dimostrandosi pio e laborioso, in ottemperanza ai dettami del Vangelo.
Manzoni, in sostanza, ha una concezione tragica dell’esistenza, secondo la quale l’uomo, non avendo alcuna possibilità di evitare il male (non vale cioè il principio della giustizia distributiva), deve assumere un atteggiamento remissivo nei confronti di ciò che Dio dispone, secondo i suoi imperscrutabili disegni. Respingere il male – come vorrebbe fare Renzo – equivale perciò a pretendere di conferire un assurdo valore assolutizzante alla vita terrena, laddove invece quest’ultima, lungi dall’essere finita in sé, non è altro che una fase transeunte.
Ecco dunque che, alla luce di queste considerazioni, la scelta delle classi dirigenti post-risorgimentali di “puntare forte” su I promessi sposi risulta meglio comprensibile. Non che – sia chiaro – al Manzoni manchino i meriti: ma è evidente che uno scrittore di indubbio valore quale certamente egli fu, cattolico ma pur sempre senatore del Regno, fautore della concordia di classe e per nulla disposto a tollerare forme anche blande di ribellione all’ordine costituito, facesse gola – per così dire – ai ministri dell’Istruzione dell’epoca.
E oggi? Cosa pensano gli studenti del Duemila del capolavoro manzoniano? Prendiamo in considerazione le brevi riflessioni di cinque ragazze che attualmente frequentano la prima liceo classico dell’Istituto Sacro Cuore di Modena.

L’accusa di Aurora Vandelli e Taisia Malagoli

«Spesso è spiegato dagli insegnanti in modo poco coinvolgente»

Essendo superfluo ribadire il valore di quest’opera, ci soffermiamo sui tratti negativi riscontrabili durante la lettura de I promessi sposi.
Per molti ragazzi delle scuole superiori non è una scelta opportuna: gli studenti vengono portati all’odio e non all’amore per la letteratura, come invece dovrebbe essere.
Perché questo succede? Forse il metodo usato non è adatto a trasmettere i temi fondamentali e appassionanti contenuti nel romanzo, per non parlare di tutte quelle ore trascorse fra gli interminabili capitoli nel tentativo di decifrare i contenuti senza preoccuparsi del loro vero significato, vedendo solo la luce di libertà che attende ogni studente alla fine dei compiti richiesti dall’insegnante. Inoltre I promessi sposi dovrebbero essere spiegati in un modo più coinvolgente. La priorità dovrebbe essere quella di far amare la letteratura, non di far scomporre e analizzare ogni singolo capitolo a ragazzi che non vogliono essere rimproverati. È sorprendente notare l’espressione di sconcerto che appare sui volti degli studenti quando si accenna loro di dover studiare l’intera opera.
Ci possono essere varie alternative alla lettura di questo romanzo, dal momento che esistono molti classici che non vengono considerati.

Il commento, pur nella sua semplicità, contiene spunti interessanti. In primo luogo, le studentesse palesano una potenziale attrazione nei confronti del romanzo, frustrata – a loro dire – dall’incapacità degli insegnanti di “spiegare” in modo coinvolgente.
È evidente, poi, che I promessi sposi siano mal digeriti in quanto lettura obbligatoria, che viene propinata in tutte le salse sin dai primi anni di scuola. Su questo aspetto, forse gli studenti non hanno tutti i torti, dal momento che il romanzo manzoniano è senza dubbio un libro complesso, decisamente poco alla portata di ragazzi adolescenti. Il che ci porta alla conclusione che, effettivamente, il ruolo dell’insegnante risulta, mai come in questo caso, decisivo, e che solo gli studenti che hanno la fortuna di disporre di un professore capace – come si suol dire – di toccare le corde giuste sono messi nelle condizioni di apprezzare quello che è indiscutibilmente un capolavoro della nostra letteratura.
Par di capire, in sostanza, che gli studenti avvertano la presenza di una sorta di fastidiosa barriera che rende inaccessibile il capolavoro manzoniano: sarebbero cioè anche disposti a leggerlo, ma senza gli strumenti adatti faticano a comprenderlo.

La difesa di Francesca Adani, Beatrice Sitta e Maria Teresa Guidi

«È un romanzo fondamentale per la lingua italiana ed è animato da forti principi religiosi»

I promessi sposi è un’opera molto importante per arricchire la cultura personale, e gli insegnanti dovrebbero leggerla e spiegarla in ogni scuola.
 È una delle prime ad essere scritta in italiano moderno, è alla base della lingua italiana ed occupa un posto di rilievo nella formazione e nell’evoluzione della nostra cultura. È quindi necessario sapere da dove deriva la nostra lingua e come è cambiata nel corso del tempo.
 Questo romanzo ci mostra com’era la vita di cittadini comuni e nobili al tempo delle grandi rivoluzioni politiche e industriali. Contiene forti principi religiosi, che sono il fondamento di tutto il popolo, e attribuisce importanza decisiva alla fede in Dio per sopportare tutti i possibili soprusi delle persone più potenti; inoltre ci spiega che la violenza spesso porta ad altra violenza, mentre la fiducia e l’amore verso le persone a noi più vicine ci rassereneranno sempre in ogni momento buio.
 Questo romanzo è utile anche per comprendere che le persone hanno molte vite diverse, ma possono sempre fare del bene, come l’Innominato, personaggio malvagio che trova la via della salvezza pentendosi.

Colpisce in questo intervento l’accento posto sulla questione linguistica: a parere di alcuni studenti, I promessi sposi rappresentano una lettura imprescindibile poiché costituiscono una tappa fondamentale nell’evoluzione dell’italiano scritto.
Ora, è evidente che un simile ragionamento elude la questione dei contenuti dell’opera. Ed è auspicabile che la scuola si ponga obiettivi un tantino più ambiziosi nel momento in cui, di fatto, impone un certo tipo di letture. Cosa salvare dunque del romanzo manzoniano?
Anche qui la risposta delle ragazze interpellate è singolare: de I promessi sposi, infatti, esse dichiarano di apprezzare l’importanza attribuita alla fede, intesa quale travagliato percorso interiore che porta ad accettare il male inevitabilmente presente nel mondo. Sono sincere? È difficile stabilirlo. Certo è che Manzoni, nelle parole di chiusa dell’ultimo capitolo, fa riferimento a un «sugo» della storia che richiama proprio questo concetto: «Conclusero che i guai vendono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore».
E qui la palla dovrebbe tornare alle autrici del primo intervento: dovendo obtorto collo leggere I promessi sposi, che ve ne pare dell’idea di cominciare dalla fine?

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martedì 18 novembre 2014

«Dialogo di un Fisico e di un Metafisico»: la vita è un bene in sé o ha valore solo se contrassegnata dalla felicità?

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 novembre 2014)

«Se la vita non è felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga». È questo, in estrema sintesi, il significato del Dialogo di un Fisico e di un Metafisico di Giacomo Leopardi: nel giudicare la vita di un uomo, non conta la durata, bensì la qualità. Un’esistenza felice ma limitata negli anni è senza dubbio preferibile ad una vita eterna contrassegnata dal dolore.
Il Dialogo – uno dei più celebri delle Operette morali – mette dunque in scena un’animata discussione a partire dal seguente quesito fondamentale: la vita è un bene in sé, o per amarla c’è bisogno d’altro? A confrontarsi sono un Fisico e un Metafisico (ossia un filosofo), con il secondo – sul modello di Socrate – impegnato a confutare le argomentazioni del primo.
L’esordio del Fisico, infatti, è caratterizzato dall’entusiasmo per una scoperta sensazionale. Egli afferma di avere trovato esposta in un libro «l’arte di vivere lungamente», per la quale sarà senz’altro ricordato in eterno. Ma il Metafisico non sembra affatto colpito: «Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo [si noti che di piombo erano abitualmente le casse da morto], chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente».
Cosa fare però nel frattempo del libro, replica il Fisico? Risponde il Metafisico: «In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse l’arte di vivere poco». Ciò che egli intende è che la vita non ha alcun valore in sé – contrariamente a quanto sostiene il Fisico – se non è accompagnata dalla felicità. In altre parole, un’esistenza contrassegnata da continua sofferenza non merita alcuna considerazione da parte del filosofo, per il quale essa è del tutto insoddisfacente. Di conseguenza, se la vita è infelice – come è evidente, a parere di Leopardi –, tanto meglio se è di breve durata.
Le argomentazioni del Metafisico per confutare l’idea che la vita sia un bene in sé insistono in particolare su un aspetto: «come il volgo s’inganna pensando che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce», allo stesso modo l’uomo «non ama la vita, se non in quanto la reputa instrumento» della felicità. L’amore della vita, in sostanza, non è altro che una mera illusione, come provano tutti coloro che – stanchi di essa, in quanto infelice – decidono di congedarsi dal mondo attraverso il suicidio. Perciò – conclude il Metafisico –, posto che «la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita», è evidente che «la vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male».
Il Fisico, ad ogni modo, non sente ragioni: a suo parere nessun uomo disdegnerebbe una vita eterna, liberata dall’assillo della morte. Ma il Metafisico, ancora una volta, dissente radicalmente, e a sostegno delle proprie tesi – giacché l’argomento è fantasioso, non essendovi traccia sulla Terra di uomini immortali – propone alcuni esempi tratti da favole e miti. Tra questi, particolarmente significativo è quello di Chirone, il centauro maestro di Achille il quale, sofferente a causa di una ferita provocata da una freccia scoccata da Ercole, chiede a Zeus di morire, scambiando la propria immortalità con Prometeo. Com’è facilmente intuibile, il ragionamento del Metafisico è incentrato sul paradosso di un dio che preferisce la condizione di mortale: «Dirò dunque che il saggio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì. Or pensa, se l’immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini».
C’è poi un’ulteriore questione da affrontare, secondo il Metafisico. Siccome – afferma – è dimostrato che esistono popolazioni «di alcune parti dell’India e dell’Etiopia» per le quali la vita media non supera i quarant’anni, è possibile affermare che esse vivano per forza di cose una vita più misera rispetto agli europei? Stando al ragionamento del Fisico, per il quale la vita ha valore in se stessa, i popoli meno longevi dovrebbero essere di gran lunga meno felici di quelli per i quali l’aspettativa di vita è maggiore. Ma è vero tutto questo?
Il Metafisico è convinto che la durata della vita non conti nulla. Il suo ragionamento si fa complesso: «Io negava che la pura vita, cioè a dire il semplice sentimento dell’esser proprio, fosse cosa amabile e desiderabile per natura, ma quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azione o passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole». Non la vita in sé, pertanto, ha valore, ma solo ciò che proviamo a livello dei sentimenti, che devono essere necessariamente tumultuosi, pena lo scadimento dell’esistenza nella noia (la quale è essenzialmente assenza di vitalità). Ciò che rende degna una vita, perciò, è la sua intensità, che è tanto maggiore quanto minore è la sua durata; il che porta all’ovvia conseguenza che i popoli meno longevi sono nettamente avvantaggiati, potendo condurre un’esistenza «più viva il doppio di questa nostra». Una morte che sopraggiunga in tempi brevi, infatti, rende gli uomini più vitali, dal momento che un’esistenza caratterizzata da trasformazioni e sconvolgimenti rapidi è forzatamente più intensa di una vita condotta fiaccamente, con snervante lentezza.
Di fronte a questa provocazione (meglio non vivere troppo a lungo), il Fisico tenta in qualche modo di sottrarsi alla discussione, sentenziando che, al di là di tutti i possibili ragionamenti, la vita è naturalmente «più bella della morte». Ma il Metafisico insiste: per convincersi che la vita non è necessariamente bella, basta osservare il costume degli Sciti, «che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano in un turcasso una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca», e constatare «quanto poco numero delle bianche è verisimile che fosse trovato in quelle faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran moltitudine delle nere».
La replica del Fisico è coerente con il ragionamento precedente: quand’anche tutte le pietre fossero nere, la morte non sarebbe comunque desiderabile poiché è evidente che «niun sassolino sia così nero come l’ultimo». Con la risposta del Metafisico, il Dialogo si conclude. Egli afferma che se proprio il suo interlocutore è interessato ad allungare la vita degli uomini, faccia almeno in modo che «sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e le azioni loro». Solo così la vita umana potrà dirsi realmente accresciuta, ossia «empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è piuttosto durare che vivere». La vita, in sostanza, è «tanto meno infelice, quanto più fortemente agitata», mentre se «piena d’ozio e di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di Pirrone, che dalla vita alla morte non è divario» (il che, se fosse vero, renderebbe la morte decisamente spaventosa). In conclusione, «la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio».
Il concetto chiave, per Leopardi, è dunque quello della noia, ovvero il vuoto interiore che priva la vita dei sentimenti e delle sensazioni più autentiche, riducendo l’esistenza ad una vacua ed insignificante durata. C’è una sostanziale differenza, in altre parole, tra il vivere e il sopravvivere. Gli antichi, infatti, in virtù dei «pericoli gravi e continui che solevano correre», vivevano più dei moderni, nonostante, in termini di durata temporale, la loro vita fosse più breve. Niente perciò ha valore in sé: tutto dipende dalla capacità dell’uomo di riempire il tempo a sua disposizione, in modo tale da sentirsi (e non semplicemente essere) vivo. Un’esistenza apatica e passiva è del tutto insignificante, di gran lunga peggiore della morte, la quale quantomeno garantisce la cessazione delle sofferenze (sempre che non sia vera la sentenza di Pirrone: che ne sarebbe, in effetti, dell’uomo, se l’infelicità – e qui Leopardi lascia trapelare tutta la sua angoscia – potesse sopravvivere alla morte?). Per vivere, occorre darsi da fare, costruire qualcosa, mettersi continuamente alla prova, scommettere ripetutamente su se stessi. La vitalità non è per nulla una componente scontata dell’esistenza.

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lunedì 10 novembre 2014

«Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo»: l’assurda pretesa degli uomini che il mondo sia «fatto e mantenuto per loro soli»

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 novembre 2014)

Scritto nel marzo del 1824, il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo è un’operetta di stampo satirico incentrata su un tema – quello del cosiddetto antifinalismo – che è bene riassunto da queste considerazioni di Leopardi contenute nello Zibaldone: «L’immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto per noi, è una conseguenza naturale dell’amor proprio necessariamente coesistente con noi, e necessariamente illimitato». L’uomo, in altre parole, ha la pretesa che il mondo esista per il solo scopo di soddisfare i suoi bisogni; ma, sottolinea Leopardi, in questo si illude, giacché tutte le specie sono animate della medesima presunzione. Il mondo infatti non è fatto per nessuno: era presente prima dell’uomo, e non cesserà di esistere dopo la sua scomparsa.
Il dialogo tra lo Gnomo e il Folletto ha inizio proprio a partire da quest’ultima premessa: l’uomo, dice il primo, non dà più segni di vita, tanto che «in tutto il suo regno non se ne vede uno». Lecito sospettare dunque che si sia estinto (singolare al riguardo l’argomentazione dello Gnomo: siccome non vede più gli uomini nel suo regno sotterraneo – dove erano soliti estrarre metalli preziosi –, si convince che essi siano tutti morti).
Il Folletto, in effetti, concorda: «Gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». Si tratta di una notizia sensazionale, «da gazzette», aggiunge lo Gnomo. Ma il Folletto subito lo corregge: «Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampino più gazzette?». E lo Gnomo: «Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?».
Con tutta evidenza, Leopardi maschera con una battuta la sua critica feroce nei confronti dell’antropocentrismo, che è così meschino da contagiare persino le altre specie. Lo scrittore di Recanati ironizza cioè sull’assurda pretesa del genere umano che a fare notizia (e qui è contenuta una chiara condanna del giornalismo, sempre forzatamente  alla ricerca di titoli sensazionali) siano solo gli avvenimenti che lo riguardano, come se sulla terra non esistessero che gli uomini. Senza questi ultimi, infatti, com’è possibile stare al passo con «le nuove del mondo», si chiede smarrito lo Gnomo? La risposta del Folletto è al contempo dura e sprezzante: «Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli omini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota ad un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani [secondo la tradizione, la dea Fortuna corre bendata su una ruota, ed è perciò cieca e volubile]; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo».
Le argomentazioni del Folletto sembrano convincere lo Gnomo. Dopo l’uomo, afferma, «non si stamperanno più lunari», «i giorni della settimana non avranno più nome» e «non si potrà tenere il conto degli anni». Tutte le cose a cui l’uomo ha dato un nome, in sostanza, si renderanno indipendenti e cesseranno di esistere secondo le modalità volute dai discendenti di Adamo. È interessante, al riguardo, soprattutto il riferimento al tempo: il voler misurare il passato (giorni, mesi, anni) è un esempio eloquente di come l’uomo desideri controllare il mondo per piegarlo alle proprie esigenze. Tutto deve essere registrabile e “gestibile”: ma il mondo è tranquillamente in grado di fare a meno di calcoli e numeri, e, dopo l’uomo, il tempo da lineare tornerebbe ad essere ciclico, secondo il perpetuo alternarsi delle stagioni.
Resta ora da chiedersi come hanno fatto gli uomini ad estinguersi. E la ragione, secondo il Folletto, è evidente: in parte a causa delle guerre, in parte «infracidando nell’ozio», ma soprattutto «studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male». Del resto, quella umana non è la prima «specie di animali» ad essere scomparsa dalla faccia della terra – basta osservare i fossili dell’età preistorica –, ma è senza dubbio quella che più ha agevolato, con un comportamento dissennato, la propria «perdizione». Sarebbe perciò utile – conclude lo Gnomo – che un paio di esseri umani risuscitassero per sapere cosa penserebbero di fronte all’evidenza che il mondo può sopravvivere anche senza l’uomo.
Ha inizio a questo punto un vivace scambio di battute tra il Folletto e lo Gnomo. Colpa degli uomini, argomenta il primo, è stata quella di non aver compreso che il mondo «è fatto e mantenuto per li folletti». Ma il secondo non ci sta: «Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?». La contesa è destinata quindi a ingarbugliarsi senza alcuna possibilità di trovare una via d’uscita che metta d’accordo i due interlocutori, poiché è evidente – arguisce alla fine il Folletto – che «anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie». Non resta dunque che sorridere di questa comune debolezza, accettandola senza avanzare assurde pretese di superiorità. La percezione del mondo è relativa, e l’uomo è semplicemente uno stolto quando si erge a supremo padrone di ogni cosa (con sprezzante sarcasmo, lo Gnomo e il Folletto si prendono gioco della sua arroganza, facendo notare come per lui persino le zanzare e le pulci abbiano motivo di esistere solo in funzione del genere umano, per «esercitar[lo] nella pazienza»). 
Il tutto, prosegue il Folletto, senza dimenticare che di molte specie l’uomo non sa nulla, così come accade per i pianeti e i corpi celesti. Come pretendere, quindi, di dominare ciò che non si conosce, o di cui si ignora persino l’esistenza? La verità è che il mondo non si cura affatto dell’uomo. Dopo la sua scomparsa, infatti – così si conclude l’operetta – «il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo [Virgilio nelle Georgiche scrive che, alla morte di Cesare, il sole si oscurò in segno di lutto; ma in realtà, commenta il Folletto, è evidente che esso si curò dell’assassinio del dittatore tanto quanto la statua di Pompeo, ai piedi della quale Cesare cadde trafitto dai colpi di pugnale dei congiurati]».
L’antropocentrismo, in sostanza, è una particolare forma di autodifesa, sfruttando la quale l’uomo si illude di poter controllare il mondo che abita. È la ragione, di fronte alla minaccia dell’ignoto e dell’imponderabile, ad incasellare ogni aspetto della realtà, con l’obiettivo di individuare nessi causa-effetto e rendere prevedibile ciò che altrimenti resterebbe oscuro. Ritenere però che ogni cosa abbia motivo di esistere solo in funzione delle esigenze umane è essenzialmente la conseguenza di una sorta di peccato originale che stabilisce di collocare l’uomo al centro dell’universo. Leopardi, in parole povere, prende le distanze dalla tradizione cristiana e dalla sua pretesa di elevare l’uomo a creatura prediletta di Dio. A suo parere, infatti, non esiste alcun ordine nel cosmo che sia decifrabile dalla mente umana: tutto accade semplicemente perché deve accadere, non perché una specie, una sola tra le tante, possa trarre beneficio da un ipotetico disegno provvidenziale.
Davvero cioè – conclude beffardamente il poeta dell’Infinito – possiamo credere che il mondo sia al servizio dell’uomo, ovvero che la storia dell’uomo coincida con la storia del mondo? Nessuna persona ragionevole può essere così stolta da illudersi che tutto abbia un perché. Il senso delle cose, infatti, è relativo, tanto che uno gnomo o un folletto hanno lo stesso diritto di qualunque altro essere vivente di considerare se stessi il centro dell’universo. Per il mondo, gli avvenimenti non sono grandi o piccoli: sono semplicemente avvenimenti, importanti o trascurabili a seconda dei punti di vista. Al punto che persino un evento sconvolgente per la storia dell’uomo quale l’assassinio di Giulio Cesare non è altro che una «bagattella» per il sole e gli astri del cielo, i quali certo non cessano di emettere luce per rendere omaggio ad un insignificante abitante del pianeta Terra.

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Avarizia, lo stupido vizio di chi gode di una possibilità senza esprimerla

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 novembre 2014)

Tra tutti i vizi capitali, l’avarizia è senza dubbio il più stupido. Mentre infatti ira, gola e lussuria sono la causa di un eccesso, l’accidia è la conseguenza di uno stato d’animo difficilmente governabile, e invidia e superbia sono provocate dall’ansia prodotta da un ossessivo confronto con gli altri, l’avarizia è l’assurda schiavitù nei confronti di una forma distorta di appagamento derivante da un possesso che resta tale solo in potenza.
Scrive al riguardo Umberto Galimberti nel volume I vizi capitali e i nuovi vizi (Feltrinelli 2003): «Il denaro accumulato dall’avaro [...] ha in sé il potere di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato, perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere a esso connesso. Questa contraddizione così evidente è dovuta al fatto che l’avaro capovolge il rapporto mezzo-fine, e invece di considerare il denaro un “mezzo” per il raggiungimento di quei “fini” che sono l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni, considera il denaro un fine, per il possesso del quale si deve sacrificare l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri».
Ecco spiegato dunque il motivo per il quale l’avarizia è da considerarsi il più stupido dei vizi: semplicemente perché l’avaro gode di un potere – quello di acquistare ciò che servirebbe a soddisfare un bisogno – ma non lo esprime mai, sopraffatto com’è dalla brama di possesso del denaro. Tutti i beni sono pertanto subordinati al denaro, poiché esso è l’unico che esprima un potere esercitabile su altri beni. Per l’avaro, l’avere è pertanto il fondamento dell’essere, come intuì Karl Marx (il quale sottintendeva un nesso tra avaro e capitalista): «Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore».
Se dunque il denaro da mezzo diventa fine, è evidente che per l’avaro l’identità è strettamente connessa al binomio possesso-privazione: possesso di denaro, privazione della soddisfazione dei bisogni. La vita dell’avaro è quindi necessariamente ascetica. Così la descrive in effetti Marx: «Rinuncia a se stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Infatti, quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo, all’osteria, […] tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro […]. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai».
Il denaro, in altre parole, assume le sembianze di piaceri forzatamente astratti, i quali devono rimanere tali solo in potenza. Ogni cosa ha senso solo in funzione della sua convertibilità in denaro. Per l’avaro tutto ha un prezzo (e se una cosa non ha prezzo, allora non ha valore), e ciò che davvero conta è solo l’accumulo (di denaro e di potere). Egli ha cioè bisogno di sapere che può soddisfare ogni bisogno materiale in qualsiasi momento, fermo restando che il bisogno più forte di tutti è quello di ingrossare all’infinito il suo potere d’acquisto.
Occorre però, a questo punto, fare chiarezza su cosa debba intendersi per avarizia, dal momento che non tutti coloro che paiono avari – secondo il giudizio comune – lo sono in realtà. Scrive al riguardo Umberto Galimberti: «Siamo soliti chiamare “avari” quelle persone che non gettano via nulla, che utilizzano due volte un fiammifero, che scrivono sul retro delle pagine utilizzate, che non sprecano uno spago, che cercano ogni ago perduto, che consumano le medicine in scadenza anche se non ne hanno bisogno, che si rovinano lo stomaco piuttosto che lasciare il pranzo a metà. Ebbene costoro non sono “avari” perché non pensano al valore del denaro degli oggetti che non sprecano, ma proprio al loro valore materiale, che non è affatto in proporzione al loro valore in denaro. Costoro non sono avari, ma parsimoniosi, perché gli avari non attribuiscono alcun valore alle “cose in se stesse”, ma solo a ciò che esse “rappresentano in denaro”. Un denaro che non deve essere speso, perché altrimenti si volatilizzano le possibilità che il denaro promette».
Più che un vizio, l’avarizia è quindi uno stato di angoscia, dovuto a un autentico terrore del futuro, percepito come una minaccia: il futuro, infatti, è il tempo in cui l’avaro teme di perdere ciò che ha e da cui si difende con l’accumulo ossessivo di denaro. Di contro, il presente è il tempo della possibilità: seppur inespresso, il potere di acquisto esorcizza per l’oggi la paura della perdita connessa al domani.
Da questa considerazione deriva poi un’importante conseguenza: l’avaro non può convivere con l’idea (e con la consapevolezza) della propria morte. E questo non tanto perché negli ultimi istanti di vita egli venga privato di ciò che ha, bensì per il fatto che la morte annulla il futuro, e con esso la capacità di proiettare in avanti il potere espresso dal denaro accumulato. La vita dell’avaro, in sostanza, è una non vita, giacché si preclude qualsiasi forma di godimento materiale incompatibile con l’assillo del futuro. In questo senso, l’avarizia è realmente un vizio capitale, nel senso che anticipa la morte, somministrandola poco a poco sotto forma di mortificazione.
Ma c’è dell’altro, come precisa Galimberti: «L’esperienza della morte, ognuno di noi lo sa, non è qualcosa che incontriamo solo nell’atto finale della nostra vita, ma qualcosa che costella la quotidianità della nostra esistenza, ogni volta che il nostro desiderio non trova adeguato appagamento e resta “morti-ficato”. Nella dialettica desiderio-appagamento, l’avaro vuole evitare qualsiasi “mortificazione” che possa essere un’esperienza allusiva della morte. E allora non chiede al denaro di acquistare l’oggetto che appaga il desiderio, perché l’oggetto potrebbe nascondere sorprese e delusioni. Al denaro l’avaro non chiede niente se non il puro possesso, che se da un lato gli garantisce una possibilità infinita, dall’altro lo mette al riparo da ogni delusione».
Il risultato dell’ossessione dell’avarizia è una drammatica contraddizione. L’avaro cioè non spende per non subire la duplice mortificazione del mancato appagamento e dell’angoscia connessa con la spesa (che dal suo punto di vista altro non è che una perdita) di denaro; ma, nel risparmiare, egli mortifica comunque se stesso, precludendosi la possibilità di soddisfare un bisogno. Ne consegue, come detto, che la sua è una non vita, ovvero una morte lenta, che corrode l’animo poco per volta. Il tentativo di esorcizzare la fine dell’esistenza ricorrendo all’accumulo di denaro ha perciò come effetto proprio quello di anticipare la morte, che consuma (e per certi versi proibisce) la vita – conclude Galimberti – «fino a renderla definitivamente non vissuta».
L’avaro quindi è essenzialmente un inguaribile autolesionista, che trascura se stesso per assecondare la sua ossessione verso il denaro. Poco importa, per lui, che il potere d’acquisto – per quanto grande possa diventare – di per sé non soddisfi, se inespresso, alcun bisogno e, soprattutto, che non rappresenti un bene in grado di accrescere la felicità: ciò che conta, infatti, è solo il potere in quanto tale, che dà l’illusione di offrire un riparo contro l’inquietudine connessa con l’idea della perdita. L’avaro, in parole povere, pur disponendo di ingente ricchezza, non può essere felice, dal momento che è consumato dall’interno da un demone che gli impedisce di godere di ciò di cui, potenzialmente, potrebbe disporre. Egli mortifica se stesso senza una valida ragione, e così facendo – come nota Galimberti – si mostra stupido e ottuso. Anche l’immagine che ne dà Dante nel settimo canto dell’Inferno pone l’accento sull’assurdità della sua condotta: come in vita si è preoccupato solo del denaro, elevandolo da mezzo a (inutile) fine, così dopo la morte, per la legge del contrappasso, l’avaro è condannato a spingere avanti e indietro un enorme masso, a compiere cioè un gesto del tutto inutile, ma estremamente logorante e dispendioso.

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«Simposio»: l’amore come irruzione del divino che scompagina l’universo razionale

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 ottobre 2014)

«Non bisogna leggere Platone in modo “platonico”». Umberto Galimberti, nelle pagine del suo Gli equivoci dell’anima dedicate al Simposio di Platone, esordisce con questa singolare avvertenza. Ma cosa intende, di preciso? A cosa ci si riferisce, cioè, abitualmente quando si afferma che un amore è «platonico»? Conviene citare l’autorevole Vocabolario Treccani, il quale, a proposito dell’uso corrente dell’aggettivo, propone la seguente definizione: «Amore non sensuale, che esclude rapporti sessuali e si appaga dell’unione spirituale con la persona amata».
Ebbene, Galimberti vuole dire che il Simposio è un testo molto complesso, nient’affatto «ascetico, edificante, “cristiano”» e del tutto inaccessibile se non si accetta di sgombrare la mente dalle aspettative indotte da un certo tipo di tradizione che vede in Platone essenzialmente il filosofo delle idee astratte e del mito della caverna. Non è possibile, perciò, leggere il Simposio senza le dovute precauzioni: a dispetto delle apparenze, questo dialogo è tutto fuorché un testo di facile comprensione.
Il termine simposio si riferisce alla consuetudine di riunirsi dopo un banchetto serale per discorrere di un argomento specifico e sorseggiare, al contempo, del vino. Nel nostro caso, l’occasione per la riunione di più convitati è offerta dalla celebrazione per la vittoria di Agatone (noto poeta ateniese) in una competizione tragica. A prendere la parola nel corso della discussione, incentrata sul tema dell’amore, sono, nell’ordine, Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate e Alcibiade. Naturalmente, nella seconda parte dell’opera, l’opinione di Platone è affidata alle parole del filosofo Socrate.
Analizziamo dunque, brevemente, i vari interventi del dialogo.
Il primo a parlare, come detto, è Fedro. A suo parere, Eros è il più antico degli dei, capace di infondere negli uomini l’amore per il bello. Nessun amante, infatti, compie azioni che possano procurargli vergogna al cospetto dell’amato; il che porta alla conclusione che, nella polis, i legami di coppia rivestono una significativa valenza sociale.
Più articolato è il discorso di Pausania. In sostanza, egli afferma che occorre tenere presente che Eros ha una doppia natura, ed è da considerarsi bello se si rivolge all’anima, brutto se è interessato solo al corpo. Di questa duplicità, il nomos (ossia l’insieme delle norme e delle tradizioni) ateniese tiene conto, differenziandosi perciò dalle consuetudini delle altre poleis.
Con Pausania concorda successivamente Erissimaco, anche se – precisa – è evidente che Eros «non viva soltanto nelle anime degli uomini, per le persone belle, ma abbia anche altri oggetti e altre sedi», ovvero «i corpi di tutti gli animali ed i vegetali e, per così dire, tutti gli esseri». Di conseguenza – aggiunge –, la medicina è governata da Eros, in quanto, favorendo l’amore sano rispetto a quello malato, cerca di «innamorare reciprocamente, nel corpo, gli elementi più ostili». L’amore, in sostanza, si contrappone drasticamente alla discordia.
A prendere la parola dopo Erissimaco è Aristofane, il quale si affida ad un racconto mitologico (che è, tra l’altro, il passo più conosciuto del Simposio). In origine – afferma – gli uomini erano di forma rotonda e si dividevano in tre distinti sessi: maschio, femmina e androgino. Esseri forti e tracotanti, questi uomini erano invisi agli dei, che li temevano, fintanto che Zeus non decise di tagliarli a metà. Da allora, gli uomini, esseri incompleti, vanno continuamente alla ricerca della propria metà: dagli androgini derivano uomini e donne attratti dall’altro sesso, mentre gli omosessuali provengono dal dimezzamento degli uomini e delle donne. Eros, dunque, dona all’uomo la possibilità di ricercare un ricongiungimento con la parte mancante di sé, e si esprime attraverso la percezione di una mancanza, di un bisogno di unità. «Ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente», conclude Aristofane. Ed è significativo che la parola simbolo, etimologicamente, rimandi all’idea di mettere insieme, far coincidere. Scrive infatti, al riguardo, Umberto Galimberti: «Nell’antica Grecia […] era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo».
Ad Aristofane succede, nel dialogo, Agatone. A suo parere, contrariamente a quanto affermato inizialmente da Fedro, Eros è il più giovane degli dei, come proverebbe la sua straordinaria bellezza. A questa, inoltre, si aggiunge la virtù, che si esprime nelle forme della giustizia, della temperanza, del coraggio e della sapienza. «È lui – sottolinea il poeta tragico – che ci libera dalla selvatichezza […]; lui che ispira la mitezza e bandisce la ruvidezza; generoso in benevolenza, avaro in malevolenza; propizio per i buoni, ammirabile per i saggi, meraviglioso per gli dei; desiderio di chi non ha fortuna, possesso di chi ha fortuna».
Viene quindi il turno di Socrate. Egli afferma, innanzitutto, che chi l’ha preceduto è ricorso il più delle volte ad argomenti retorici, lodando Eros in tutti i modi possibili ma senza alcun riguardo per la verità. Il suo discorso – che è ispirato dagli insegnamenti di Diotima, una sacerdotessa di Mantinea – intende dunque soffermarsi su ciò che Eros realmente è, e si discosta per questo dagli interventi precedenti, in particolare da quello di Agatone. Socrate, infatti, confuta subito l’idea che Eros sia bello, giacché, al contrario, se è vero che amore è sempre amore di qualcosa e che si desidera ciò di cui si è privi, risulta evidente che Eros, in quanto amore del bello, non possa possedere ciò di cui va in cerca.   
Ora, siccome gli dei sono tutti belli, è altresì ovvio che Eros non sia in realtà un dio, bensì un demone – né bello né brutto – che ha una natura intermedia tra gli uomini e gli dei. Secondo Platone, che parla per bocca di Socrate, Eros è infatti figlio di Penia (Povertà) e del dio Poros (Espediente). Si tratta di una genealogia carica di significati, come bene spiega Angelica Taglia: «Secondo la natura della madre, egli [Eros] è povero, privo di bellezza e di agi; come per Aristofane, quindi, anche nel discorso di Diotima Eros risulta nascere da una mancanza, da un bisogno. Ma, in quanto figlio di un dio, dalla natura del padre Eros ha ricevuto l’aspirazione al bello e al buono ed il possesso degli strumenti per procurarsi ciò cui aspira. Poros, che ne è il padre, rappresenta infatti la capacità di trovare la via per uscire dalle difficoltà».
Significativamente, Eros ha molti tratti in comune con la filosofia (che è amore del sapere): entrambi sono mossi infatti da una mancanza, motivo per cui il filosofo non è colui che sa, ma colui che va alla ricerca del sapere partendo da una condizione di ignoranza. Allo stesso modo, anche Eros è un continuo inseguimento: egli rappresenta cioè il tentativo dell’uomo di entrare in contatto con la propria parte irrazionale, la quale costituisce la componente più autentica dell’io ed è imbrigliata dalla ragione che si erge a scudo contro la minaccia della follia. Che cos’è, dunque, per Platone l’amore? È l’irruzione del divino che scompagina l’universo razionale e fa sì che l’uomo entri in contatto con la propria follia, con il proprio vero essere. In quest’ottica, è chiaro che l’amante trova nell’amato una guida che gli consente di accedere alla parte più autentica e recondita del suo io. Il che, in parole povere, equivale a dire che se A ama B, ciò significa che A esplora se stesso attraverso B.
Ecco allora che risulta chiara la natura intermedia di Eros, il quale – precisa Galimberti – «si fa interprete […] tra la ragione che l’uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita». A ben vedere, si tratta del ruolo rivestito da Socrate: così come Eros fa da tramite tra razionalità e follia, allo stesso modo il filosofo – attraverso il procedimento maieutico – è colui attraverso il quale è possibile entrare in contatto con la sapienza divina. È Alcibiade, nel suo intervento conclusivo, a cogliere indirettamente questo nesso. Egli infatti decide di lodare Socrate (e non Eros), lasciando intendere – come nota Angelica Taglia – che il filosofo sia «un Eros con fattezze umane: come Eros scalzo e brutto, ma insidiatore di belli, come Eros non sapiente, ma alla ricerca della sapienza». Tuttavia Alcibiade, pur attratto dalla saggezza di Socrate, non è in grado di comprenderne appieno le implicazioni. Socrate, infatti, scardina la ragione per far emergere la parte più autentica (ma al contempo minacciosa e angosciante) dell’umano; al pari di Eros, egli si pone in una posizione intermedia, prendendo per mano il suo interlocutore e conducendolo alla scoperta della follia che lo abita. Per questo egli è bandito dalla città e condannato a morte: perché l’irruzione del divino (di ciò che non è controllabile per via razionale giacché va al di là della ragione) è tremendamente destabilizzante. È lo stesso Alcibiade, del resto, a dirlo, riferendosi a Socrate: «A volte mi verrebbe quasi il desiderio di non vederlo più tra i vivi; ma poi, se questo accadesse, so bene che ne avrei molto maggiore angoscia: sicché non so proprio come comportarmi con quest’uomo». Per Platone, il mondo dell’Eros è dunque la disponibilità di un’esperienza – carica di fascino e di insidie – che oltrepassa i confini della ragione.  

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