lunedì 10 novembre 2014

«Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo»: l’assurda pretesa degli uomini che il mondo sia «fatto e mantenuto per loro soli»

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 novembre 2014)

Scritto nel marzo del 1824, il Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo è un’operetta di stampo satirico incentrata su un tema – quello del cosiddetto antifinalismo – che è bene riassunto da queste considerazioni di Leopardi contenute nello Zibaldone: «L’immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia fatto per noi, è una conseguenza naturale dell’amor proprio necessariamente coesistente con noi, e necessariamente illimitato». L’uomo, in altre parole, ha la pretesa che il mondo esista per il solo scopo di soddisfare i suoi bisogni; ma, sottolinea Leopardi, in questo si illude, giacché tutte le specie sono animate della medesima presunzione. Il mondo infatti non è fatto per nessuno: era presente prima dell’uomo, e non cesserà di esistere dopo la sua scomparsa.
Il dialogo tra lo Gnomo e il Folletto ha inizio proprio a partire da quest’ultima premessa: l’uomo, dice il primo, non dà più segni di vita, tanto che «in tutto il suo regno non se ne vede uno». Lecito sospettare dunque che si sia estinto (singolare al riguardo l’argomentazione dello Gnomo: siccome non vede più gli uomini nel suo regno sotterraneo – dove erano soliti estrarre metalli preziosi –, si convince che essi siano tutti morti).
Il Folletto, in effetti, concorda: «Gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta». Si tratta di una notizia sensazionale, «da gazzette», aggiunge lo Gnomo. Ma il Folletto subito lo corregge: «Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampino più gazzette?». E lo Gnomo: «Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?».
Con tutta evidenza, Leopardi maschera con una battuta la sua critica feroce nei confronti dell’antropocentrismo, che è così meschino da contagiare persino le altre specie. Lo scrittore di Recanati ironizza cioè sull’assurda pretesa del genere umano che a fare notizia (e qui è contenuta una chiara condanna del giornalismo, sempre forzatamente  alla ricerca di titoli sensazionali) siano solo gli avvenimenti che lo riguardano, come se sulla terra non esistessero che gli uomini. Senza questi ultimi, infatti, com’è possibile stare al passo con «le nuove del mondo», si chiede smarrito lo Gnomo? La risposta del Folletto è al contempo dura e sprezzante: «Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli omini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota ad un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani [secondo la tradizione, la dea Fortuna corre bendata su una ruota, ed è perciò cieca e volubile]; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scoppiando come le bolle, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo».
Le argomentazioni del Folletto sembrano convincere lo Gnomo. Dopo l’uomo, afferma, «non si stamperanno più lunari», «i giorni della settimana non avranno più nome» e «non si potrà tenere il conto degli anni». Tutte le cose a cui l’uomo ha dato un nome, in sostanza, si renderanno indipendenti e cesseranno di esistere secondo le modalità volute dai discendenti di Adamo. È interessante, al riguardo, soprattutto il riferimento al tempo: il voler misurare il passato (giorni, mesi, anni) è un esempio eloquente di come l’uomo desideri controllare il mondo per piegarlo alle proprie esigenze. Tutto deve essere registrabile e “gestibile”: ma il mondo è tranquillamente in grado di fare a meno di calcoli e numeri, e, dopo l’uomo, il tempo da lineare tornerebbe ad essere ciclico, secondo il perpetuo alternarsi delle stagioni.
Resta ora da chiedersi come hanno fatto gli uomini ad estinguersi. E la ragione, secondo il Folletto, è evidente: in parte a causa delle guerre, in parte «infracidando nell’ozio», ma soprattutto «studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male». Del resto, quella umana non è la prima «specie di animali» ad essere scomparsa dalla faccia della terra – basta osservare i fossili dell’età preistorica –, ma è senza dubbio quella che più ha agevolato, con un comportamento dissennato, la propria «perdizione». Sarebbe perciò utile – conclude lo Gnomo – che un paio di esseri umani risuscitassero per sapere cosa penserebbero di fronte all’evidenza che il mondo può sopravvivere anche senza l’uomo.
Ha inizio a questo punto un vivace scambio di battute tra il Folletto e lo Gnomo. Colpa degli uomini, argomenta il primo, è stata quella di non aver compreso che il mondo «è fatto e mantenuto per li folletti». Ma il secondo non ci sta: «Chi non sa che il mondo è fatto per gli gnomi?». La contesa è destinata quindi a ingarbugliarsi senza alcuna possibilità di trovare una via d’uscita che metta d’accordo i due interlocutori, poiché è evidente – arguisce alla fine il Folletto – che «anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie». Non resta dunque che sorridere di questa comune debolezza, accettandola senza avanzare assurde pretese di superiorità. La percezione del mondo è relativa, e l’uomo è semplicemente uno stolto quando si erge a supremo padrone di ogni cosa (con sprezzante sarcasmo, lo Gnomo e il Folletto si prendono gioco della sua arroganza, facendo notare come per lui persino le zanzare e le pulci abbiano motivo di esistere solo in funzione del genere umano, per «esercitar[lo] nella pazienza»). 
Il tutto, prosegue il Folletto, senza dimenticare che di molte specie l’uomo non sa nulla, così come accade per i pianeti e i corpi celesti. Come pretendere, quindi, di dominare ciò che non si conosce, o di cui si ignora persino l’esistenza? La verità è che il mondo non si cura affatto dell’uomo. Dopo la sua scomparsa, infatti – così si conclude l’operetta – «il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo [Virgilio nelle Georgiche scrive che, alla morte di Cesare, il sole si oscurò in segno di lutto; ma in realtà, commenta il Folletto, è evidente che esso si curò dell’assassinio del dittatore tanto quanto la statua di Pompeo, ai piedi della quale Cesare cadde trafitto dai colpi di pugnale dei congiurati]».
L’antropocentrismo, in sostanza, è una particolare forma di autodifesa, sfruttando la quale l’uomo si illude di poter controllare il mondo che abita. È la ragione, di fronte alla minaccia dell’ignoto e dell’imponderabile, ad incasellare ogni aspetto della realtà, con l’obiettivo di individuare nessi causa-effetto e rendere prevedibile ciò che altrimenti resterebbe oscuro. Ritenere però che ogni cosa abbia motivo di esistere solo in funzione delle esigenze umane è essenzialmente la conseguenza di una sorta di peccato originale che stabilisce di collocare l’uomo al centro dell’universo. Leopardi, in parole povere, prende le distanze dalla tradizione cristiana e dalla sua pretesa di elevare l’uomo a creatura prediletta di Dio. A suo parere, infatti, non esiste alcun ordine nel cosmo che sia decifrabile dalla mente umana: tutto accade semplicemente perché deve accadere, non perché una specie, una sola tra le tante, possa trarre beneficio da un ipotetico disegno provvidenziale.
Davvero cioè – conclude beffardamente il poeta dell’Infinito – possiamo credere che il mondo sia al servizio dell’uomo, ovvero che la storia dell’uomo coincida con la storia del mondo? Nessuna persona ragionevole può essere così stolta da illudersi che tutto abbia un perché. Il senso delle cose, infatti, è relativo, tanto che uno gnomo o un folletto hanno lo stesso diritto di qualunque altro essere vivente di considerare se stessi il centro dell’universo. Per il mondo, gli avvenimenti non sono grandi o piccoli: sono semplicemente avvenimenti, importanti o trascurabili a seconda dei punti di vista. Al punto che persino un evento sconvolgente per la storia dell’uomo quale l’assassinio di Giulio Cesare non è altro che una «bagattella» per il sole e gli astri del cielo, i quali certo non cessano di emettere luce per rendere omaggio ad un insignificante abitante del pianeta Terra.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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