lunedì 10 novembre 2014

Avarizia, lo stupido vizio di chi gode di una possibilità senza esprimerla

(articolo apparso su Prima Pagina del 2 novembre 2014)

Tra tutti i vizi capitali, l’avarizia è senza dubbio il più stupido. Mentre infatti ira, gola e lussuria sono la causa di un eccesso, l’accidia è la conseguenza di uno stato d’animo difficilmente governabile, e invidia e superbia sono provocate dall’ansia prodotta da un ossessivo confronto con gli altri, l’avarizia è l’assurda schiavitù nei confronti di una forma distorta di appagamento derivante da un possesso che resta tale solo in potenza.
Scrive al riguardo Umberto Galimberti nel volume I vizi capitali e i nuovi vizi (Feltrinelli 2003): «Il denaro accumulato dall’avaro [...] ha in sé il potere di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato, perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere a esso connesso. Questa contraddizione così evidente è dovuta al fatto che l’avaro capovolge il rapporto mezzo-fine, e invece di considerare il denaro un “mezzo” per il raggiungimento di quei “fini” che sono l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni, considera il denaro un fine, per il possesso del quale si deve sacrificare l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri».
Ecco spiegato dunque il motivo per il quale l’avarizia è da considerarsi il più stupido dei vizi: semplicemente perché l’avaro gode di un potere – quello di acquistare ciò che servirebbe a soddisfare un bisogno – ma non lo esprime mai, sopraffatto com’è dalla brama di possesso del denaro. Tutti i beni sono pertanto subordinati al denaro, poiché esso è l’unico che esprima un potere esercitabile su altri beni. Per l’avaro, l’avere è pertanto il fondamento dell’essere, come intuì Karl Marx (il quale sottintendeva un nesso tra avaro e capitalista): «Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore».
Se dunque il denaro da mezzo diventa fine, è evidente che per l’avaro l’identità è strettamente connessa al binomio possesso-privazione: possesso di denaro, privazione della soddisfazione dei bisogni. La vita dell’avaro è quindi necessariamente ascetica. Così la descrive in effetti Marx: «Rinuncia a se stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Infatti, quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo, all’osteria, […] tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro […]. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai».
Il denaro, in altre parole, assume le sembianze di piaceri forzatamente astratti, i quali devono rimanere tali solo in potenza. Ogni cosa ha senso solo in funzione della sua convertibilità in denaro. Per l’avaro tutto ha un prezzo (e se una cosa non ha prezzo, allora non ha valore), e ciò che davvero conta è solo l’accumulo (di denaro e di potere). Egli ha cioè bisogno di sapere che può soddisfare ogni bisogno materiale in qualsiasi momento, fermo restando che il bisogno più forte di tutti è quello di ingrossare all’infinito il suo potere d’acquisto.
Occorre però, a questo punto, fare chiarezza su cosa debba intendersi per avarizia, dal momento che non tutti coloro che paiono avari – secondo il giudizio comune – lo sono in realtà. Scrive al riguardo Umberto Galimberti: «Siamo soliti chiamare “avari” quelle persone che non gettano via nulla, che utilizzano due volte un fiammifero, che scrivono sul retro delle pagine utilizzate, che non sprecano uno spago, che cercano ogni ago perduto, che consumano le medicine in scadenza anche se non ne hanno bisogno, che si rovinano lo stomaco piuttosto che lasciare il pranzo a metà. Ebbene costoro non sono “avari” perché non pensano al valore del denaro degli oggetti che non sprecano, ma proprio al loro valore materiale, che non è affatto in proporzione al loro valore in denaro. Costoro non sono avari, ma parsimoniosi, perché gli avari non attribuiscono alcun valore alle “cose in se stesse”, ma solo a ciò che esse “rappresentano in denaro”. Un denaro che non deve essere speso, perché altrimenti si volatilizzano le possibilità che il denaro promette».
Più che un vizio, l’avarizia è quindi uno stato di angoscia, dovuto a un autentico terrore del futuro, percepito come una minaccia: il futuro, infatti, è il tempo in cui l’avaro teme di perdere ciò che ha e da cui si difende con l’accumulo ossessivo di denaro. Di contro, il presente è il tempo della possibilità: seppur inespresso, il potere di acquisto esorcizza per l’oggi la paura della perdita connessa al domani.
Da questa considerazione deriva poi un’importante conseguenza: l’avaro non può convivere con l’idea (e con la consapevolezza) della propria morte. E questo non tanto perché negli ultimi istanti di vita egli venga privato di ciò che ha, bensì per il fatto che la morte annulla il futuro, e con esso la capacità di proiettare in avanti il potere espresso dal denaro accumulato. La vita dell’avaro, in sostanza, è una non vita, giacché si preclude qualsiasi forma di godimento materiale incompatibile con l’assillo del futuro. In questo senso, l’avarizia è realmente un vizio capitale, nel senso che anticipa la morte, somministrandola poco a poco sotto forma di mortificazione.
Ma c’è dell’altro, come precisa Galimberti: «L’esperienza della morte, ognuno di noi lo sa, non è qualcosa che incontriamo solo nell’atto finale della nostra vita, ma qualcosa che costella la quotidianità della nostra esistenza, ogni volta che il nostro desiderio non trova adeguato appagamento e resta “morti-ficato”. Nella dialettica desiderio-appagamento, l’avaro vuole evitare qualsiasi “mortificazione” che possa essere un’esperienza allusiva della morte. E allora non chiede al denaro di acquistare l’oggetto che appaga il desiderio, perché l’oggetto potrebbe nascondere sorprese e delusioni. Al denaro l’avaro non chiede niente se non il puro possesso, che se da un lato gli garantisce una possibilità infinita, dall’altro lo mette al riparo da ogni delusione».
Il risultato dell’ossessione dell’avarizia è una drammatica contraddizione. L’avaro cioè non spende per non subire la duplice mortificazione del mancato appagamento e dell’angoscia connessa con la spesa (che dal suo punto di vista altro non è che una perdita) di denaro; ma, nel risparmiare, egli mortifica comunque se stesso, precludendosi la possibilità di soddisfare un bisogno. Ne consegue, come detto, che la sua è una non vita, ovvero una morte lenta, che corrode l’animo poco per volta. Il tentativo di esorcizzare la fine dell’esistenza ricorrendo all’accumulo di denaro ha perciò come effetto proprio quello di anticipare la morte, che consuma (e per certi versi proibisce) la vita – conclude Galimberti – «fino a renderla definitivamente non vissuta».
L’avaro quindi è essenzialmente un inguaribile autolesionista, che trascura se stesso per assecondare la sua ossessione verso il denaro. Poco importa, per lui, che il potere d’acquisto – per quanto grande possa diventare – di per sé non soddisfi, se inespresso, alcun bisogno e, soprattutto, che non rappresenti un bene in grado di accrescere la felicità: ciò che conta, infatti, è solo il potere in quanto tale, che dà l’illusione di offrire un riparo contro l’inquietudine connessa con l’idea della perdita. L’avaro, in parole povere, pur disponendo di ingente ricchezza, non può essere felice, dal momento che è consumato dall’interno da un demone che gli impedisce di godere di ciò di cui, potenzialmente, potrebbe disporre. Egli mortifica se stesso senza una valida ragione, e così facendo – come nota Galimberti – si mostra stupido e ottuso. Anche l’immagine che ne dà Dante nel settimo canto dell’Inferno pone l’accento sull’assurdità della sua condotta: come in vita si è preoccupato solo del denaro, elevandolo da mezzo a (inutile) fine, così dopo la morte, per la legge del contrappasso, l’avaro è condannato a spingere avanti e indietro un enorme masso, a compiere cioè un gesto del tutto inutile, ma estremamente logorante e dispendioso.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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