(articolo apparso su Prima Pagina del 2 novembre 2014)
Tra tutti i vizi capitali, l’avarizia è senza dubbio il
più stupido. Mentre infatti ira, gola e lussuria sono la causa di un eccesso, l’accidia
è la conseguenza di uno stato d’animo difficilmente governabile, e invidia e
superbia sono provocate dall’ansia prodotta da un ossessivo confronto con gli
altri, l’avarizia è l’assurda schiavitù nei confronti di una forma distorta di
appagamento derivante da un possesso che resta tale solo in potenza.
Scrive al riguardo Umberto Galimberti nel volume I vizi capitali e i nuovi vizi
(Feltrinelli 2003): «Il denaro accumulato dall’avaro [...] ha in sé il potere
di acquistare tutte le cose, ma questo potere non deve essere esercitato,
perché altrimenti non si ha più il denaro e quindi il potere a esso connesso.
Questa contraddizione così evidente è dovuta al fatto che l’avaro capovolge il
rapporto mezzo-fine, e invece di considerare il denaro un “mezzo” per il raggiungimento
di quei “fini” che sono l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni,
considera il denaro un fine, per il
possesso del quale si deve sacrificare l’acquisizione dei beni e la
soddisfazione dei bisogni e dei desideri».
Ecco spiegato dunque il motivo per il quale l’avarizia è
da considerarsi il più stupido dei vizi: semplicemente perché l’avaro gode di
un potere – quello di acquistare ciò che servirebbe a soddisfare un bisogno –
ma non lo esprime mai, sopraffatto com’è dalla brama di possesso del denaro. Tutti
i beni sono pertanto subordinati al denaro, poiché esso è l’unico che esprima
un potere esercitabile su altri beni. Per l’avaro, l’avere è pertanto il
fondamento dell’essere, come intuì Karl Marx (il quale sottintendeva un nesso
tra avaro e capitalista): «Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che posso pagare, ciò che il
denaro può comprare, quello sono io
stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del
denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie
stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche
e le forze essenziali del suo possessore».
Se dunque il denaro da mezzo diventa fine, è evidente che
per l’avaro l’identità è strettamente connessa al binomio possesso-privazione:
possesso di denaro, privazione della soddisfazione dei bisogni. La vita dell’avaro
è quindi necessariamente ascetica. Così la descrive in effetti Marx: «Rinuncia
a se stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Infatti, quanto meno
mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo, all’osteria, […] tanto più
risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro […]. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita,
tanto più hai».
Il denaro, in altre parole, assume le sembianze di
piaceri forzatamente astratti, i quali devono rimanere tali solo in potenza.
Ogni cosa ha senso solo in funzione della sua convertibilità in denaro. Per l’avaro
tutto ha un prezzo (e se una cosa non ha prezzo, allora non ha valore), e ciò
che davvero conta è solo l’accumulo (di denaro e di potere). Egli ha cioè
bisogno di sapere che può soddisfare ogni bisogno materiale in qualsiasi
momento, fermo restando che il bisogno più forte di tutti è quello di
ingrossare all’infinito il suo potere d’acquisto.
Occorre però, a questo punto, fare chiarezza su cosa
debba intendersi per avarizia, dal momento che non tutti coloro che paiono
avari – secondo il giudizio comune – lo sono in realtà. Scrive al riguardo
Umberto Galimberti: «Siamo soliti chiamare “avari” quelle persone che non
gettano via nulla, che utilizzano due volte un fiammifero, che scrivono sul
retro delle pagine utilizzate, che non sprecano uno spago, che cercano ogni ago
perduto, che consumano le medicine in scadenza anche se non ne hanno bisogno,
che si rovinano lo stomaco piuttosto che lasciare il pranzo a metà. Ebbene
costoro non sono “avari” perché non pensano al valore del denaro degli oggetti
che non sprecano, ma proprio al loro valore
materiale, che non è affatto in proporzione al loro valore in denaro. Costoro non sono avari, ma parsimoniosi,
perché gli avari non attribuiscono alcun valore alle “cose in se stesse”, ma
solo a ciò che esse “rappresentano in denaro”. Un denaro che non deve essere
speso, perché altrimenti si volatilizzano le possibilità che il denaro promette».
Più che un vizio, l’avarizia è quindi uno stato di
angoscia, dovuto a un autentico terrore del futuro, percepito come una
minaccia: il futuro, infatti, è il tempo in cui l’avaro teme di perdere ciò che
ha e da cui si difende con l’accumulo ossessivo di denaro. Di contro, il
presente è il tempo della possibilità: seppur inespresso, il potere di acquisto
esorcizza per l’oggi la paura della perdita connessa al domani.
Da questa considerazione deriva poi un’importante
conseguenza: l’avaro non può convivere con l’idea (e con la consapevolezza)
della propria morte. E questo non tanto perché negli ultimi istanti di vita
egli venga privato di ciò che ha, bensì per il fatto che la morte annulla il
futuro, e con esso la capacità di proiettare in avanti il potere espresso dal
denaro accumulato. La vita dell’avaro, in sostanza, è una non vita, giacché si
preclude qualsiasi forma di godimento materiale incompatibile con l’assillo del
futuro. In questo senso, l’avarizia è realmente un vizio capitale, nel senso
che anticipa la morte, somministrandola poco a poco sotto forma di
mortificazione.
Ma c’è dell’altro, come precisa Galimberti: «L’esperienza
della morte, ognuno di noi lo sa, non è qualcosa che incontriamo solo nell’atto
finale della nostra vita, ma qualcosa che costella la quotidianità della nostra
esistenza, ogni volta che il nostro desiderio non trova adeguato appagamento e
resta “morti-ficato”. Nella dialettica desiderio-appagamento, l’avaro vuole
evitare qualsiasi “mortificazione” che possa essere un’esperienza allusiva
della morte. E allora non chiede al denaro di acquistare l’oggetto che appaga
il desiderio, perché l’oggetto potrebbe nascondere sorprese e delusioni. Al
denaro l’avaro non chiede niente se non il puro possesso, che se da un lato gli
garantisce una possibilità infinita, dall’altro lo mette al riparo da ogni
delusione».
Il risultato dell’ossessione dell’avarizia è una
drammatica contraddizione. L’avaro cioè non spende per non subire la duplice
mortificazione del mancato appagamento e dell’angoscia connessa con la spesa
(che dal suo punto di vista altro non è che una perdita) di denaro; ma, nel
risparmiare, egli mortifica comunque se stesso, precludendosi la possibilità di
soddisfare un bisogno. Ne consegue, come detto, che la sua è una non vita,
ovvero una morte lenta, che corrode l’animo poco per volta. Il tentativo di
esorcizzare la fine dell’esistenza ricorrendo all’accumulo di denaro ha perciò
come effetto proprio quello di anticipare la morte, che consuma (e per certi
versi proibisce) la vita – conclude Galimberti – «fino a renderla
definitivamente non vissuta».
L’avaro quindi è essenzialmente un inguaribile
autolesionista, che trascura se stesso per assecondare la sua ossessione verso
il denaro. Poco importa, per lui, che il potere d’acquisto – per quanto grande
possa diventare – di per sé non soddisfi, se inespresso, alcun bisogno e,
soprattutto, che non rappresenti un bene in grado di accrescere la felicità:
ciò che conta, infatti, è solo il potere in quanto tale, che dà l’illusione di
offrire un riparo contro l’inquietudine connessa con l’idea della perdita. L’avaro,
in parole povere, pur disponendo di ingente ricchezza, non può essere felice,
dal momento che è consumato dall’interno da un demone che gli impedisce di
godere di ciò di cui, potenzialmente, potrebbe disporre. Egli mortifica se
stesso senza una valida ragione, e così facendo – come nota Galimberti – si
mostra stupido e ottuso. Anche l’immagine che ne dà Dante nel settimo canto
dell’Inferno pone l’accento sull’assurdità
della sua condotta: come in vita si è preoccupato solo del denaro, elevandolo
da mezzo a (inutile) fine, così dopo la morte, per la legge del contrappasso, l’avaro
è condannato a spingere avanti e indietro un enorme masso, a compiere cioè un
gesto del tutto inutile, ma estremamente logorante e dispendioso.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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