lunedì 10 novembre 2014

«Simposio»: l’amore come irruzione del divino che scompagina l’universo razionale

(articolo apparso su Prima Pagina del 26 ottobre 2014)

«Non bisogna leggere Platone in modo “platonico”». Umberto Galimberti, nelle pagine del suo Gli equivoci dell’anima dedicate al Simposio di Platone, esordisce con questa singolare avvertenza. Ma cosa intende, di preciso? A cosa ci si riferisce, cioè, abitualmente quando si afferma che un amore è «platonico»? Conviene citare l’autorevole Vocabolario Treccani, il quale, a proposito dell’uso corrente dell’aggettivo, propone la seguente definizione: «Amore non sensuale, che esclude rapporti sessuali e si appaga dell’unione spirituale con la persona amata».
Ebbene, Galimberti vuole dire che il Simposio è un testo molto complesso, nient’affatto «ascetico, edificante, “cristiano”» e del tutto inaccessibile se non si accetta di sgombrare la mente dalle aspettative indotte da un certo tipo di tradizione che vede in Platone essenzialmente il filosofo delle idee astratte e del mito della caverna. Non è possibile, perciò, leggere il Simposio senza le dovute precauzioni: a dispetto delle apparenze, questo dialogo è tutto fuorché un testo di facile comprensione.
Il termine simposio si riferisce alla consuetudine di riunirsi dopo un banchetto serale per discorrere di un argomento specifico e sorseggiare, al contempo, del vino. Nel nostro caso, l’occasione per la riunione di più convitati è offerta dalla celebrazione per la vittoria di Agatone (noto poeta ateniese) in una competizione tragica. A prendere la parola nel corso della discussione, incentrata sul tema dell’amore, sono, nell’ordine, Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate e Alcibiade. Naturalmente, nella seconda parte dell’opera, l’opinione di Platone è affidata alle parole del filosofo Socrate.
Analizziamo dunque, brevemente, i vari interventi del dialogo.
Il primo a parlare, come detto, è Fedro. A suo parere, Eros è il più antico degli dei, capace di infondere negli uomini l’amore per il bello. Nessun amante, infatti, compie azioni che possano procurargli vergogna al cospetto dell’amato; il che porta alla conclusione che, nella polis, i legami di coppia rivestono una significativa valenza sociale.
Più articolato è il discorso di Pausania. In sostanza, egli afferma che occorre tenere presente che Eros ha una doppia natura, ed è da considerarsi bello se si rivolge all’anima, brutto se è interessato solo al corpo. Di questa duplicità, il nomos (ossia l’insieme delle norme e delle tradizioni) ateniese tiene conto, differenziandosi perciò dalle consuetudini delle altre poleis.
Con Pausania concorda successivamente Erissimaco, anche se – precisa – è evidente che Eros «non viva soltanto nelle anime degli uomini, per le persone belle, ma abbia anche altri oggetti e altre sedi», ovvero «i corpi di tutti gli animali ed i vegetali e, per così dire, tutti gli esseri». Di conseguenza – aggiunge –, la medicina è governata da Eros, in quanto, favorendo l’amore sano rispetto a quello malato, cerca di «innamorare reciprocamente, nel corpo, gli elementi più ostili». L’amore, in sostanza, si contrappone drasticamente alla discordia.
A prendere la parola dopo Erissimaco è Aristofane, il quale si affida ad un racconto mitologico (che è, tra l’altro, il passo più conosciuto del Simposio). In origine – afferma – gli uomini erano di forma rotonda e si dividevano in tre distinti sessi: maschio, femmina e androgino. Esseri forti e tracotanti, questi uomini erano invisi agli dei, che li temevano, fintanto che Zeus non decise di tagliarli a metà. Da allora, gli uomini, esseri incompleti, vanno continuamente alla ricerca della propria metà: dagli androgini derivano uomini e donne attratti dall’altro sesso, mentre gli omosessuali provengono dal dimezzamento degli uomini e delle donne. Eros, dunque, dona all’uomo la possibilità di ricercare un ricongiungimento con la parte mancante di sé, e si esprime attraverso la percezione di una mancanza, di un bisogno di unità. «Ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente», conclude Aristofane. Ed è significativo che la parola simbolo, etimologicamente, rimandi all’idea di mettere insieme, far coincidere. Scrive infatti, al riguardo, Umberto Galimberti: «Nell’antica Grecia […] era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo».
Ad Aristofane succede, nel dialogo, Agatone. A suo parere, contrariamente a quanto affermato inizialmente da Fedro, Eros è il più giovane degli dei, come proverebbe la sua straordinaria bellezza. A questa, inoltre, si aggiunge la virtù, che si esprime nelle forme della giustizia, della temperanza, del coraggio e della sapienza. «È lui – sottolinea il poeta tragico – che ci libera dalla selvatichezza […]; lui che ispira la mitezza e bandisce la ruvidezza; generoso in benevolenza, avaro in malevolenza; propizio per i buoni, ammirabile per i saggi, meraviglioso per gli dei; desiderio di chi non ha fortuna, possesso di chi ha fortuna».
Viene quindi il turno di Socrate. Egli afferma, innanzitutto, che chi l’ha preceduto è ricorso il più delle volte ad argomenti retorici, lodando Eros in tutti i modi possibili ma senza alcun riguardo per la verità. Il suo discorso – che è ispirato dagli insegnamenti di Diotima, una sacerdotessa di Mantinea – intende dunque soffermarsi su ciò che Eros realmente è, e si discosta per questo dagli interventi precedenti, in particolare da quello di Agatone. Socrate, infatti, confuta subito l’idea che Eros sia bello, giacché, al contrario, se è vero che amore è sempre amore di qualcosa e che si desidera ciò di cui si è privi, risulta evidente che Eros, in quanto amore del bello, non possa possedere ciò di cui va in cerca.   
Ora, siccome gli dei sono tutti belli, è altresì ovvio che Eros non sia in realtà un dio, bensì un demone – né bello né brutto – che ha una natura intermedia tra gli uomini e gli dei. Secondo Platone, che parla per bocca di Socrate, Eros è infatti figlio di Penia (Povertà) e del dio Poros (Espediente). Si tratta di una genealogia carica di significati, come bene spiega Angelica Taglia: «Secondo la natura della madre, egli [Eros] è povero, privo di bellezza e di agi; come per Aristofane, quindi, anche nel discorso di Diotima Eros risulta nascere da una mancanza, da un bisogno. Ma, in quanto figlio di un dio, dalla natura del padre Eros ha ricevuto l’aspirazione al bello e al buono ed il possesso degli strumenti per procurarsi ciò cui aspira. Poros, che ne è il padre, rappresenta infatti la capacità di trovare la via per uscire dalle difficoltà».
Significativamente, Eros ha molti tratti in comune con la filosofia (che è amore del sapere): entrambi sono mossi infatti da una mancanza, motivo per cui il filosofo non è colui che sa, ma colui che va alla ricerca del sapere partendo da una condizione di ignoranza. Allo stesso modo, anche Eros è un continuo inseguimento: egli rappresenta cioè il tentativo dell’uomo di entrare in contatto con la propria parte irrazionale, la quale costituisce la componente più autentica dell’io ed è imbrigliata dalla ragione che si erge a scudo contro la minaccia della follia. Che cos’è, dunque, per Platone l’amore? È l’irruzione del divino che scompagina l’universo razionale e fa sì che l’uomo entri in contatto con la propria follia, con il proprio vero essere. In quest’ottica, è chiaro che l’amante trova nell’amato una guida che gli consente di accedere alla parte più autentica e recondita del suo io. Il che, in parole povere, equivale a dire che se A ama B, ciò significa che A esplora se stesso attraverso B.
Ecco allora che risulta chiara la natura intermedia di Eros, il quale – precisa Galimberti – «si fa interprete […] tra la ragione che l’uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita». A ben vedere, si tratta del ruolo rivestito da Socrate: così come Eros fa da tramite tra razionalità e follia, allo stesso modo il filosofo – attraverso il procedimento maieutico – è colui attraverso il quale è possibile entrare in contatto con la sapienza divina. È Alcibiade, nel suo intervento conclusivo, a cogliere indirettamente questo nesso. Egli infatti decide di lodare Socrate (e non Eros), lasciando intendere – come nota Angelica Taglia – che il filosofo sia «un Eros con fattezze umane: come Eros scalzo e brutto, ma insidiatore di belli, come Eros non sapiente, ma alla ricerca della sapienza». Tuttavia Alcibiade, pur attratto dalla saggezza di Socrate, non è in grado di comprenderne appieno le implicazioni. Socrate, infatti, scardina la ragione per far emergere la parte più autentica (ma al contempo minacciosa e angosciante) dell’umano; al pari di Eros, egli si pone in una posizione intermedia, prendendo per mano il suo interlocutore e conducendolo alla scoperta della follia che lo abita. Per questo egli è bandito dalla città e condannato a morte: perché l’irruzione del divino (di ciò che non è controllabile per via razionale giacché va al di là della ragione) è tremendamente destabilizzante. È lo stesso Alcibiade, del resto, a dirlo, riferendosi a Socrate: «A volte mi verrebbe quasi il desiderio di non vederlo più tra i vivi; ma poi, se questo accadesse, so bene che ne avrei molto maggiore angoscia: sicché non so proprio come comportarmi con quest’uomo». Per Platone, il mondo dell’Eros è dunque la disponibilità di un’esperienza – carica di fascino e di insidie – che oltrepassa i confini della ragione.  

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