(articolo apparso su Prima Pagina del 26 ottobre 2014)
«Non bisogna leggere Platone in modo “platonico”».
Umberto Galimberti, nelle pagine del suo Gli
equivoci dell’anima dedicate al Simposio
di Platone, esordisce con questa singolare avvertenza. Ma cosa intende, di
preciso? A cosa ci si riferisce, cioè, abitualmente quando si afferma che un
amore è «platonico»? Conviene citare l’autorevole Vocabolario Treccani, il
quale, a proposito dell’uso corrente dell’aggettivo, propone la seguente
definizione: «Amore non sensuale, che esclude rapporti sessuali e si appaga
dell’unione spirituale con la persona amata».
Ebbene, Galimberti vuole dire che il Simposio è un testo molto complesso, nient’affatto «ascetico,
edificante, “cristiano”» e del tutto inaccessibile se non si accetta di
sgombrare la mente dalle aspettative indotte da un certo tipo di tradizione che
vede in Platone essenzialmente il filosofo delle idee astratte e del mito della
caverna. Non è possibile, perciò, leggere il Simposio senza le dovute precauzioni: a dispetto delle apparenze,
questo dialogo è tutto fuorché un testo di facile comprensione.
Il termine simposio si riferisce alla consuetudine di
riunirsi dopo un banchetto serale per discorrere di un argomento specifico e
sorseggiare, al contempo, del vino. Nel nostro caso, l’occasione per la
riunione di più convitati è offerta dalla celebrazione per la vittoria di
Agatone (noto poeta ateniese) in una competizione tragica. A prendere la parola
nel corso della discussione, incentrata sul tema dell’amore, sono, nell’ordine,
Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Socrate e Alcibiade.
Naturalmente, nella seconda parte dell’opera, l’opinione di Platone è affidata
alle parole del filosofo Socrate.
Analizziamo dunque, brevemente, i vari interventi del
dialogo.
Il primo a parlare, come detto, è Fedro. A suo parere,
Eros è il più antico degli dei, capace di infondere negli uomini l’amore per il
bello. Nessun amante, infatti, compie azioni che possano procurargli vergogna al
cospetto dell’amato; il che porta alla conclusione che, nella polis, i legami di coppia rivestono una
significativa valenza sociale.
Più articolato è il discorso di Pausania. In sostanza,
egli afferma che occorre tenere presente che Eros ha una doppia natura, ed è da
considerarsi bello se si rivolge all’anima, brutto se è interessato solo al
corpo. Di questa duplicità, il nomos
(ossia l’insieme delle norme e delle tradizioni) ateniese tiene conto,
differenziandosi perciò dalle consuetudini delle altre poleis.
Con Pausania concorda successivamente Erissimaco, anche
se – precisa – è evidente che Eros «non viva soltanto nelle anime degli uomini,
per le persone belle, ma abbia anche altri oggetti e altre sedi», ovvero «i corpi
di tutti gli animali ed i vegetali e, per così dire, tutti gli esseri». Di conseguenza
– aggiunge –, la medicina è governata da Eros, in quanto, favorendo l’amore
sano rispetto a quello malato, cerca di «innamorare reciprocamente, nel corpo, gli
elementi più ostili». L’amore, in sostanza, si contrappone drasticamente alla
discordia.
A prendere la parola dopo Erissimaco è Aristofane, il
quale si affida ad un racconto mitologico (che è, tra l’altro, il passo più
conosciuto del Simposio). In origine
– afferma – gli uomini erano di forma rotonda e si dividevano in tre distinti
sessi: maschio, femmina e androgino. Esseri forti e tracotanti, questi uomini
erano invisi agli dei, che li temevano, fintanto che Zeus non decise di tagliarli
a metà. Da allora, gli uomini, esseri incompleti, vanno continuamente alla
ricerca della propria metà: dagli androgini derivano uomini e donne attratti
dall’altro sesso, mentre gli omosessuali provengono dal dimezzamento degli
uomini e delle donne. Eros, dunque, dona all’uomo la possibilità di ricercare
un ricongiungimento con la parte mancante di sé, e si esprime attraverso la
percezione di una mancanza, di un bisogno di unità. «Ciascuno di noi è il
simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente»,
conclude Aristofane. Ed è significativo che la parola simbolo, etimologicamente, rimandi all’idea di mettere insieme, far
coincidere. Scrive infatti, al riguardo, Umberto Galimberti: «Nell’antica
Grecia […] era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta
o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un ospite. Queste metà,
conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione,
consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di
riconoscimento si chiamava simbolo».
Ad Aristofane succede, nel dialogo, Agatone. A suo
parere, contrariamente a quanto affermato inizialmente da Fedro, Eros è il più
giovane degli dei, come proverebbe la sua straordinaria bellezza. A questa,
inoltre, si aggiunge la virtù, che si esprime nelle forme della giustizia,
della temperanza, del coraggio e della sapienza. «È lui – sottolinea il poeta
tragico – che ci libera dalla selvatichezza […]; lui che ispira la mitezza e
bandisce la ruvidezza; generoso in benevolenza, avaro in malevolenza; propizio
per i buoni, ammirabile per i saggi, meraviglioso per gli dei; desiderio di chi
non ha fortuna, possesso di chi ha fortuna».
Viene quindi il turno di Socrate. Egli afferma,
innanzitutto, che chi l’ha preceduto è ricorso il più delle volte ad argomenti
retorici, lodando Eros in tutti i modi possibili ma senza alcun riguardo per la
verità. Il suo discorso – che è ispirato dagli insegnamenti di Diotima, una
sacerdotessa di Mantinea – intende dunque soffermarsi su ciò che Eros realmente
è, e si discosta per questo dagli interventi precedenti, in particolare da
quello di Agatone. Socrate, infatti, confuta subito l’idea che Eros sia bello,
giacché, al contrario, se è vero che amore è sempre amore di qualcosa e che si
desidera ciò di cui si è privi, risulta evidente che Eros, in quanto amore del
bello, non possa possedere ciò di cui va in cerca.
Ora, siccome gli dei sono tutti belli, è altresì ovvio
che Eros non sia in realtà un dio, bensì un demone – né bello né brutto – che
ha una natura intermedia tra gli uomini e gli dei. Secondo Platone, che parla
per bocca di Socrate, Eros è infatti figlio di Penia (Povertà) e del dio Poros
(Espediente). Si tratta di una genealogia carica di significati, come bene
spiega Angelica Taglia: «Secondo la natura della madre, egli [Eros] è povero,
privo di bellezza e di agi; come per Aristofane, quindi, anche nel discorso di
Diotima Eros risulta nascere da una mancanza, da un bisogno. Ma, in quanto
figlio di un dio, dalla natura del padre Eros ha ricevuto l’aspirazione al
bello e al buono ed il possesso degli strumenti per procurarsi ciò cui aspira.
Poros, che ne è il padre, rappresenta infatti la capacità di trovare la via per
uscire dalle difficoltà».
Significativamente, Eros ha molti tratti in comune con la
filosofia (che è amore del sapere): entrambi sono mossi infatti da una
mancanza, motivo per cui il filosofo non è colui che sa, ma colui che va alla
ricerca del sapere partendo da una condizione di ignoranza. Allo stesso modo,
anche Eros è un continuo inseguimento: egli rappresenta cioè il tentativo dell’uomo
di entrare in contatto con la propria parte irrazionale, la quale costituisce
la componente più autentica dell’io ed è imbrigliata dalla ragione che si erge
a scudo contro la minaccia della follia. Che cos’è, dunque, per Platone l’amore?
È l’irruzione del divino che scompagina l’universo razionale e fa sì che l’uomo
entri in contatto con la propria follia, con il proprio vero essere. In quest’ottica,
è chiaro che l’amante trova nell’amato una guida che gli consente di accedere
alla parte più autentica e recondita del suo io. Il che, in parole povere,
equivale a dire che se A ama B, ciò significa che A esplora se stesso
attraverso B.
Ecco allora che risulta chiara la natura intermedia di
Eros, il quale – precisa Galimberti – «si fa interprete […] tra la ragione che
l’uomo ha costruito e la follia che ancora lo abita». A ben vedere, si tratta
del ruolo rivestito da Socrate: così come Eros fa da tramite tra razionalità e
follia, allo stesso modo il filosofo – attraverso il procedimento maieutico – è
colui attraverso il quale è possibile entrare in contatto con la sapienza
divina. È Alcibiade, nel suo intervento conclusivo, a cogliere indirettamente
questo nesso. Egli infatti decide di lodare Socrate (e non Eros), lasciando
intendere – come nota Angelica Taglia – che il filosofo sia «un Eros con
fattezze umane: come Eros scalzo e brutto, ma insidiatore di belli, come Eros non
sapiente, ma alla ricerca della sapienza». Tuttavia Alcibiade, pur attratto
dalla saggezza di Socrate, non è in grado di comprenderne appieno le implicazioni.
Socrate, infatti, scardina la ragione per far emergere la parte più autentica
(ma al contempo minacciosa e angosciante) dell’umano; al pari di Eros, egli si
pone in una posizione intermedia, prendendo per mano il suo interlocutore e
conducendolo alla scoperta della follia che lo abita. Per questo egli è bandito
dalla città e condannato a morte: perché l’irruzione del divino (di ciò che non
è controllabile per via razionale giacché va al di là della ragione) è
tremendamente destabilizzante. È lo stesso Alcibiade, del resto, a dirlo,
riferendosi a Socrate: «A volte mi verrebbe quasi il desiderio di non vederlo
più tra i vivi; ma poi, se questo accadesse, so bene che ne avrei molto
maggiore angoscia: sicché non so proprio come comportarmi con quest’uomo». Per
Platone, il mondo dell’Eros è dunque la disponibilità di un’esperienza – carica
di fascino e di insidie – che oltrepassa i confini della ragione.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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