(articolo apparso su Prima Pagina del 18 ottobre 2014)
Arthur Schopenhauer non era certo un tipo allegro.
Austero, misantropo e campione di pessimismo, molti studenti lo considerano – in
parte non a torto – il Leopardi della filosofia, un autore, cioè, che è
obbligatorio leggere sui banchi del liceo, ma che – volendo utilizzare il gergo
giovanile – porta un po’ sfiga. Se poi si aggiunge che il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione,
è un mattone onestamente piuttosto complesso, ecco che la frittata è fatta:
nell’opinione della gente comune, chi legge Schopenhauer deve avere senz’altro
qualche serio problema.
Eppure, anche se pochi lo sanno, spulciando tra le carte
postume del filosofo tedesco, è emerso che Schopenhauer aveva a cuore anche un
certo tipo di riflessione che, sicuramente, ai nostri occhi risulta parecchio
accattivante: si tratta della cosiddetta eudemonologia
(o eudemonica), ovvero – come egli
precisa – di quella dottrina che «dovrebbe insegnare a vivere il più
felicemente possibile». Il che ci porta ad una constatazione quantomeno
bizzarra: lo stesso autore pessimista per antonomasia si occupò (tra le varie
cose) dello studio dell’arte di essere felici. Il risultato della sua indagine
sono cinquanta massime di vita (di varia lunghezza: alcune sono riflessioni
complesse, altre semplici aforismi), che in italiano sono state raccolte in un
volumetto dal titolo L’arte di essere
felici, pubblicato da Adelphi nel 1997.
Schopenhauer parte da una considerazione fondamentale.
Per poter apprendere un modo saggio di vivere, occorre rispettare due
condizioni: rifuggire tanto da un atteggiamento stoico, quanto da un agire
machiavellico. Argomenta, infatti, il filosofo: «Non la prima via, quella della
rinuncia e della privazione, [è praticabile] poiché la scienza deve regolarsi
sull’uomo comune, che è troppo colmo di volontà […] per cercare la sua felicità
in questo modo. Non la seconda, il machiavellismo, cioè la massima di
raggiungere la propria felicità a spese della felicità altrui, poiché proprio
nel caso dell’uomo comune non si può dare per scontata la presenza della
ragione necessaria a questo scopo».
Fatta questa premessa, Schopenhauer precisa che, di per
sé, «una felicità compiuta e positiva è impossibile» (si tratta di un concetto
più volte ribadito, come per esempio nella massima 22: «Il principio primo dell’eudemonologia
è che questa espressione è un eufemismo e che “vivere felici” può significare
solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente»): ma ciò non impedisce all’uomo di darsi da
fare per ridurre al minimo le sofferenze e vivere in pace. Le massime del
trattatello costituiscono, pertanto, un agile strumento per avvicinarsi a
quello che il filosofo considera il bene supremo: la serenità dell’animo. La
quale, è bene sottolinearlo, è comunque vincolata alla salute fisica, senza la
quale ogni discorso sulla felicità risulta inutile.
Procediamo dunque con l’analisi – che effettueremo in
maniera “libera”, senza citare di volta in volta la numerazione corrispondente
– di alcune tra le massime più significative. La prima di esse somiglia molto
ad un avvertimento: dal momento che la felicità, concretamente, è un’illusione,
mentre la sofferenza ed il dolore sono assolutamente reali, nella ricerca della
serenità è bene preoccuparsi, più che altro, di sfuggire a questi ultimi. Al
riguardo, prosegue Schopenhauer, un utile consiglio è evitare l’invidia e pensare
sempre a chi sta peggio, senza farsi ossessionare da chi sembra esageratamente
felice. Fondamentale, poi, è conoscere se stessi. Ognuno, infatti, ha esigenze
personali e specifiche, ed è inutile, oltreché dannoso, fingere di volere ciò
che in realtà non si desidera. «Un uomo – scrive il filosofo – deve [...] sapere ciò che vuole e sapere ciò che può. [...] Conosciamo del
pari la natura e la misura delle nostre forze e delle nostre debolezze, e ci
risparmieremo perciò molti dolori».
Inutile però farsi delle illusioni: il dolore fa parte
della vita (di cui è una componente essenziale), ed è indispensabile
accettarlo. Quanto alla felicità, essa può essere avvertita concretamente solo
nel momento in cui sopraggiunge un mutamento gradito; ma poi, inesorabilmente,
svanisce, allo stesso modo di come una grande sofferenza fa passare totalmente
in secondo piano ogni piccola sgradevole difficoltà. Il punto è che lo stato d’animo
di una persona è subordinato alle sue aspettative per il futuro, giacché è l’avvenire
che condiziona il presente (e non il contrario). Ne consegue, quindi, che la
felicità si basa sulla previsione (ingannevole) che il futuro sia lieto e che
«ogni giubilo smodato […] riposa sempre sull’illusione di aver trovato nella
vita qualcosa che non vi si può affatto incontrare, cioè una durevole
soddisfazione dei tormentosi e sempre rinascenti desideri o cure». È pienamente
condivisibile, pertanto, la conclusione cui giunge Orazio in un passo delle Odi: «Nei momenti difficili ricordati di
conservare l’imperturbabilità, e in quelli favorevoli un cuore assennato che
domini la gioia eccessiva».
La dipendenza dell’oggi dal domani non deve, tuttavia,
trasformarsi in un’ossessione. Infatti, se è vero che non bisogna concentrarsi,
come fanno gli sconsiderati, solo sul presente, è altresì evidente che «coloro
che, animati da una continua tensione, vivono solo nel futuro, guardano sempre
avanti e corrono incontro con impazienza alle cose che sopraggiungono come alle
sole che porteranno la vera felicità, lasciando intanto passare inosservato il
presente senza goderne, assomigliano all’asino italiano di Tischbein, con il
suo fascio di fieno appeso davanti al muso che ne accelera il passo». Occorre
pertanto moderazione nel guardare avanti nel tempo, anche perché l’assillo
delle conquiste future rischia di confondere le idee su un aspetto cruciale del
vivere: ovvero che, siccome «ogni felicità
e ogni piacere sono di genere negativo, mentre il dolore è di genere positivo, la vita non ci è data per
essere goduta, ma per essere sopportata».
Schopenhauer ritiene, in sostanza, che per vivere
serenamente sia necessario sgombrare il campo da equivoci: è estremamente
pernicioso, a suo parere, farsi fuorviare dall’ipocrisia di un mondo che
diffonde continuamente il più sfrenato ottimismo, giacché è evidente, per
esperienza, che i piaceri sfuggono, sono transeunti, mentre la sofferenza ha
radici profonde, e permane. Chi guarda al futuro prospettando per se stesso un
avvenire forzatamente sereno è destinato necessariamente a patire, non
essendosi adeguatamente preparato a sopportare il dolore (che è inevitabile
sopraggiunga, prima o poi); chi invece accetta la sofferenza come parte
dell’esistenza va incontro a minori sorprese, e riduce sensibilmente lo
stordimento provocato da una sventura improvvisa. Al riguardo, Schopenhauer
riprende una frase di Goethe: «Chi vuol liberarsi di un male sa sempre quello
che vuole; chi vuole invece qualcosa di meglio di quel che ha, è assolutamente
cieco». E, da par suo, aggiunge che chi si affanna alla ricerca di un’inconsistente
felicità positiva è paragonabile a un cacciatore che insegue «una selvaggina
inesistente». Evitare i mali, pertanto, è il solo modo per vivere con serenità.
Da vecchi, prosegue il filosofo, tutto è più semplice,
giacché mentre in giovinezza si va ostinatamente alla ricerca della felicità,
«nella seconda metà della vita al
posto dell’aspirazione alla felicità sempre insoddisfatta subentra la
preoccupazione per la sventura, ma trovarvi rimedio è possibile: infatti a
questo punto siamo finalmente guariti dal presupposto ora ricordato e cerchiamo
solo la quiete e la maggiore assenza di dolori possibile». La vecchiaia,
pertanto, è per Schopenhauer l’età più favorevole alla conquista della serenità
dell’animo, dal momento che essa placa, in generale, i desideri, sostituendoli
col bisogno di comodità, sicurezza e riflessione. Lo studio, per esempio, è un
ottimo e gratificante passatempo in grado di allietare le giornate della
persona anziana, se non altro perché pone degli obiettivi a chi, per questioni
di età, corre costantemente il rischio di farsi sopraffare dall’ozio. Tutti,
del resto, devono tenersi impegnati, dal momento che «svolgere un’attività,
dedicarsi a qualcosa, o anche solo studiare sono cose necessarie alla felicità
dell’uomo».
In definitiva, è essenziale che un uomo assecondi la
propria indole, che sappia ascoltarsi e che usi moderazione nell’aspirare alla
felicità. Scrive, verso la fine del trattatello, Schopenhauer: «Proprio perché
nella vita il dolore è prevalente e positivo, mentre i piaceri sono negativi,
chi fa della ragione il filo
conduttore del suo agire, e quindi in tutto ciò che si prefigge riflette sulle
conseguenze e sul futuro, dovrà spesso applicare il sustine et abstine e sacrificare piaceri e gioie per assicurare la
massima assenza possibile di dolore in tutta la vita». E, nell’ultima massima,
conclude che la felicità dipende «da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre per lo più si tiene conto
solo del nostro destino e di ciò che abbiamo».
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
Mi è servito tantissimo per la mia tesina :) grazie grazie
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