(articolo apparso su Prima Pagina del 4 ottobre 2014)
Valerio Mello è un promettente scrittore siciliano che, a
dispetto della giovane età (è nato ad Agrigento il 10 novembre del 1985), ha
già all’attivo diversi riconoscimenti letterari. Asfalto è la sua terza raccolta poetica, edita da La Vita Felice
(2014) con la prestigiosa prefazione di Alessandro Quasimodo, il figlio del
celebre Salvatore, premio Nobel per la letteratura nell’ormai lontano 1959.
Ed è proprio da qui, dalla prefazione, che conviene
partire per inquadrare i versi di Mello. Alessandro Quasimodo, infatti, ci
informa subito che, al pari di suo padre, Mello è un siciliano trapiantato a
Milano, in una metropoli, pertanto, di cui si fa osservatore al contempo
curioso e distaccato. Scrive l’autore della prefazione: «Vedo in lui una sorta
di discepolo ideale di mio padre,
proprio per il fatto che nei versi di questo giovane la tradizione classica
insulare si fonde con i nuovi stimoli offerti dal contemporaneo. Si sente che è
cresciuto con l’aria di mare, immerso nella luce e nei colori mediterranei...
tuttavia la scelta di trasferirsi a Milano ha determinato una evidente
conversione alla modalità della megalopoli, non solo nelle abitudini di vita
quotidiana ma anche – e soprattutto – nel modo con cui egli guarda ciò che gli
sta intorno: come se avesse indossato un paio di lenti fumé».
Il titolo della raccolta – Asfalto – allude evidentemente all’aspetto esteriore della grande
città, a quella che potrebbe definirsi una crosta omologante (del resto l’asfalto
serve proprio a ricoprire la strada per renderla levigata e agevolmente
percorribile) sotto la quale si celano infinite imperfezioni ed asperità. Milano
diventa perciò un tramite che consente alla poesia di Mello di esprimersi
attraverso immagini: ogni cosa, nei suoi versi, è come se avesse un doppio
significato, un volto superficiale e un’anima profonda (e più autentica). Al
riguardo, un esempio chiarificatore potrebbe essere il brevissimo componimento
intitolato «Lampione» (Tutto è sospeso
fra la creazione / del primo e del secondo verso; / precipitare e non riconoscere
voragini, / ipotizzare che la luna sul cielo cobalto / sia il tenue riflesso
del lampione d’arredo): un testo, come si vede, incentrato sul tema –
delicato e fondamentale per ogni autore – della produzione poetica, che
scaturisce da un’immagine trasfigurata, la quale acquista significati
imprevisti. Proprio questi ultimi, del resto, costituiscono l’essenza della
poesia: solo attraverso di essi è possibile procedere alla creazione del primo e del secondo verso; e, volendo entrare nello
specifico della lirica appena letta, solo confondendo (o meglio: fondendo
insieme) la luna con un lampione diventa pensabile avanzare nella costruzione
testuale, parola dopo parola.
La raccolta di Valerio Mello consta di 41 componimenti,
suddivisi in due sezioni intitolate rispettivamente Milano interna, città esterna e Mosche.
Naturalmente, per ovvie ragioni di spazio, in questa sede non sarà certo
possibile analizzarli tutti. Il che ci consentirebbe di proseguire in due modi
differenti: optare per uno sguardo d’insieme, oppure concentrarci su alcune
singole poesie. Personalmente, non ho dubbi nel preferire la seconda opzione,
essenzialmente per due motivi: per prima cosa essa ci consente di scoprire e di
apprezzare lo stile dell’autore, oltre a permetterci di soffermarci brevemente
sui contenuti; inoltre sono convinto che uno sguardo d’insieme risulterebbe
dispersivo, soprattutto in considerazione del fatto che il lettore
presumibilmente non conosce i versi di Mello. Sceglierò pertanto tre
componimenti, accompagnandoli di volta in volta con un breve commento. Prima di
iniziare la lettura, però, sarà utile tenere presente – a mo’ di avvertenza –
il giudizio conclusivo di Alessandro Quasimodo: Mello «coglie con
metodo attento e spietato ogni aspetto del mondo circostante per scannerizzarlo».
La sua poesia, pertanto, è un costante, ostinato percorso di ricerca interiore.
Procediamo dunque con l’analisi dei tre componimenti
selezionati. Il primo si intitola «Cantieri»:
A volte lasciarmi
trascinare dai palazzi in restauro, / dalle facciate sotto la pioggia sfocate,
/ dagli scavi e dai cumuli di terra rimossa; / a volte lasciarmi sovrastare dal
grembo di nuvola / che parla nel valico estremo. / Credevo l’ispirazione
nascesse dal silenzio, / nella pace di una collina con sole di vento, / ma
debbo ricredermi con meraviglia. / Comincio ad amare il sapore del fuori, / all’incrocio
in tua attesa, sostando come semaforo / e senza mai resa, corpo a corpo con l’andirivieni
/ dello sconvolgimento, comincio a leggermi / saliva d’asfalto e cantiere d’incendio.
A chi si riferisce Mello quando afferma di essere in tua attesa? Con tutta evidenza, il
poeta sta parlando della propria ispirazione, che non nasce necessariamente in
un luogo calmo e silenzioso. Il punto è che tutto, potenzialmente, è poesia.
Persino un cantiere o i grigi palazzi di una città possono racchiudere (e, se
adeguatamente “sollecitati”, schiudere) significati profondi, all’apparenza
imperscrutabili. Tutto sta nel nostro sguardo, che può essere superficiale (il
che accade quando ci si limita a guardare, senza vedere realmente nulla) o
penetrante. Un po’ come uno storico, per il quale una fonte “parla” solo a
patto che le vengano poste le domande giuste, Mello va alla ricerca di tutto
ciò che è in grado di comunicargli qualcosa: e lo trova gustando il sapore del fuori.
Per il secondo componimento, la scelta è ricaduta su «Dubbio»:
La voce dice sereno
il cielo, / quieto il peso della polvere sulle strade. / La voce limpida sull’odore
della vernice / nel secchio fresco di ore, mattine / intere di torbida
insignificanza. / Cade da ogni immagine questa domanda: / esterna vita, interna
foschia. / Dove ritrovarti, certezza, se mai sei stata mia? / E sentirmi
ferito, e sentirmi libero / a tratti nel chiarore del dubbio.
L’aspetto più sorprendente di questa poesia è l’accostamento
di due concetti, apparentemente inconciliabili, quali la libertà e il dubbio. Mello
afferma di non avere certezze, inaccessibili a causa dell’interna
foschia: ma è proprio dall’assenza di certezze (la quale, per certi versi,
è pur sempre una condizione che fa sì che il poeta si senta inevitabilmente ferito) che nasce l’esigenza della ricerca,
di un’indagine esistenziale, cioè, che rappresenta la più elevata espressione
della libertà umana. Cos’altro è, del resto, la vita, se non un incessante
inseguire certezze che continuamente ci sfuggono? E come concepire un’esistenza
senza l’affanno della ricerca? Forse, quando tutto risulterà chiaro ai nostri
occhi, quando i dubbi svaniranno e non ci sarà più nulla (e nessuno) da interrogare,
vorrà dire che saremo giunti al capolinea. Solo a quel punto avremo certezze, e
compiremo il passo che separa la libertà dalla quiete.
L’ultimo componimento, infine, si intitola «Non ho più
rivestimenti»:
Non ho più
rivestimenti / come lo scheletro dell’albero / che umido di pioggia / mostra al
cielo segni di sconfitta, / rami penduli. / Dimentico / la conoscenza degli
indumenti, / il calore dell’essere coperti, / riscaldati, protetti, / orfano
sotto getti piovani / approvo un profilo di lenta morte / che mai muore / e non
vedo ancora domani.
L’immagine suggerita da Mello in questo componimento è
particolarmente efficace: il poeta – che intende mettersi a nudo nel tentativo
di avvicinarsi all’essenza delle cose – si rappresenta come lo scheletro dell’albero, simbolo della
sua anima che rifiuta ogni genere di rivestimento. Egli vorrebbe dimenticare la conoscenza degli indumenti, mettere
da parte tutte le componenti superficiali (e superflue) dell’esistenza, per
concentrarsi esclusivamente su di sé e sulla propria affannosa ricerca. Ma il
problema è che il percorso è accidentato, quasi impossibile da percorrere:
Mello instaura un contatto diretto con la morte (il che è un passo obbligato
per avvicinarsi alla comprensione del senso della vita), ma ciò che infine gli
resta tra le mani non è altro che un
profilo di lenta morte che mai muore. L’essenza delle cose, in altre
parole, gli sfugge, poiché in fondo non è alla portata di nessun essere umano.
Con il risultato che il domani – ovvero un futuro rassicurante in cui poter
accettare con serenità la caducità dell’esistenza terrena – resta cupo,
inaccessibile e, per questo, minaccioso.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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