giovedì 9 ottobre 2014

«Asfalto»: viaggio alla scoperta di un (più autentico?) mondo sotterraneo

(articolo apparso su Prima Pagina del 4 ottobre 2014)

Valerio Mello è un promettente scrittore siciliano che, a dispetto della giovane età (è nato ad Agrigento il 10 novembre del 1985), ha già all’attivo diversi riconoscimenti letterari. Asfalto è la sua terza raccolta poetica, edita da La Vita Felice (2014) con la prestigiosa prefazione di Alessandro Quasimodo, il figlio del celebre Salvatore, premio Nobel per la letteratura nell’ormai lontano 1959.
Ed è proprio da qui, dalla prefazione, che conviene partire per inquadrare i versi di Mello. Alessandro Quasimodo, infatti, ci informa subito che, al pari di suo padre, Mello è un siciliano trapiantato a Milano, in una metropoli, pertanto, di cui si fa osservatore al contempo curioso e distaccato. Scrive l’autore della prefazione: «Vedo in lui una sorta di discepolo ideale di mio padre, proprio per il fatto che nei versi di questo giovane la tradizione classica insulare si fonde con i nuovi stimoli offerti dal contemporaneo. Si sente che è cresciuto con l’aria di mare, immerso nella luce e nei colori mediterranei... tuttavia la scelta di trasferirsi a Milano ha determinato una evidente conversione alla modalità della megalopoli, non solo nelle abitudini di vita quotidiana ma anche – e soprattutto – nel modo con cui egli guarda ciò che gli sta intorno: come se avesse indossato un paio di lenti fumé».
Il titolo della raccolta – Asfalto – allude evidentemente all’aspetto esteriore della grande città, a quella che potrebbe definirsi una crosta omologante (del resto l’asfalto serve proprio a ricoprire la strada per renderla levigata e agevolmente percorribile) sotto la quale si celano infinite imperfezioni ed asperità. Milano diventa perciò un tramite che consente alla poesia di Mello di esprimersi attraverso immagini: ogni cosa, nei suoi versi, è come se avesse un doppio significato, un volto superficiale e un’anima profonda (e più autentica). Al riguardo, un esempio chiarificatore potrebbe essere il brevissimo componimento intitolato «Lampione» (Tutto è sospeso fra la creazione / del primo e del secondo verso; / precipitare e non riconoscere voragini, / ipotizzare che la luna sul cielo cobalto / sia il tenue riflesso del lampione d’arredo): un testo, come si vede, incentrato sul tema – delicato e fondamentale per ogni autore – della produzione poetica, che scaturisce da un’immagine trasfigurata, la quale acquista significati imprevisti. Proprio questi ultimi, del resto, costituiscono l’essenza della poesia: solo attraverso di essi è possibile procedere alla creazione del primo e del secondo verso; e, volendo entrare nello specifico della lirica appena letta, solo confondendo (o meglio: fondendo insieme) la luna con un lampione diventa pensabile avanzare nella costruzione testuale, parola dopo parola.
La raccolta di Valerio Mello consta di 41 componimenti, suddivisi in due sezioni intitolate rispettivamente Milano interna, città esterna e Mosche. Naturalmente, per ovvie ragioni di spazio, in questa sede non sarà certo possibile analizzarli tutti. Il che ci consentirebbe di proseguire in due modi differenti: optare per uno sguardo d’insieme, oppure concentrarci su alcune singole poesie. Personalmente, non ho dubbi nel preferire la seconda opzione, essenzialmente per due motivi: per prima cosa essa ci consente di scoprire e di apprezzare lo stile dell’autore, oltre a permetterci di soffermarci brevemente sui contenuti; inoltre sono convinto che uno sguardo d’insieme risulterebbe dispersivo, soprattutto in considerazione del fatto che il lettore presumibilmente non conosce i versi di Mello. Sceglierò pertanto tre componimenti, accompagnandoli di volta in volta con un breve commento. Prima di iniziare la lettura, però, sarà utile tenere presente – a mo’ di avvertenza – il giudizio conclusivo di Alessandro Quasimodo: Mello «coglie con metodo attento e spietato ogni aspetto del mondo circostante per scannerizzarlo». La sua poesia, pertanto, è un costante, ostinato percorso di ricerca interiore.
Procediamo dunque con l’analisi dei tre componimenti selezionati. Il primo si intitola «Cantieri»:
A volte lasciarmi trascinare dai palazzi in restauro, / dalle facciate sotto la pioggia sfocate, / dagli scavi e dai cumuli di terra rimossa; / a volte lasciarmi sovrastare dal grembo di nuvola / che parla nel valico estremo. / Credevo l’ispirazione nascesse dal silenzio, / nella pace di una collina con sole di vento, / ma debbo ricredermi con meraviglia. / Comincio ad amare il sapore del fuori, / all’incrocio in tua attesa, sostando come semaforo / e senza mai resa, corpo a corpo con l’andirivieni / dello sconvolgimento, comincio a leggermi / saliva d’asfalto e cantiere d’incendio.
A chi si riferisce Mello quando afferma di essere in tua attesa? Con tutta evidenza, il poeta sta parlando della propria ispirazione, che non nasce necessariamente in un luogo calmo e silenzioso. Il punto è che tutto, potenzialmente, è poesia. Persino un cantiere o i grigi palazzi di una città possono racchiudere (e, se adeguatamente “sollecitati”, schiudere) significati profondi, all’apparenza imperscrutabili. Tutto sta nel nostro sguardo, che può essere superficiale (il che accade quando ci si limita a guardare, senza vedere realmente nulla) o penetrante. Un po’ come uno storico, per il quale una fonte “parla” solo a patto che le vengano poste le domande giuste, Mello va alla ricerca di tutto ciò che è in grado di comunicargli qualcosa: e lo trova gustando il sapore del fuori.
Per il secondo componimento, la scelta è ricaduta su «Dubbio»:
La voce dice sereno il cielo, / quieto il peso della polvere sulle strade. / La voce limpida sull’odore della vernice / nel secchio fresco di ore, mattine / intere di torbida insignificanza. / Cade da ogni immagine questa domanda: / esterna vita, interna foschia. / Dove ritrovarti, certezza, se mai sei stata mia? / E sentirmi ferito, e sentirmi libero / a tratti nel chiarore del dubbio.
L’aspetto più sorprendente di questa poesia è l’accostamento di due concetti, apparentemente inconciliabili, quali la libertà e il dubbio. Mello afferma di non avere certezze, inaccessibili a causa  dell’interna foschia: ma è proprio dall’assenza di certezze (la quale, per certi versi, è pur sempre una condizione che fa sì che il poeta si senta inevitabilmente ferito) che nasce l’esigenza della ricerca, di un’indagine esistenziale, cioè, che rappresenta la più elevata espressione della libertà umana. Cos’altro è, del resto, la vita, se non un incessante inseguire certezze che continuamente ci sfuggono? E come concepire un’esistenza senza l’affanno della ricerca? Forse, quando tutto risulterà chiaro ai nostri occhi, quando i dubbi svaniranno e non ci sarà più nulla (e nessuno) da interrogare, vorrà dire che saremo giunti al capolinea. Solo a quel punto avremo certezze, e compiremo il passo che separa la libertà dalla quiete.
L’ultimo componimento, infine, si intitola «Non ho più rivestimenti»:
Non ho più rivestimenti / come lo scheletro dell’albero / che umido di pioggia / mostra al cielo segni di sconfitta, / rami penduli. / Dimentico / la conoscenza degli indumenti, / il calore dell’essere coperti, / riscaldati, protetti, / orfano sotto getti piovani / approvo un profilo di lenta morte / che mai muore / e non vedo ancora domani.
L’immagine suggerita da Mello in questo componimento è particolarmente efficace: il poeta – che intende mettersi a nudo nel tentativo di avvicinarsi all’essenza delle cose – si rappresenta come lo scheletro dell’albero, simbolo della sua anima che rifiuta ogni genere di rivestimento. Egli vorrebbe dimenticare la conoscenza degli indumenti, mettere da parte tutte le componenti superficiali (e superflue) dell’esistenza, per concentrarsi esclusivamente su di sé e sulla propria affannosa ricerca. Ma il problema è che il percorso è accidentato, quasi impossibile da percorrere: Mello instaura un contatto diretto con la morte (il che è un passo obbligato per avvicinarsi alla comprensione del senso della vita), ma ciò che infine gli resta tra le mani non è altro che un profilo di lenta morte che mai muore. L’essenza delle cose, in altre parole, gli sfugge, poiché in fondo non è alla portata di nessun essere umano. Con il risultato che il domani – ovvero un futuro rassicurante in cui poter accettare con serenità la caducità dell’esistenza terrena – resta cupo, inaccessibile e, per questo, minaccioso.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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