lunedì 24 marzo 2014

«L’inganno»: storia «di un’amara frode della natura»

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 marzo 2014)

Pubblicato nel 1954, un anno prima, quindi, della morte del suo autore Thomas Mann, L'inganno è un racconto per certi versi crudele, la storia – come la definì lo stesso scrittore tedesco – «di un'amara frode della natura» ai danni di una povera donna, ignara del destino che, inesorabile, l'attende. Quando uscì, il libro di Mann destò scandalo: la tematica, in esso affrontata, del rapporto dell'individuo con la propria sessualità costituiva ancora, negli anni Cinquanta, un autentico tabù. Abile a schermirsi dagli attacchi polemici di molti lettori indignati, l'autore replicò che il suo era stato un esperimento, e, con malcelato disinteresse per l'ottusità del suo pubblico, aggiunse: «Io sono sempre stato rerum novarum cupidus, ho sempre sperimentato: e ciò si fa con alterna fortuna».
Il racconto narra la vicenda di Rosalie von Tümmler, vedova cinquantenne che, negli anni Venti del Novecento, vive a Düsseldorf «in condizioni agiate» insieme con i due figli. Anna, la maggiore, è una ventinovenne condizionata da una malformazione fisica (ha un piede caprino, che la costringe a muoversi con «un'andatura da zoppa») e rassegnata a rimanere nubile; dotata di spiccata intelligenza, riversa i propri sentimenti sulla tela, dipingendo quadri astratti. Eduard, il figlio più giovane, frequenta l'ultimo anno di liceo classico, pur non apprezzando quello che reputa un «noioso umanesimo»: la sua massima aspirazione sarebbe quella di lasciare la Germania per trasferirsi negli Stati Uniti, l'«Eldorado della tecnica».
Rosalie è una donna attraente – nonostante l'età non più giovanile – e piena di vita. Ama i fiori, soprattutto le rose, e si sente fortemente attratta dal mistero della natura che regola, in modo del tutto spontaneo, il normale flusso dell'esistenza. Ciò nondimeno, si sente sola, e fatica ad accettare il lento ma progressivo decadimento fisico: ai suoi occhi, l'inizio della menopausa non è altro che il primo passo verso la morte dei sensi, il venir meno del suo essere autenticamente donna, lo spegnersi, in definitiva, di ogni residuo di quell'avvenenza che è la sola cosa che potrebbe ancora renderla desiderabile.
La sua routine di matrona borghese scorre a ritmo tranquillo, finché nella sua vita non irrompe il giovane e avvenente Ken Keaton, un americano di ventiquattro anni – giunto in Europa durante la prima guerra mondiale e stabilitosi in Germania, innamorato del vecchio continente, al termine del conflitto – assunto per impartire lezioni private d'inglese al figlio liceale. Sedotta dal fascino di Ken, Rosalie finisce per innamorarsi del giovane insegnante e, vista l'impossibilità di reprimere i suoi sentimenti (che in realtà non sono altro che mera attrazione sessuale), si sforza di accettare la propria debolezza, pur senza avere il coraggio di confessarla apertamente. Ben presto, però, Anna coglie il profondo turbamento della madre, la quale, colta alla sprovvista e oramai determinata a non vergognarsi di sé, confessa il suo segreto senza ulteriore indugio. A dare manforte a Rosalie sopraggiunge, inoltre, quello che ella interpreta come un favorevole segno del destino: la ricomparsa, improvvisa, delle mestruazioni e, con esse, della femminilità che credeva perduta.
 Trascorso nel frattempo l'inverno, con l'inizio della primavera Rosalie decide di invitare Ken per una gita, in compagnia dei figli, al castello di Holterhof, non lontano da Düsseldorf. Qui, complice anche l'atmosfera romantica, la donna rompe gli indugi e si dichiara al giovane, con la promessa di andare in seguito a fargli visita nella sua abitazione. Ma quella stessa notte la natura decide di svelare tragicamente il suo beffardo inganno: colta da un grave malore, Rosalie è trasportata in una clinica ginecologica, dove, dopo accurati esami, le viene comunicato che quelle che aveva creduto mestruazioni sono in realtà perdite emorragiche dovute a un tumore maligno all'utero. Poche settimane dopo, pur sempre salda nella sua devozione nei confronti della natura, «l'ingannata» muore.
Il racconto di Mann è quindi una spietata riflessione sull'imprevedibilità della vita, che spesso stravolge progetti e programmi senza il minimo preavviso. Anche quando tutto sembra andare per il meglio, alla natura basta un attimo per distruggere, dalle fondamenta, quella sensazione di sicurezza e stabilità che una persona avverte quando si crede in pace con il mondo. In sostanza, se ci si illude di avere spalle robuste per sopportare qualunque peso, è facile che, prima o poi, si venga risucchiati nel vortice delle contraddizioni che governano quel gigantesco equivoco che è l'esistenza terrena.
Questo, infatti, è il senso drammatico del racconto di Mann: l'inganno, nel caso di Rosalie, non è solo quello dell'improvvisa malattia; è la vita in sé che rappresenta una colossale presa in giro. Nel momento in cui ci illudiamo di comprendere il significato più profondo dell'esistenza siamo tutti suscettibili, chi più chi meno, di cadere vittime di una forza oscura che, si direbbe, trova gusto nel prendersi gioco di noi. L'errore più comune che si possa commettere è pertanto quello di abbassare la guardia, poiché nessuna conquista sarà mai così consolidata da risultare scontata. Bisogna essere sempre preparati al peggio. E accettare, con coraggio, la precarietà di tutto ciò che ci circonda, consapevoli che, dall'oggi al domani, la natura potrebbe facilmente stravolgerlo.
Si tratta, forse, di considerazioni ovvie, ma non per questo da sottovalutare. Del resto, chiunque può riconoscersi nella vicenda narrata da Mann. Quante volte, infatti, capita una disgrazia improvvisa? Chi non ha mai perso, di colpo ed inaspettatamente, una persona cara? Il punto è che, se non possiamo impedire che si verifichino stravolgimenti nella nostra vita, dobbiamo farci trovare pronti, in ogni momento, ad affrontare le fasi di crisi. È quanto dice, peraltro, anche il Vangelo: «Se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa». Il che, si badi, proseguendo con la metafora, non significa che dobbiamo raddoppiare le inferriate – perché tanto, a forza di tentare, il ladro troverà sempre il modo di forzarle –, bensì che dobbiamo prepararci all'inevitabile, dal momento che il dolore e la sofferenza, come il ladro, non bussano certo prima di entrare. Ovvio, è facile a dirsi. Il più delle volte, quando una persona si ammala gravemente, parte il solito ritornello: «Che disgrazia! L'altro giorno stava benone». Ma si tratta di una considerazione senza senso: tutti i malati sono sani fino al momento in cui non si manifestano i sintomi della malattia.
La vita è potenzialmente un grosso inganno, anche se, a ben vedere, diventa tale solo se, da stolti, crediamo di poterla gestire con assoluta razionalità. Al contrario, la vita può essere vista come un dono, che inspiegabilmente ci viene offerto e altrettanto inspiegabilmente ci viene tolto. È come un pegno: ci è affidata, ma non è del tutto nostra. È troppo comodo pretendere di vivere come se detenessimo il diritto assoluto all'esistenza e allo stesso tempo ribellarsi all'idea che, così come all'improvviso veniamo al mondo, senza preavviso ce ne andiamo. Ciascun essere umano è un mistero sia quando nasce che quando muore.
Forse, letto da questa prospettiva, il breve romanzo di Mann risulta meno drammatico di quanto sembri. In fin dei conti, esso contiene – come detto – considerazioni banali, scontate, superflue. Cosa c'è di strano nel raccontare la storia di una persona che muore di tumore? Nulla, in apparenza. Sennonché Mann ci presenta una figura che accetta la morte proprio – paradosso? – per le circostanze in cui essa sopraggiunge. Così Rosalie, poco prima di cedere alla malattia, si rivolge alla figlia: «Anna, non parlare di inganno e di crudeltà schernitrice della natura. Non rimproverarla, come non la rimprovero io. Me ne vado a malincuore, da voi, dalla vita e dalla sua primavera. Ma come ci sarebbe primavera senza morte? La morte è pure un grande strumento di vita, e se per me assunse l'aspetto della risurrezione e dell'amore, non fu inganno, ma bontà e grazia».
Rosalie, in punto di morte, ci offre quindi un inaspettato messaggio di speranza. La morte, afferma, può e deve essere un pungolo che ci sprona a valorizzare ogni singolo istante della nostra vita. Nulla, dopotutto, ci è dovuto, ma tutto ci è concesso. Poco prima di esalare l'ultimo respiro, Rosalie si rallegra al pensiero di avere vissuto intensamente, con passione, la parte conclusiva della sua esistenza. Forse mai come in quei momenti si è sentita viva per davvero. Perché vivere, ora le è chiaro, vale molto di più che sopravvivere.

In memoriam:

In memoria di Franko Mileta (1957 – 2014), uomo di sport, un amico, vinto da un male incurabile.
Nella speranza che anche tu, come la Rosalie di Thomas Mann, ti sia spento senza rimpianti.

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mercoledì 19 marzo 2014

«Solo», ovvero la vita appartata dell’uomo di lettere: una necessità, non una scelta

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 marzo 2014)

Scritto nel 1903, Solo non è, come il titolo potrebbe indurre a pensare – e come, del resto, è più volte stato scritto –, un inno alla solitudine come scelta consapevole di vita. Meno banalmente, il romanzo di August Strindberg è una sofferta riflessione sulla solitudine intesa come stato d'animo che certe persone, mentalmente predisposte, non possono eludere. Vivere in disparte, in altre parole, è per alcuni un'esigenza primaria, una condizione necessaria dell'esistenza, non certo la conseguenza di un atto volontaristico.
Il protagonista del romanzo, di cui non viene detto il nome, è uno scrittore vedovo sulla cinquantina che dopo dieci anni trascorsi in provincia fa ritorno alla sua città natale. La prima scena lo ritrae seduto al tavolo in compagnia di vecchi amici: tra frasi fatte e silenzi imbarazzanti, le ore trascorrono inutilmente, senza che nessuno riesca a trovare il modo per recuperare la spontanea intesa di un tempo. Nemmeno sui ricordi c'è sintonia: ognuno vorrebbe imporre la propria versione dei fatti, distorcendo gli avvenimenti del passato per conferire loro un preciso ed artefatto significato. Tutto, insomma, appare scontato e triste, anche perché «nessuno parlava più dell'avvenire, ma solo del tempo andato, per la semplice ragione che ci si trovava già in quel futuro che si era tanto sognato e intanto non si poteva più immaginarne un altro».
Deluso dagli incontri con i vecchi amici, il protagonista decide quindi di sospendere le visite al caffè, determinato a scoprire «il piacere immenso d'ascoltare il silenzio e di udire le sue nuove voci». La solitudine, in sostanza, è il solo rifugio che metta al riparo dall'ipocrisia di un mondo che non è altro che un'immensa Babele. È inutile illudersi: per sopravvivere, l'uomo di lettere ha bisogno di prendere le distanze dai suoi simili, pena l'annegamento in quel mare dell'indifferenziato che è la società moderna. Anche Schopenhauer sottolinea più volte questo concetto, per esempio quando – nei Parerga e paralipomena – scrive che «al mondo non c'è scelta che tra la solitudine e la comunità»; oppure quando, nella medesima opera, osserva che «nella solitudine ciascuno è ricondotto a sé: ciò che ha in se stesso affiora».
L'attività di scrittore del protagonista trae inoltre notevoli benefici dalla conduzione di una vita appartata: «Mi abituai anche – precisa infatti la voce narrante – a trasformare tutto ciò che vedevo e udivo, tutto: in casa, per strada, nella natura, e, mettendo in relazione quel che avvertivo col mio lavoro quotidiano, mi pareva d'incrementare la mia ricchezza e gli studi da me fatti in solitudine risultavano più preziosi di quelli che avevo a suo tempo condotto sugli uomini in società». Il personaggio – certo in buona sostanza autobiografico – di Strindberg ritiene pertanto che la solitudine possa costituire un'opportunità per indagare nell'intimo delle persone. Non è affatto vero, infatti, che egli non abbia contatti con il mondo. Per di più, quelli che ha sono incontaminati e genuini, non corrotti dalle formalità che la società esige da chiunque pretenda di vivere secondo i suoi schemi preconfezionati.
Durante lunghe passeggiate lungo i viali di Stoccolma, il protagonista di Solo è alla continua ricerca di richiami umani in grado di stimolare la sua curiosità. Osservando attentamente le persone, egli è persino in grado di delineare impietosi profili di quelle che considera «amicizie piuttosto impersonali» (le quali, in verità, altro non sono che incontri occasionali ripetuti nel tempo). Ai suoi occhi vigili non sfugge quindi il contegno grave di un maggiore in pensione che «ha deposto le armi» e, combattendo contro la noia, «va coraggiosamente incontro al suo destino»; o la frustrazione di un vecchio che sembra «aver assaggiato tutte le amarezze della vita nella loro forma più crudele»; e nemmeno, infine, l'assurda e maniacale attenzione che un'anziana donna dedica ai suoi due cani, probabilmente motivata da quella stessa solitudine che è privilegio di pochi saper apprezzare.
Dal punto di vista dell'uomo solo, il mondo appare popolato di persone misere, che si sforzano di condurre un'esistenza "normale" per non mostrare in pubblico la propria sofferenza. L'intera umanità è credibile quanto una caricatura, col risultato che i personaggi della realtà – il più delle volte patetici, come per esempio il droghiere vicino di casa del protagonista, che fallisce a causa del suo scarso senso degli affari – risultano inevitabilmente scontati rispetto a quelli della finzione letteraria, che i grandi scrittori come Balzac o Goethe hanno saputo rendere più autentici dei vivi. Ciò non toglie, però, che l'osservazione delle caricature costituisca un'esigenza imprescindibile per l'uomo di lettere: è questo, del resto, il senso delle lunghe passeggiate descritte minuziosamente da Strindberg. Il soggetto di Solo è infatti una sorta di sonnambulo attratto dalla vita altrui. La sua smisurata sensibilità lo rende «preda d'influenze esterne», di suggestioni che rendono possibile un continuo viaggio nel tempo dei ricordi e in uno spazio che rispecchia, trasfigurandolo, il paesaggio dell'anima. Accumulando immagini e sensazioni, lo scrittore fa il pieno di stimoli creativi in attesa di riversarli sulla pagina: «Quando però torno a casa e siedo al tavolino, allora vivo; e le energie che ho raccolto fuori dal flusso mutevole delle disarmonie, le utilizzo ora per i miei diversi fini. Io vivo e vivo le molte vite dei vari personaggi che delineo e sono felice coi felici, cattivo coi cattivi, buono coi buoni».
Il piacere dello scrivere e il senso di pace che accompagna il silenzio della riflessione sono dunque due aspetti fondamentali del vivere in disparte secondo Strindberg. Ma la solitudine non è mera contemplazione della vita altrui: per apprezzarla, bisogna saper accettare il presente («questo presente che è piaga, senza senso e senza meta, senza risposta come una domanda folle»), mantenendo salda la capacità di non farsi risucchiare nel vortice della disperazione. Il rischio, infatti, è che l'eccesso di vita interiore faccia «avvertire l'assenza del reale»; o, all'opposto, renda intollerabile il contatto, a volte forzato, con la miseria umana. È quanto sperimenta, del resto, il protagonista di Solo quando una sera d'estate monta su una carrozza pubblica e s'avventura tra le strade di una Stoccolma spopolata dei suoi abitanti benestanti: sotto gli occhi della gente dei sobborghi, che lo osserva incuriosita, egli si sente odiato, avverte la propria diversità come una condanna, sente il peso di quell'arroganza che accompagna chi esibisce compiaciuto il privilegio della solitudine. Non sempre, infatti, è facile convivere con se stessi. Osservando gli altri si finisce inevitabilmente per mettere a fuoco anche le proprie debolezze, facendo affiorare ansie e paure inconfessate (come accade al soggetto di Strindberg quando, a causa di un malinteso con la domestica, crede che il figlio, emigrato in America, abbia fatto improvvisamente ritorno a casa – e si trova quindi costretto ad interrogarsi a fondo su come sarebbe stato rincontrarlo, angosciato all'idea di dover fare sfoggio del lato più rassicurante di sé, come se tutte le inquietudini potessero essere cancellate con un rapido colpo di spugna).
La vera costante di tutto il romanzo è quindi l'idea che il confronto, seppur silenzioso, con il mondo esterno consenta di maturare una più approfondita conoscenza di sé. Al protagonista accade sovente durante le passeggiate, ma anche attraverso la lettura (e infatti Franco Perrelli ha notato che «leggendo Balzac, Strindberg legge, in realtà, se stesso e la piccola mistificazione continua allorché il discorso si sposta su Goethe, rispetto al quale scatta il consueto meccanismo dell'identificazione»), o la musica. Nelle ultime pagine di Solo egli si ritrova infatti nella vecchia casa della sua infanzia in compagnia di un musicista, suo conoscente: mentre questi suona il pianoforte, la mente del protagonista viaggia indietro nel tempo, finché non è attratta dalla scena – che intravede da una finestra – di una donna che si prende cura, a tavola, di un bimbo non suo (il nipote, secondo le congetture dell'occulto osservatore). Alcuni mesi dopo il musicista lo informa di essersi fidanzato proprio con quella donna. E quando la voce narrante (Strindberg?) assiste nuovamente alla medesima scena con il bambino, con l'aggiunta però del nuovo membro della famiglia, prova un senso di profonda pace interiore nel contemplarne l'armonia. È questo, di fatto, il preludio alla piena accettazione di sé come uomo necessariamente solo: «E lasciai quella stanza dove avevo penato durante la mia giovinezza, contento d'esser giunto dov'ero, ancora in grado di rallegrarmi della felicità altrui senza alcun rammarico, nostalgia o false inquietudini, e tornai a casa alla mia solitudine, al mio lavoro, alle mie lotte».

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giovedì 13 marzo 2014

«La giornata d’uno scrutatore»: viaggio alla ricerca dei confini dell’umano

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 marzo 2014)

«La prima idea di questo racconto mi venne proprio il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una decina di minuti. No, non ero uno scrutatore, ero candidato del Partito comunista (candidato per far numero nella lista, naturalmente) e come candidato facevo il giro dei seggi dove i rappresentanti di lista chiedevano l'aiuto del partito per delle contestazioni da risolvere. Così assistetti a una discussione in un seggio elettorale del Cottolengo, tra democristiani e comunisti [...]. E fu lì che mi venne l'idea del racconto».
Con queste parole, dopo la pubblicazione de La giornata d'uno scrutatore nel 1963, Italo Calvino volle precisare le circostanze che avevano portato alla stesura di uno dei suoi romanzi più complessi ed affascinanti. Il racconto – «un libro di punti interrogativi», come ebbe a definirlo lo stesso autore – non rientra nel novero delle opere "scolastiche" di Calvino: diversi manuali di storia della letteratura, anche di livello universitario, gli dedicano infatti pochissime righe, e non di rado nemmeno un passo antologizzato. Nondimeno, esso occupa un posto di assoluto rilievo nella produzione dello scrittore sanremese, se non altro per il marcato autobiografismo di alcune delle sue pagine più significative.
Protagonista del racconto è Amerigo Ormea, intellettuale comunista – progressista, laico, storicista, «erede del razionalismo settecentesco» – che, in occasione delle elezioni politiche del 1953 (quelle della cosiddetta «legge truffa»), si trova a dover svolgere le mansioni di scrutatore in un seggio collocato all'interno del Cottolengo, istituito religioso di Torino che fornisce assistenza «ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere». Scopo precipuo di Amerigo è impedire che persone incapaci d'intendere e di volere vengano spinte a votare per la Democrazia Cristiana: deve cioè controllare che le elezioni si svolgano nel rispetto delle regole della democrazia, ed evitare che i religiosi addetti alla cura dei malati influenzino le operazioni di voto.
La vicenda si svolge interamente in un'unica giornata trascorsa al seggio nel Cottolengo. Dalla mattina presto alla sera, Amerigo si trova a dover riflettere sulla validità del proprio razionalismo, messo a dura prova dal contatto con un mondo in cui l'uomo pare aver perso la dignità e sembra essersi degradato a un livello subumano. Sin da subito, le sue convinzioni vacillano: per quanto si sforzi di difendere eticamente i valori democratici in cui è sicuro di credere, egli fatica ad accettare che il suo voto valga tanto quanto quello di un malato di mente. Oggetto principale della sua riflessione non è però la validità o meno del suffragio universale, rispetto alla quale, in linea di principio, nutre pochi dubbi. Ad assillare Amerigo è essenzialmente la ricerca di una soddisfacente nozione di uomo. Quand'è, infatti, che un uomo «può dirsi umano»? Sono la consapevolezza di sé e la capacità di farsi artefice del proprio destino le qualità che elevano l'uomo al di sopra degli altri esseri viventi, o c'è dell'altro? È evidente che se la società concede il diritto di voto ai ricoverati nel Cottolengo, ciò significa che tra questi e le persone "normali" deve pur esserci qualcosa in comune. Ma cosa, di preciso?
Forse una comoda soluzione potrebbe essere la fiducia in un progresso capace di avere la meglio, in futuro, sulle crudeltà della natura. Ma questo, a ben vedere, non è altro che un maldestro tentativo di aggirare l'ostacolo, un arroccarsi in difesa delle proprie presuntuose convinzioni di superiorità. Anche perché il problema è legato all'oggi: i malati votano oggi, oggi la società stabilisce che sono equiparabili a tutti gli altri cittadini.
Quello di Amerigo è quindi uno spinoso dilemma. I suoi pensieri oscillano tra l'indignazione – nei confronti di una Democrazia Cristiana che mostra interesse a varcare la soglia di un luogo "separato" come il Cottolengo solo in occasione delle elezioni, determinata, senza scrupoli, ad accaparrarsi il voto di inconsapevoli persone malate – e la percezione dell'inaffidabilità del suo umanesimo integrale. Tutte le certezze (la politica, gli ideali di libertà, uguaglianza e giustizia) che credeva di avere all'inizio della giornata si sgretolano al contatto con la «miseria della natura»: come se dinanzi alla «vanità del tutto» la storia dell'uomo cessasse di colpo di avere un senso. La stessa «attenzione dello scrutatore ai possibili brogli» finisce così «per esser catturata da un broglio metafisico»: viene meno, cioè, la fiducia nella politica come strumento di elevazione morale dell'individuo («Quest'accolta di gente menomata non poteva esser chiamata in causa, nella politica, che per il testimoniare contro l'ambizione umana»); e persino l'idea di bellezza, verso cui l'uomo naturalmente tende nel suo operare quotidiano, risulta come menomata, relativizzata («E che cos'è, in sé, la bellezza fisica? Un segno, un privilegio, un dato irrazionale della sorte, come – tra costoro – la bruttezza, la deformità, la minorazione? O è un modello via via diverso che noi ci fingiamo, storico più che naturale, una proiezione dei nostri valori di cultura?»).
La vista delle misere creature del Cottolengo instilla quindi nell'animo di Amerigo una completa sfiducia nelle potenzialità umane (emblematica, al riguardo, la sua dura reazione quando apprende – durante la pausa pranzo – che Lia, la donna che frequenta, è incinta: «Nulla – precisa infatti il narratore – lo scandalizzava quanto la faciloneria con cui i popoli si moltiplicano, [...] abituati a lasciar fare alla natura, alla disattenzione, all'abbandono»). A distoglierlo però dalle sue pessimistiche elucubrazioni è una scena toccante, cui assiste durante le operazioni di voto di coloro che sono impossibilitati a lasciare la corsia: un vecchio padre, seduto ai piedi di un letto, intento ad accudire il figlio «deficiente» e «rattrappito nei movimenti». A differenza delle suore che operano nell'istituto perché hanno «scelto la corsia con un atto di libertà», l'anziano visitatore non ha avuto alternative: è l'affetto per il figlio malato a fargli superare la barriera che divide il Cottolengo dal resto del mondo. «Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d'essere è l'amore. E poi: l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo».
Ciò che caratterizza, quindi, l'"umanità dell'uomo" non sono le facoltà mentali, le capacità e nemmeno gli ideali. È la solidarietà che avvicina ogni individuo ai suoi simili: quella solidarietà che motiva un gesto d'amore di un padre nei confronti del figlio e che anima quella «città dell'imperfezione» che è il Cottolengo. È la condivisione delle sofferenze che rende possibile «l'ora, l'attimo, in cui in ogni città c'è la Città».
Il romanzo testimonia pertanto la problematicità con cui Calvino interpreta il proprio ruolo di intellettuale progressista. È possibile credere in un avvenire migliore senza aver prima fatto i conti con l'essenza della natura umana? Cosa significa, in altre parole, avere fiducia nell'uomo, nelle sue potenzialità, negli ideali di giustizia e libertà? Spesso ci si dimentica degli aspetti basilari della convivenza civile, ed è sufficiente varcare la "soglia" del Cottolengo per vedersi costretti a stravolgere convinzioni che si era creduto fossero inattaccabili. Il passo che deve compiere Amerigo – il cui nome evoca, naturalmente, l'idea del viaggio che è necessario intraprendere per scoprire se stessi – è quindi quello dell'abbandono delle certezze legate al futuro. I suoi nobili ideali di uguaglianza non possono prescindere da un presente che richiede anche la sua solidarietà nei confronti di persone per le quali probabilmente non ci sarà mai un domani. Ciò che fa la differenza, in una prospettiva che forzatamente si discosta da ogni forma di attendismo palingenetico, è la volontà di vivere degnamente l'oggi, dal momento che oggi c'è bisogno di amore, solidarietà e giustizia. È quanto comprende infine Amerigo, al termine della giornata trascorsa al Cottolengo: «Il passato (proprio per il fatto d'avere un'immagine così compiuta nella quale non si poteva pensare di cambiar nulla come in questo dormitorio) gli pareva una gran trappola. E il futuro, quando ci se ne fa un'immagine (cioè lo si annette al passato), diventava una trappola esso pure». Il che porta ad un'inevitabile conclusione: la politica e l'ideologia, se prescindono dalla solidarietà nei confronti dei più deboli, non sono altro che vacui esercizi della mente.

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mercoledì 5 marzo 2014

«Diario di un parroco di campagna»: libro di istruzioni per (ri)scoprire il miracolo della vita

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° marzo 2014)
 
Diario di un parroco di campagna, l'opera più riuscita dello scrittore toscano Nicola Lisi, è un romanzo per certi versi atipico. Pubblicato nel 1942, il libro non è altro che una sequenza di ricordi e impressioni annotati per iscritto da un anziano sacerdote di un piccolo paese del Mugello. Nessuna vicenda e nessun avvenimento particolare consentono di tracciare un percorso che conduca dalla prima all'ultima pagina: le memorie sono brevi note divise per mese e riferite ad un particolare giorno (indicato solo con il nome del santo corrispondente). Anche la successione degli anni è vaga: molto semplicemente, i tre periodi presi in considerazione sono definiti «anno del freddo», «anno dei pellegrini» e «anno dei fiori», giusto per sottolineare alcune tematiche ricorrenti della narrazione.
L'aspetto forse più curioso del romanzo – soprattutto se lo si giudica secondo il gusto moderno – è che, in oltre centocinquanta pagine, di fatto, non accade nulla di rilevante. Non c'è una vera e propria trama, un racconto che abbia un inizio e una fine: il Diario è essenzialmente un quaderno di appunti contenente le osservazioni di un anziano curato che sente la necessità di mettere per iscritto le fuggevoli impressioni sulla vita di tutti i giorni, sulle persone che incontra, sui luoghi che frequenta. Ciò che ne risulta è un rapido affresco degli «avvenimenti di parrocchia», che l'autore, prossimo alla morte, vorrebbe tramandare al suo «già beneamato quantunque sconosciuto successore, perché ne traesse motivo di speranza e di conforto».
Colpisce, nelle pagine di Lisi, l'apparente insignificanza della materia narrata. Il parroco mostra interesse per questioni di poco conto, si commuove per un'inezia e si sente parte di un mondo che trabocca di segnali tangibili della presenza di Dio. Tutto il creato, filtrato attraverso il pio sguardo dei suoi occhi, appare costantemente in armonia, come frutto di un miracolo che si perpetua in eterno. Le piante, gli uccelli, gli umili fedeli della parrocchia: ogni cosa è descritta come facente parte di un paradiso incantato.
Si legga il paragrafetto intitolato «Marzo – S. Francesca Romana Vedova», facente parte del primo capitolo:
«Stanotte l'acqua è ghiacciata persino negli orcetti e nelle catinelle. Persone della vicina fattoria mi hanno raccontato che la vasca è chiusa da un lastrone di ghiaccio, infrangibile persino a batterci col mazzapicchio. I pesci che rallegravano lo sguardo, rimasti senz'aria, saranno tutti morti. Quello del vaso di vetro sulla credenza di salotto non ha patito freddo, perché è prossimo alla stufa. Lo chiesi al fattore nell'autunno scorso: se non mi fosse venuta quella voglia ora sarebbe finito come gli altri. Così, scampato da morte per combinazione, mi sembra anche più bello.
Ho saputo poi che un contadino, peso più di ottanta chili, è passato sulla vasca di traverso.
I frutti sono fioriti e ormai le belle rame sorreggono diaccioli colorati: a suo tempo non porteranno frutto.
Dopo la scorsa quindicina ricca di tepore, queste giornate arrecano completo disinganno».
Quella che, a un primo approccio, potrebbe sembrare una banale registrazione di fatti ordinari, subordinata ad una concezione idilliaca della realtà, va letta, a ben vedere, come un tentativo di lasciare traccia della "straordinarietà" della vita. Nel flusso di coscienza del parroco ogni cosa non è solo se stessa, bensì un tramite che consente di scorgere, in chiave cristiana, la bellezza del creato. Il pesce «scampato da morte per combinazione» (e lo stesso potrebbe dirsi per i passi in cui si parla degli uccelli, delle farfalle, delle diverse varietà di alberi, o dei fedeli e dei pellegrini che si presentano in canonica) non è solo una curiosità, come tale priva di significato. Esso rappresenta una prova tangibile dell'esistenza della provvidenza divina, che è sempre in grado, in ogni momento, di commuovere chiunque abbia la sensibilità per coglierne la magnificenza.
Nulla, sembra quindi voler dire Nicola Lisi, è banale su questa terra. L'esistenza, in quanto tale, è già di per sé un miracolo; è un dono da custodire con premura, che va apprezzato giorno dopo giorno. Oggi, in un mondo che abitualmente considera la vita come un dato di fatto – sul quale non è necessario (e nemmeno saggio) interrogarsi –, sarebbe forse il caso di riflettere sulla lezione di questo pressoché dimenticato scrittore del secolo scorso. Il rischio, infatti, è che la nostra stessa vita ci sfugga di mano, che passi rapida senza che ci fermiamo mai un attimo per guardarci attorno, alla ricerca di qualche risposta: sempre di corsa, viviamo preoccupati esclusivamente degli aspetti pratici, economici e materiali, tralasciando tutto quanto non è "misurabile". Al riguardo, è più che condivisibile quanto scrive Carlo Lapucci nella Prefazione dell'edizione Cantagalli 2009 del Diario: «Apparentemente semplici fino alla banalità, le cose richiedono a noi, immersi nei rumori frastornanti dei motori, nei gridi di chi parla, negli urli di chi canta, nella distrazione generale prodotta dalla fretta e dai pungoli di un tempo divenuto vorticoso, uno sforzo notevole per giungere ad essere percepite in una dimensione che sia oltre la loro utilità, la loro funzione e l'insignificanza in cui il mondo moderno le confina se fuori di queste categorie».
Il punto è che oggi il canto di un uccello o il profumo di un fiore non significano più nulla. Anche per chi crede la natura è, il più delle volte, una meta per vacanze, al massimo un piacevole diversivo: altro che creatura di Dio! Nel mondo frenetico dominato dalla tecnica tutto scorre via alla massima velocità possibile, col risultato che siamo, un po' tutti, troppo distratti. La vita quotidiana si svolge in un contesto troppo umano, nel senso che ovunque non c'è posto, ormai, se non per le infinite cose che l'uomo produce o costruisce. Le città sono enormi ambienti artificiali, soffocanti: aprendo una finestra di un palazzo, l'unico spettacolo possibile è quello del cemento, per non parlare dei suoni e degli odori, anch'essi innaturali.
Ecco dunque spiegato il motivo per cui il Diario di Lisi potrebbe acquistare grande fascino per il lettore moderno: si tratta di un romanzo che consente di far rivivere un tempo che va esaurendosi e che sopravvive giusto nelle piccole comunità di campagna, lontano dai grandi centri. Un anziano parroco che si commuove per un pesce sopravvissuto a una gelata, che si emoziona – per esempio – alla vista di due viole inaspettatamente cresciute nel mese di gennaio e che intrattiene rapporti di confidenza con tutti i fedeli affidati alla sua cura pastorale è senza dubbio testimone di un mondo che va scomparendo, ma di cui si avverte sempre di più la mancanza. Di quante persone, infatti, si sente dire che sono oppresse da uno stile di vita alienante, che riduce gli esseri umani a numeri e a ingranaggi? Quanta gente sente il bisogno di evadere da una realtà che ci accetta solo in funzione della nostra "utilità"? È davvero possibile vivere confinati in un mondo artificiale, dove si ottiene riconoscimento solo a patto di "servire" a qualcosa? Dove la natura va bene al massimo come sfondo per una bella fotografia e le persone quasi non si chiamano più per nome?
Qui non si tratta, a ben vedere, di credere o non credere. Certo, chi possiede il dono della fede è in grado di apprezzare sfumature dell'esistenza che ad altri magari sfuggono; ma il punto è un altro. La sola vita che conosciamo è quella che siamo costretti a trascorrere su questa terra, nei tempi e nei modi che Dio o il caso decidono per noi. Niente è scontato. Ogni giorno che passa, il miracolo della vita si ripete, dal momento in cui apriamo gli occhi la mattina a quando i sensi ci abbandonano la sera. Il fascino della vita è talmente straordinario che non può non colpire anche chi non crede in Dio. L'assenza di fede, infatti, non consente di negare un senso all'esistenza; casomai, si traduce nell'impossibilità di trovarne uno comprensibile, il che è ben altra cosa. Nessuno può affermare l'assoluta assenza di risposte per il solo fatto che è incapace di individuarne una plausibile. Pur nella carenza di certezze, lascia intendere Lisi, la vita merita di essere vissuta. Non fosse altro che per l'innato bisogno dell'uomo di soddisfare quella curiosità che lo spinge ad interrogarsi sul suo futuro incerto. 

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