(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 marzo 2014)
«La prima idea di questo racconto mi
venne proprio il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una
decina di minuti. No, non ero uno scrutatore, ero candidato del Partito comunista
(candidato per far numero nella lista, naturalmente) e come candidato facevo il
giro dei seggi dove i rappresentanti di lista chiedevano l'aiuto del partito
per delle contestazioni da risolvere. Così assistetti a una discussione in un
seggio elettorale del Cottolengo, tra democristiani e comunisti [...]. E fu lì
che mi venne l'idea del racconto».
Con queste parole, dopo la
pubblicazione de La giornata d'uno
scrutatore nel 1963, Italo Calvino volle precisare le circostanze che
avevano portato alla stesura di uno dei suoi romanzi più complessi ed
affascinanti. Il racconto – «un libro di punti interrogativi», come ebbe a
definirlo lo stesso autore – non rientra nel novero delle opere "scolastiche"
di Calvino: diversi manuali di storia della letteratura, anche di livello
universitario, gli dedicano infatti pochissime righe, e non di rado nemmeno un
passo antologizzato. Nondimeno, esso occupa un posto di assoluto rilievo nella
produzione dello scrittore sanremese, se non altro per il marcato
autobiografismo di alcune delle sue pagine più significative.
Protagonista del racconto è Amerigo
Ormea, intellettuale comunista – progressista, laico, storicista, «erede del
razionalismo settecentesco» – che, in occasione delle elezioni politiche del
1953 (quelle della cosiddetta «legge truffa»), si trova a dover svolgere le
mansioni di scrutatore in un seggio collocato all'interno del Cottolengo,
istituito religioso di Torino che fornisce assistenza «ai minorati, ai
deficienti, ai deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette
a nessuno di vedere». Scopo precipuo di Amerigo è impedire che persone incapaci
d'intendere e di volere vengano spinte a votare per la Democrazia Cristiana:
deve cioè controllare che le elezioni si svolgano nel rispetto delle regole
della democrazia, ed evitare che i religiosi addetti alla cura dei malati
influenzino le operazioni di voto.
La vicenda si svolge interamente in
un'unica giornata trascorsa al seggio nel Cottolengo. Dalla mattina presto alla
sera, Amerigo si trova a dover riflettere sulla validità del proprio
razionalismo, messo a dura prova dal contatto con un mondo in cui l'uomo pare
aver perso la dignità e sembra essersi degradato a un livello subumano. Sin da
subito, le sue convinzioni vacillano: per quanto si sforzi di difendere
eticamente i valori democratici in cui è sicuro di credere, egli fatica ad
accettare che il suo voto valga tanto quanto quello di un malato di mente.
Oggetto principale della sua riflessione non è però la validità o meno del
suffragio universale, rispetto alla quale, in linea di principio, nutre pochi
dubbi. Ad assillare Amerigo è essenzialmente la ricerca di una soddisfacente nozione
di uomo. Quand'è, infatti, che un uomo «può dirsi umano»? Sono la
consapevolezza di sé e la capacità di farsi artefice del proprio destino le
qualità che elevano l'uomo al di sopra degli altri esseri viventi, o c'è
dell'altro? È evidente che se la società concede il diritto di voto ai
ricoverati nel Cottolengo, ciò significa che tra questi e le persone
"normali" deve pur esserci qualcosa in comune. Ma cosa, di preciso?
Forse una comoda soluzione potrebbe
essere la fiducia in un progresso capace di avere la meglio, in futuro, sulle
crudeltà della natura. Ma questo, a ben vedere, non è altro che un maldestro
tentativo di aggirare l'ostacolo, un arroccarsi in difesa delle proprie
presuntuose convinzioni di superiorità. Anche perché il problema è legato
all'oggi: i malati votano oggi, oggi la società stabilisce che
sono equiparabili a tutti gli altri cittadini.
Quello di Amerigo è quindi uno
spinoso dilemma. I suoi pensieri oscillano tra l'indignazione – nei confronti
di una Democrazia Cristiana che mostra interesse a varcare la soglia di un
luogo "separato" come il Cottolengo solo in occasione delle elezioni,
determinata, senza scrupoli, ad accaparrarsi il voto di inconsapevoli persone
malate – e la percezione dell'inaffidabilità del suo umanesimo integrale. Tutte
le certezze (la politica, gli ideali di libertà, uguaglianza e giustizia) che
credeva di avere all'inizio della giornata si sgretolano al contatto con la
«miseria della natura»: come se dinanzi alla «vanità del tutto» la storia
dell'uomo cessasse di colpo di avere un senso. La stessa «attenzione dello
scrutatore ai possibili brogli» finisce così «per esser catturata da un broglio
metafisico»: viene meno, cioè, la fiducia nella politica come strumento di
elevazione morale dell'individuo («Quest'accolta di gente menomata non poteva esser
chiamata in causa, nella politica, che per il testimoniare contro l'ambizione
umana»); e persino l'idea di bellezza, verso cui l'uomo naturalmente tende nel
suo operare quotidiano, risulta come menomata, relativizzata («E che cos'è, in
sé, la bellezza fisica? Un segno, un privilegio, un dato irrazionale della
sorte, come – tra costoro – la bruttezza, la deformità, la minorazione? O è un
modello via via diverso che noi ci fingiamo, storico più che naturale, una
proiezione dei nostri valori di cultura?»).
La vista delle misere creature del
Cottolengo instilla quindi nell'animo di Amerigo una completa sfiducia nelle
potenzialità umane (emblematica, al riguardo, la sua dura reazione quando apprende
– durante la pausa pranzo – che Lia, la donna che frequenta, è incinta: «Nulla –
precisa infatti il narratore – lo scandalizzava quanto la faciloneria con cui i
popoli si moltiplicano, [...] abituati a lasciar fare alla natura, alla
disattenzione, all'abbandono»). A distoglierlo però dalle sue pessimistiche
elucubrazioni è una scena toccante, cui assiste durante le operazioni di voto
di coloro che sono impossibilitati a lasciare la corsia: un vecchio padre,
seduto ai piedi di un letto, intento ad accudire il figlio «deficiente» e
«rattrappito nei movimenti». A differenza delle suore che operano nell'istituto
perché hanno «scelto la corsia con un atto di libertà», l'anziano visitatore
non ha avuto alternative: è l'affetto per il figlio malato a fargli superare la
barriera che divide il Cottolengo dal resto del mondo. «Ecco, pensò Amerigo,
quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo
modo d'essere è l'amore. E poi: l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha
confini se non quelli che gli diamo».
Ciò che caratterizza, quindi, l'"umanità
dell'uomo" non sono le facoltà mentali, le capacità e nemmeno gli ideali.
È la solidarietà che avvicina ogni individuo ai suoi simili: quella solidarietà
che motiva un gesto d'amore di un padre nei confronti del figlio e che anima
quella «città dell'imperfezione» che è il Cottolengo. È la condivisione delle
sofferenze che rende possibile «l'ora, l'attimo, in cui in ogni città c'è la
Città».
Il romanzo testimonia pertanto la problematicità con cui Calvino
interpreta il proprio ruolo di intellettuale progressista. È possibile credere
in un avvenire migliore senza aver prima fatto i conti con l'essenza della
natura umana? Cosa significa, in altre parole, avere fiducia nell'uomo, nelle
sue potenzialità, negli ideali di giustizia e libertà? Spesso ci si dimentica
degli aspetti basilari della convivenza civile, ed è sufficiente varcare la
"soglia" del Cottolengo per vedersi costretti a stravolgere
convinzioni che si era creduto fossero inattaccabili. Il passo che deve
compiere Amerigo – il cui nome evoca, naturalmente, l'idea del viaggio che è
necessario intraprendere per scoprire se stessi – è quindi quello
dell'abbandono delle certezze legate al futuro. I suoi nobili ideali di
uguaglianza non possono prescindere da un presente che richiede anche la sua
solidarietà nei confronti di persone per le quali probabilmente non ci sarà mai
un domani. Ciò che fa la differenza, in una prospettiva che forzatamente si
discosta da ogni forma di attendismo palingenetico, è la volontà di vivere
degnamente l'oggi, dal momento che oggi
c'è bisogno di amore, solidarietà e giustizia. È quanto comprende infine Amerigo,
al termine della giornata trascorsa al Cottolengo: «Il passato (proprio per il
fatto d'avere un'immagine così compiuta nella quale non si poteva pensare di cambiar
nulla come in questo dormitorio) gli pareva una gran trappola. E il futuro,
quando ci se ne fa un'immagine (cioè lo si annette al passato), diventava una
trappola esso pure». Il che porta ad un'inevitabile conclusione: la politica e
l'ideologia, se prescindono dalla solidarietà nei confronti dei più deboli, non
sono altro che vacui esercizi della mente.Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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