(articolo apparso su Prima Pagina del 1° marzo 2014)
Diario
di un parroco di campagna, l'opera più riuscita dello
scrittore toscano Nicola Lisi, è un romanzo per certi versi atipico. Pubblicato
nel 1942, il libro non è altro che una sequenza di ricordi e impressioni
annotati per iscritto da un anziano sacerdote di un piccolo paese del Mugello.
Nessuna vicenda e nessun avvenimento particolare consentono di tracciare un
percorso che conduca dalla prima all'ultima pagina: le memorie sono brevi note
divise per mese e riferite ad un particolare giorno (indicato solo con il nome
del santo corrispondente). Anche la successione degli anni è vaga: molto
semplicemente, i tre periodi presi in considerazione sono definiti «anno del
freddo», «anno dei pellegrini» e «anno dei fiori», giusto per sottolineare
alcune tematiche ricorrenti della narrazione.
L'aspetto forse più curioso del
romanzo – soprattutto se lo si giudica secondo il gusto moderno – è che, in
oltre centocinquanta pagine, di fatto, non accade nulla di rilevante. Non c'è
una vera e propria trama, un racconto che abbia un inizio e una fine: il Diario è essenzialmente un quaderno di
appunti contenente le osservazioni di un anziano curato che sente la necessità
di mettere per iscritto le fuggevoli impressioni sulla vita di tutti i giorni,
sulle persone che incontra, sui luoghi che frequenta. Ciò che ne risulta è un
rapido affresco degli «avvenimenti di parrocchia», che l'autore, prossimo alla
morte, vorrebbe tramandare al suo «già beneamato quantunque sconosciuto successore,
perché ne traesse motivo di speranza e di conforto».Colpisce, nelle pagine di Lisi, l'apparente insignificanza della materia narrata. Il parroco mostra interesse per questioni di poco conto, si commuove per un'inezia e si sente parte di un mondo che trabocca di segnali tangibili della presenza di Dio. Tutto il creato, filtrato attraverso il pio sguardo dei suoi occhi, appare costantemente in armonia, come frutto di un miracolo che si perpetua in eterno. Le piante, gli uccelli, gli umili fedeli della parrocchia: ogni cosa è descritta come facente parte di un paradiso incantato.
Si legga il paragrafetto intitolato «Marzo – S. Francesca Romana Vedova», facente parte del primo capitolo:
«Stanotte l'acqua è ghiacciata persino negli orcetti e nelle catinelle. Persone della vicina fattoria mi hanno raccontato che la vasca è chiusa da un lastrone di ghiaccio, infrangibile persino a batterci col mazzapicchio. I pesci che rallegravano lo sguardo, rimasti senz'aria, saranno tutti morti. Quello del vaso di vetro sulla credenza di salotto non ha patito freddo, perché è prossimo alla stufa. Lo chiesi al fattore nell'autunno scorso: se non mi fosse venuta quella voglia ora sarebbe finito come gli altri. Così, scampato da morte per combinazione, mi sembra anche più bello.
Ho saputo poi che un contadino, peso più di ottanta chili, è passato sulla vasca di traverso.
I frutti sono fioriti e ormai le belle rame sorreggono diaccioli colorati: a suo tempo non porteranno frutto.
Dopo la scorsa quindicina ricca di tepore, queste giornate arrecano completo disinganno».
Quella che, a un primo approccio, potrebbe sembrare una banale registrazione di fatti ordinari, subordinata ad una concezione idilliaca della realtà, va letta, a ben vedere, come un tentativo di lasciare traccia della "straordinarietà" della vita. Nel flusso di coscienza del parroco ogni cosa non è solo se stessa, bensì un tramite che consente di scorgere, in chiave cristiana, la bellezza del creato. Il pesce «scampato da morte per combinazione» (e lo stesso potrebbe dirsi per i passi in cui si parla degli uccelli, delle farfalle, delle diverse varietà di alberi, o dei fedeli e dei pellegrini che si presentano in canonica) non è solo una curiosità, come tale priva di significato. Esso rappresenta una prova tangibile dell'esistenza della provvidenza divina, che è sempre in grado, in ogni momento, di commuovere chiunque abbia la sensibilità per coglierne la magnificenza.
Nulla, sembra quindi voler dire Nicola Lisi, è banale su questa terra. L'esistenza, in quanto tale, è già di per sé un miracolo; è un dono da custodire con premura, che va apprezzato giorno dopo giorno. Oggi, in un mondo che abitualmente considera la vita come un dato di fatto – sul quale non è necessario (e nemmeno saggio) interrogarsi –, sarebbe forse il caso di riflettere sulla lezione di questo pressoché dimenticato scrittore del secolo scorso. Il rischio, infatti, è che la nostra stessa vita ci sfugga di mano, che passi rapida senza che ci fermiamo mai un attimo per guardarci attorno, alla ricerca di qualche risposta: sempre di corsa, viviamo preoccupati esclusivamente degli aspetti pratici, economici e materiali, tralasciando tutto quanto non è "misurabile". Al riguardo, è più che condivisibile quanto scrive Carlo Lapucci nella Prefazione dell'edizione Cantagalli 2009 del Diario: «Apparentemente semplici fino alla banalità, le cose richiedono a noi, immersi nei rumori frastornanti dei motori, nei gridi di chi parla, negli urli di chi canta, nella distrazione generale prodotta dalla fretta e dai pungoli di un tempo divenuto vorticoso, uno sforzo notevole per giungere ad essere percepite in una dimensione che sia oltre la loro utilità, la loro funzione e l'insignificanza in cui il mondo moderno le confina se fuori di queste categorie».
Il punto è che oggi il canto di un uccello o il profumo di un fiore non significano più nulla. Anche per chi crede la natura è, il più delle volte, una meta per vacanze, al massimo un piacevole diversivo: altro che creatura di Dio! Nel mondo frenetico dominato dalla tecnica tutto scorre via alla massima velocità possibile, col risultato che siamo, un po' tutti, troppo distratti. La vita quotidiana si svolge in un contesto troppo umano, nel senso che ovunque non c'è posto, ormai, se non per le infinite cose che l'uomo produce o costruisce. Le città sono enormi ambienti artificiali, soffocanti: aprendo una finestra di un palazzo, l'unico spettacolo possibile è quello del cemento, per non parlare dei suoni e degli odori, anch'essi innaturali.
Ecco dunque spiegato il motivo per cui il Diario di Lisi potrebbe acquistare grande fascino per il lettore moderno: si tratta di un romanzo che consente di far rivivere un tempo che va esaurendosi e che sopravvive giusto nelle piccole comunità di campagna, lontano dai grandi centri. Un anziano parroco che si commuove per un pesce sopravvissuto a una gelata, che si emoziona – per esempio – alla vista di due viole inaspettatamente cresciute nel mese di gennaio e che intrattiene rapporti di confidenza con tutti i fedeli affidati alla sua cura pastorale è senza dubbio testimone di un mondo che va scomparendo, ma di cui si avverte sempre di più la mancanza. Di quante persone, infatti, si sente dire che sono oppresse da uno stile di vita alienante, che riduce gli esseri umani a numeri e a ingranaggi? Quanta gente sente il bisogno di evadere da una realtà che ci accetta solo in funzione della nostra "utilità"? È davvero possibile vivere confinati in un mondo artificiale, dove si ottiene riconoscimento solo a patto di "servire" a qualcosa? Dove la natura va bene al massimo come sfondo per una bella fotografia e le persone quasi non si chiamano più per nome?
Qui non si tratta, a ben vedere, di credere o non credere. Certo, chi possiede il dono della fede è in grado di apprezzare sfumature dell'esistenza che ad altri magari sfuggono; ma il punto è un altro. La sola vita che conosciamo è quella che siamo costretti a trascorrere su questa terra, nei tempi e nei modi che Dio o il caso decidono per noi. Niente è scontato. Ogni giorno che passa, il miracolo della vita si ripete, dal momento in cui apriamo gli occhi la mattina a quando i sensi ci abbandonano la sera. Il fascino della vita è talmente straordinario che non può non colpire anche chi non crede in Dio. L'assenza di fede, infatti, non consente di negare un senso all'esistenza; casomai, si traduce nell'impossibilità di trovarne uno comprensibile, il che è ben altra cosa. Nessuno può affermare l'assoluta assenza di risposte per il solo fatto che è incapace di individuarne una plausibile. Pur nella carenza di certezze, lascia intendere Lisi, la vita merita di essere vissuta. Non fosse altro che per l'innato bisogno dell'uomo di soddisfare quella curiosità che lo spinge ad interrogarsi sul suo futuro incerto.
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